Ho fissato a lungo il foglio bianco. Mi veniva in mente soltanto Memoria delle mie puttane tristi di Gabriel Garcia Marquez, e non lo so perché, Cagliari non è né triste né puttana. Anzi. Cagliari è un po’ come una ragazza che sa di essere bella, di una bellezza antica e un po’ aristocratica, che viene da lontano, con le chiome di capperi al vento di un verde che ride, così scrive ne Il quinto passo è l’addio Sergio Atzeni, che sfacciate e un po’ arroganti sbucano qua e là nel calcare bianco delle mura.

Il fatto è che se fosse per me, di Cagliari non parlerei affatto. Forse perché ne sono un amante un po’ geloso. Oppure perché bisognerebbe ascoltarla per capirla, sentirne le voci i suoni i profumi la puzza – sì, anche la puzza che qua chiamiamo fraguo credete di poter amare qualcuno senza accettarne le ombre (e dunque anche su fragu?).

Allora mi è venuto in mente che se proprio a Cagliari vi ci devo portare, prima di tutto dovrei portarvi in uno dei cuori cittadini: il mercato di San Benedetto.

E qui comincio a perdermi. Come posso raccontarvi il mercato? Certo vi posso dire che, inaugurato nel 1957, con i suoi 8000 metri quadri è il più grande mercato al coperto d’Italia e tra i più grandi d’Europa. E poi? Come vi racconto l’odore del pesce fresco al piano terra, le voci che si inseguono tra un box e l’altro, “pisci, pisci friscu!”, “diamo le cozze!”, “laghebbelluproppu, ajò!”.



Da Domenico e Maurizio ho preso gamberetti, seppie, un trancio di tonno e uno di salmone.
«Poi vai su e ti prendi i pomodorini e due zucchine, ti viene una pasta che è uno spettacolo» mi ha detto Maurizio. Così ho fatto, e sono salito da Alberto, che ha il box al mercato da 25 anni. Visto che c’ero ho preso anche le ciliegie, e le albicocche.



All’uscita mi sono fatto un giro per via Dante, con le jacarande vestite a festa. Durante la primavera la città si riempie dei suoi fiori lilla. Fiori democratici, perché non fanno distinzione tra il centro e le periferie.

Quando cresci a Cagliari impari una cosa molto semplice, che però è necessaria per la tua sopravvivenza: questa città non ha discese, ma ha solo salite. E se lo impari ti cambia la prospettiva, acquisisci una diversa filosofia di vita. Impari che se ti capita di faticare, nella vita, non c’è scritto da nessuna parte che poi potrai trovar ristoro. Tanto vale allenare la gambe. O mantenerti ai margini. Forse è per questo che Sant’Elia è ai piedi del colle omonimo, San Michele è ai piedi del colle – in cima c’è il castello che apparteneva ai Carroz, ma più che castello era fortezza – e Sant’Avendrace sta ai piedi di Tuvixeddu. O forse no e questa è solo una di quelle cazzate che ci inventiamo noi scrittori presi dalla mania di dare un nome e un senso alle cose.



Insomma, Cagliari non è puttana, ve l’ho detto, ma non è nemmeno una santa. E di certo non è una di quelle madri che le cose te le insegnano nel rispetto delle più moderne pedagogie. Francesco Abate vi direbbe che sua mamma è come Cagliari, o viceversa: le cose te le impara – a Cagliari noi le cose non le insegniamo, le impariamo noi e le impariamo agli altri – a suon di battipanni. E se non sapete di cosa parlo vi tocca leggere Mia madre e altre catastrofi. Se arrivi dal mare ti accoglie con la palazzata del fronte porto, tra il liberty, il classico, il rinascimentale e il pugno in un occhio, quest’ultimo merito dell’architetto Mario Fiorentino, lo stesso che ha progettato il Corviale… e ci siamo capiti.



