Già in Pacific Palisades (Einaudi 2017), Dario Voltolini aveva messo in discussione l’esistenza di chiari confini tra testo e mondo, memoria e io, spazio-tempo e materia. Lì lo scrittore invocava “palizzate” utili per marcare il punto di passaggio tra il territorio dell’io in cui siamo indifesi, teneri, nudi come il midollo – «il territorio dove continuamente si nasce» – e lo spazio dell’altro. Ce n’è bisogno, di queste barriere artificiali, create dagli umani per dare un senso alla realtà o per difendersi dall’invasione dell’altro, perché nell’universo voltoliniano tutto si fonde e converge. C’è un vorticare «di materia viva e morta», per dirla con Domenico Starnone, che attraversa i corpi e li unisce. Andando verso ipotesi filosofiche postumaniste, potremmo evocare il nuovo materialismo di Stacey Alaimo o di Karen Barad. Secondo quest’ultima, ad esempio, il mondo è un flusso ininterrotto di materia umana e non-umana, in cui avvengono continue interazioni tra elementi dell’una e dell’altra. E sarebbero queste interazioni, non le riflessioni o le interpretazioni degli umani, a generare ogni volta nuovi significati ed emozioni. Ebbene questo processo di significazione è messo a nudo continuamente in Invernale di Voltolini, testo di grande maturità e con punte di originalità espressiva di rara bellezza.

La storia, basata su materiale autobiografico, è quella del padre di Dario, il macellaio Gino che, metodico e preciso come un chirurgo, seziona, eviscera, spacca carcasse di animali, gestisce il banco del mercato in mezzo alla folla vociante, pesa la merce, dirige il lavoro con i gesti necessari di un direttore d’orchestra, fino al giorno in cui, per un errore di calcolo infinitesimale, il colpo indirizzato al corpo dell’animale si abbatte sul suo dito. Quel momento in cui «la danza si incaglia» diventa la causa scatenante di una malattia che si trasfigura in narrazione epica proprio a partire da una ferita casuale. Dice Voltolini: «Il sangue di lui si mescola a quello freddo della bestia. L’urlo suo scavalca per un attimo le voci della massa. Poi lui lo fa tacere, il suo urlo, e il dolore come sempre gli resta dentro» (p. 15).

Il grido del padre esplode al termine di una lunga descrizione fatta di crani schiacciati, carni smembrate, ossa incise e poi spaccate, in cui è stato il lettore a trattenere l’urlo che gli covava dentro, tanto viscerale è la prosa di Voltolini nella sua implicita allusione all’affinità che lega gli umani agli animali non umani. Ma quelli fino al momento del colpo mal assestato se ne stavano muti (come noi lettori), carcasse apparentemente senza vita maneggiate dal macellaio al solo scopo di diventare cibo per gli avventori del mercato. Da un lato, insomma, l’autore pone un quesito etico, allorché pare concentrare nel grido del padre gli urli non uditi, ma forse ancora racchiusi nella carne, degli animali così simili a noi. Dall’altro lato, con repentina impennata lirica, il dolore fisico di Gino si trasforma in pena esistenziale, fino a quel momento inascoltata per assecondare la routine di una vita in cui nulla devia dal cammino consueto. E qui si insinua nella mente del lettore il dubbio che la differenza tra umano e non-umano sia proprio in quella capacità di emozionarsi, di urlare per effetto di tristezza o angoscia, e non di ferita. Scrive ancora Voltolini: «Nello squarcio aveva trovato una via d’uscita qualcosa che gli premeva dentro da tempo, da sempre? Con dolore, ma il dolore della liberazione?» (p. 31).

Non credo sia una coincidenza che Barad parli proprio di taglio (agential cut), per spiegarci come sia possibile che un significato sia l’effetto di un incontro tra cose, persone e mondi, invece di essere il prodotto di una interpretazione da parte degli esseri umani pensanti. Le cose si incontrano e si verifica come un taglio, una cesura, da cui si scatena un processo di significazione. Questo accade appunto nella vita del padre di Dario: da quel momento in poi, ciò che aveva un senso solido e immutabile – gli animali, il mercato, il lavoro, l’alternarsi di sonno e veglia, il gesto di fumare una sigaretta – si presenta in una luce diversa, altra. Il punto di partenza è proprio la carne dell’animale, che inizialmente era apparsa senza vita e che di colpo appare come un alveare di batteri e virus: «un corpo pieno di vita che finalmente brulica senza padroni o gendarmi che operano al vertice della piramide. Vita dei batteri infine liberati, come schiavi dopo il crollo dell’impero. Di virus, che nemmeno i batteri considerano viventi, virus feccia della feccia» (p. 50).

