Site icon La Balena Bianca

«Forse quello che ci unisce è quello che rifiutiamo». I figli sono finiti di Walter Siti

«D’ora in poi il mio sarà erotismo postumo; non una rinuncia, perché ‘rinunciare’ è parola di giovinezza: la vecchiaia non rinuncia, commemora» (p. 421). La citazione è tratta da Scuola di nudo (1994), il primo romanzo di Walter Siti, e anticipa, esemplificandola, la postura narrativa che informa l’ultimo libro dello scrittore, edito da Rizzoli lo scorso aprile.

Descritto come «un viaggio di liquidazione personale, di temi e di vitalità», I figli sono finiti è soprattutto un romanzo di commemorazione della fine e di contemplazione curiosa e rassegnata del nuovo. Protagonisti sono Augusto, un settantenne pensionato e trapiantato di cuore costretto a restare in casa per evitare infezioni, e Astore, enfant prodige che, divorato rapidamente il presente (è stato studente precoce, poi influencer acclamato, infine esperto video gamer), decide, appena ventenne, di isolarsi dal mondo in attesa di tempi più interessanti.

Definiti come «due estremità del medesimo filo, due risposte sbagliate alla stessa domanda» (p. 229), Augusto e Astore rappresentano plasticamente i due diversi atteggiamenti enunciati dalla citazione di Scuola di nudo: la commemorazione e la rinuncia. Il primo, costretto dalla morte improvvisa del compagno a una «vecchiaia senza riparo» (p. 14), gestisce la propria esistenza tra i ricordi e il recupero stanco, automatico e scoraggiato dei nudi maschili, definitivamente incarnati nell’ultimo gigantesco culturista Franco Canepari; il secondo, un «minuscolo Edipo su una strada deserta, senza crocicchi e senza oracoli» (p. 57), sfinito dalla complessa crudeltà dei propri genitori e annoiato dal presente, sceglie di ritirarsi nell’appartamento sfitto di fronte a quello di Augusto per dedicarsi all’inazione,  «passando in rassegna, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, tutto quel che lo aveva interessato fino ad allora allo scopo di dimostrarne la sciocchezza e disintossicarsene» (p. 90).

Sebbene molto diversi – uno è un analfabeta digitale, l’altro un esperto dell’internet; uno è disinteressato alla causa ambientale, l’altro è ecologista e vegetariano; uno deride l’inclusività linguistica, l’altro è genuinamente interessato alle rivendicazioni femministe – Augusto e Astore riservano al presente un analogo atteggiamento contemplativo, prediligendo una paralisi che si traduce, nel settantenne, in un’inutile coazione a ripetere e, nel giovane, nel rifiuto dell’azione immediata a favore di utopistici progetti postumani («Bisogna arrivare a nutrirsi di anidride carbonica, imparare dalle piante», p. 55). I due personaggi rifiutano il presente adottando posture paradossali che, ancora una volta, pur nella loro differenza, finiscono per mostrare una radice comune: Augusto è disperato, ma di una disperazione apocalittica, fuori tempo e incongruamente vitalistica; Astore, al contrario, è portavoce di una speranza anagraficamente determinata, ma posticcia e potenziale, perché costruita su progetti più o meno futuristici e mai effettivamente realizzati. Passato e futuro diventano, quindi, le dimensioni all’interno delle quali trovare rifugio in questa fuga dalla realtà che avviene, e non è una novità, anche attraverso un’opposta esperienza del desiderio erotico: alla pienezza dei nudi maschili che ossessionano Augusto e che da sempre sono lo strumento di evasione per eccellenza nella narrativa di Siti, Astore oppone i pixel dei corpi generati dall’AI e l’immagine virtuale di Antonia che si masturba sul tatami della madre psicanalista, perché «per un’esperienza sessuale autentica non è necessaria la presenza contemporanea di due corpi» (p. 154). Instupidita, secondo Augusto, e migliorata, secondo Astore, dall’intelligenza artificiale, la realtà, sempre più sfuggente e manipolata, è obsoleta, un punto di partenza o un ricordo da sorpassare.  