Insomma, bella è bella, aristocratica è aristocratica, però non manca di mostrarsi verace, sguaiata, popolana e popolare, insomma. E pure un po’ ferita nello sguardo, il suo e quello di chi la vive anche solo per poco. Per quanto alla tristezza, ho provato a cercarla. Sul bastione di Santa Croce ho trovato solo una profonda saudade ed è un grosso problema, ché qui ci sono passati catalani, pisani, genovesi, castigliani, piemontesi, ci hanno messo radici genti venute da ogni dove, persino da Seui (non c’è seuese a Cagliari che non abbia aperto un bar, non c’è un bar di Cagliari che non possa vantare legami con la Barbagia di Seulo) ma di portoghesi non è che me ne ricordi molti.



Da Santa Croce, passando sotto a una delle torri pisane, quella dell’Elefante, e attraversando via dell’Università, si arriva sull’altro Bastione, quello di Saint Remy, costruito sui resti spagnoli dei bastioni della Zecca e dello Sperone tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento per volere di Ottone Bacaredda – scrittore e sindaco, amato e carogna, sempre tornando a Sergio Atzeni – lo stesso del municipio che si trova davanti al porto e, a pensarci ora, entrambi sono di calcare bianchissimo. Se solo volessimo, potremmo salire ancora lungo via del Fossario e arrivare alla cattedrale di Santa Maria, e ancora più su, passando accanto al palazzo Viceregio, salire fino a piazza dell’Indipendenza. Da chi, o da cosa, non chiedetemelo.



Eppure, continua a sembrarmi che questa Cagliari, vista così, in volo, in un giorno, in una passeggiata nel suo centro, sarebbe soltanto una cartolina buona per turisti, quelli che scendono dalle navi da crociera e quando va bene la mia città la chiamano Cagliàri, e quando va male invece: Caglàri. Allora scendiamo – scendiamo si fa per dire, perché anche le discese salgono, sono faticose per le gambe e il cuore e la memoria, in questa città – lungo viale Regina Margherita, dove tornano le jacarande a riempire di viola il cielo. Qui c’è l’ex manifattura tabacchi – Sa Manifattura, si chiama adesso – ma vi invito a non fermarci, che i fantasmi delle sigaraie avrebbero da raccontarne, di storie, e andrebbe a finire che questo giro finirebbe qua. Attraversiamo via Roma – non guardate il cantiere, all’ex sindaco è venuta un’idea lungimirante, di quelle che non puoi lasciarti sfuggire – e prendiamo la passeggiata che sta sul mare, passa per Su Siccu e arriva fino a Sant’Elia. Ci vuole un po’, eh, ma ne vale la pena.



Ecco, Cagliari la puoi iniziare a capire da qui, dai palazzoni abbandonati che si affacciano su un panorama struggente, con le strade che la domenica mattina si trasformano in un mercato all’aperto, e che se prosegui lungo la strada che costeggia il borgo vecchio ci ritroviamo in una spiaggia minuscola, ai piedi della torre Perdusemini – del Prezzemolo, per i non indigeni – davanti allo scoglio di Sant’Elia, a ricordarci che la bellezza non ha portafogli e conti in banca, che pure agli ultimi, ai dimenticati, ai diseredati, spetta di diritto, come l’aria, come il pane e come la libertà.



Da qui, arrampicarsi non è facile ma ve lo avevo preannunciato: «Casteddu est tottu un’arziada!».
Quindi gambe in spalla, e raggiungiamo il faro. Questo è uno dei posti che amo di più. Da quassù, l’acqua di Calamosca è limpida, cristallina. Sembra finta. Mi piace più d’inverno che d’estate, e durante la settimana che nei weekend: troppa gente, troppo casino. Scaliamo, ancora. C’è un percorso sulla Sella del Diavolo, uno dei tanti colli cagliaritani, sette mi pare che siano, e da qui arriviamo alla torre del Poeta. Ora sì che la potete capire, la mia città, che non è puttana perché non si vende a nessuno, e non è triste perché, pure nella miseria, sa trovare una ragione per ridere e sentirsi la più ricca del mondo.