Niente, pare dirci Voltolini, può essere considerato come materia inerte. O meglio, tutto è materia viva, anche quella che ci appare come morta.

E dunque, abbattute le palizzate o, come le chiama in Invernale, le «paratie» per arginare l’oceano dell’altro, del nuovo – batteri, esseri umani, incontri imprevisti, scarti dalla routine – l’io del padre di Dario comincia a cedere all’invasione. Le immagini evocate dall’autore per evocare il graduale cambiamento di prospettiva sono di grande suggestione e, non a caso, invocano una continuità tra umani e non-umani, corpo e paesaggio, natura e cultura. Ecco che un processo emotivo è spiegato con l’immagine di una risorgiva proveniente da una falda acquifera che si annida nel profondo e risale «alla superficie della piana» (p. 20). Sottraendosi al «bipolarismo tra casa e lavoro», all’improvviso accade che nella mente del padre si spalanchino mondi possibili mai visti prima, «mangrovie che piovono legno nell’acqua, […] aurore boreali che sventagliano nei cieli gelati […] senza fine pianure che il sole rinsecchisce» (p. 113). Non ha importanza che Gino non abbia mai visto una mangrovia, perché lo sfaldamento del tempo e dello spazio provocato dalla malattia fa sì che il mondo si presenti davvero ai suoi occhi per quello che è: una «foresta di immagini» senza confini, un universo poroso dove «la liana e il lemure si mescolano alla telefonata per ordinare altri rognoni, altri polmoni» (p. 115). Altrove, molto più avanti nel percorso del linfosarcoma, gli umori della falda si presentano invece asciugati e quasi solidificati in «un lago di pietra perpetua, che si intravede in un baleno di notte» (p. 122).

Presto al pendolarismo casa-lavoro si sostituisce quello Torino-Villejeuf, luogo dove si compiono i viaggi della speranza di Gino con la somministrazione di una sostanza dal leggiadro nome di Vincristina, che acquista proporzioni mitiche nelle metafore belliche di cui è oggetto.

Libro di una bellezza straziante, intensamente poetico, a me pare che Invernale si possa anche esplorare come rilettura, in alcune parti, della famosa elegia duinese di Rainer Maria Rilke, l’ottava, in cui il poeta si interrogava sulla differenza tra umano e animale: lì allo sguardo dell’essere umano, sempre rivolto verso l’interno, opacizzato dalla conoscenza pregressa del mondo delle forme, si contrapponeva quello dell’animale, innocente come una ferita, in grado di accogliere l’Aperto, il mondo nella sua essenza.

Oltre agli animali anche i bambini, in parte gli amanti e poi i morenti avrebbero la facoltà di vedere davvero. Questi ultimi sarebbero in grado di percepire il mondo come «spazio sterminato etereo» e il tempo come durata ed eternità, «il Tutto immenso», non solo la dimensione futura che di solito l’umano adulto vede.

Questo accade appunto a Gino che si accorge, osservando i suoi fucili da caccia appesi al muro, di riuscire a comprendere nella sua mente non solo il traguardo futuro che tiene il suo sguardo teleologicamente orientato, ma anche il mondo dell’ora e del prima: «Per la prima volta convocare nell’immaginazione non i futuri utilizzi delle due armi, i futuri fagiani, le future lepri, le beccacce. Convocare invece a ritroso nello stesso luogo gli utilizzi passati» (p. 45). E poi, di ricordo in ricordo, l’uomo riesce addirittura a contemplare la sua assenza nell’eterno, quella che lo fa «stare nel freddo senza tempo dell’ancora prima» (p. 47).  È importante notare qui la ricerca stilistica di Voltolini, in cui l’infinito sta a sottolineare come il tempo-durata prenda il sopravvento nella vita di Gino. Per la maggior parte del racconto, d’altronde, l’autore sceglie una terza persona che consente allo sguardo del figlio di rimanere sulla soglia, come un testimone rispettoso che ogni tanto però decide di spostarsi verso il centro e consentire all’io di mostrarsi, di dire la sua. Si tratta di uno spostamento fluido che, in sintonia con la filosofia cui, a mio avviso, si ispira tutto il testo, sfuma i confini tra mondo e io, tra vita e libro, e ci fa dire con Voltolini: «Mentre aspettiamo cose che poi saranno viste, la vita procede» (p. 104).


Dario Voltolini, Invernale, Milano, La Nave di Teseo, 2024, 17 €, 144 pp.