Come Augusto, Siti commemora il passato e contempla il nuovo. Da una parte, I figli sono finiti è ricco di riferimenti più o meno espliciti dei romanzi precedenti: tornano le metafore liriche utilizzate in Scuola di nudo per descrivere i nudi maschili e il ricorso al mito, qui a quello del minotauro, come sottotrama implicita e strutturante (la cosiddetta “miniaturizzazione”); coerentemente a un rodato procedimento psicanalitico (surdeterminazione), la sindrome del cuore infranto di cui è affetto Augusto è, come in Un dolore normale il trasporto del cuore, anche la presa alla lettera di una metafora amorosa; le invocazioni di una natura indifferente e devastante, così come la narrazione binaria di due esistenze opposte ma paradossalmente vicine, ricordano La natura è innocente; le note a piè di pagina e il narratore come scriba rimandano a Bruciare tutto e a Resistere non serve a niente. Ancora, la caratterizzazione di due personaggi estremi, uno ascetico e tecnologico e l’altro ossessionato e stancamente umanista, ricorda quella operata in Le particelle elementari da Michel Houellebecq, autore letto e apprezzato da Siti, già esplicitamente citato in esergo in Troppi paradisi, da cui quest’ultimo pare recuperare la concezione della coppia come forma di comunismo primitivo capace di resistere all’individualismo imperante («Forse il momento in cui si è sentito più vicino alla collettività, amare Enzo aveva significato credere almeno un po’ nel progresso», p. 48). Dall’altra parte, però, Siti cede al nuovo infarcendo il testo di anglicismi tecnologici, recuperando lo slang della cosiddetta Gen Z, e tentando di comprendere il presente attraverso una vera e propria esperienza immersiva. Non solo, ne I figli sono finiti l’autore prova un’uscita definitiva dall’autofiction, il genere che ne ha maggiormente caratterizzato la produzione, inaugurando un personaggio nuovo, Astore appunto, diametralmente opposto al professore settantenne ossessionato dai culturisti, personaggio, invece, molto noto a chi conosce l’opera di Siti e che, non a caso, qui è ritratto moribondo.

Non è la prima volta che lo scrittore avvicina due mondi molto diversi tra loro: in Scuola di nudo, un accademico usciva dallo spazio elitario della Normale di Pisa per immergersi in quello popolare dei culturisti; in Troppi paradisi lo stesso personaggio diventava «microbo tra i microbi» per raccontare dall’interno la decadenza dell’Occidente; ne Il contagio un analogo professore, innamorato di un borgataro, teorizzava che tutto il mondo stesse diventando, per l’appunto, un’immensa borgata. Anche stilisticamente, Siti ha sempre accostato, mescolandoli, la lingua letteraria e il registro alto del suo omonimo personaggio con il dialetto esotico e informale dei suoi culturisti e stuntmen. Ne I figli sono finiti, però, questa contaminazione non si compie né all’interno della storia né, linguisticamente, nel testo: il mondo di Astore sembra restare precluso sia a Siti che ad Augusto. Il primo costruisce un personaggio anomalo, dichiaratamente atipico («c’ cussu cred’ che tu sei nu ventenne tipico, sta più frecato di te», p. 136, dice un amico ad Astore), che, se da una parte è capace di illuminare, nella sua eccezionalità, un ampio spettro di possibilità esperienziali, risulta, dall’altra, poco verosimile proprio in quanto convergenza di tanti e troppi modi di esistere. Anche stilisticamente, non sempre Siti sembra gestire agevolmente lo slang adoperato da Astore e in alcuni casi, per quanto funzionale alla costruzione della distanza-coincidenza con Augusto che cita Cros, Vigny e Baudelaire, la scelta di far parlare il proprio giovane personaggio attraverso canzoni pop italiane può risultare macchiettistica (fa eccezione la nota 4 del secondo capitolo, in cui, invece, la canzone de I cani, Sparire, è utilizzata con precisione dolorosa).

Questo disagio stilistico, lungi dall’essere accidentale, riflette la distanza che pure esiste tra i due personaggi della storia, spesso fatti parlare attraverso l’uso dell’indiretto libero: alla parola “barbiche”, il narratore attribuisce una nota a piè di pagina in cui spiega che «Astore preferirebbe ‘pizzetto’ ma è il lessico di Augusto e lui non può averle tutte vinte» (p. 110); in uno dei brani più belli del romanzo, l’uso da parte del personaggio più anziano del termine “vile” è debitamente commentato: «La parola inusuale, letteraria, staffila come un serpente e va a perdersi tra le bancarelle dei souvenir» (p. 269). Come Siti, infatti, Augusto tenta di attraversare e comprendere lo spazio in cui si muove Astore: traduce i versi dei suoi poeti con ChatGPT, chiede a quest’ultima di narrativizzare la propria storia con Franco, utilizza un’applicazione di AI in cui i pornoattori fanno l’amore con se stessi. Ma per quanto non del tutto immune dal meccanismo derealizzante che definisce la generazione del suo giovane dirimpettaio, Augusto non riesce a superare lo iato culturale ed esistenziale che esiste tra di loro. Astore stesso, verso la fine, denuncia questa impossibilità di contaminazione, rifiutando proprio quella fede nella realtà cui Augusto sembra, malgré soi, restare aggrappato e intorno a cui Siti ha costruito tutta la sua produzione letteraria precedente. Nell’ultimo capitolo, davanti alla spiaggia rosa di Elafonissi, meno bella delle immagini viste su internet, il personaggio più anziano si chiede: «Se la realtà sta morendo […], io che ci sto a fare?» (p. 269).

Walter Siti chiama a raccolta le costanti della sua produzione letteraria, mostrandone il logoramento. Se Scuola di nudo era un «ordigno inesploso» in cui erano «miniaturizzati, tutti i temi che mi si sono dispiegati in seguito; come se la mia intera produzione successiva fosse già lì, rattrappita e fetale» (Il dio impossibile, p. 1041), I figli sono finiti è, invece, la diapositiva di ciò che resta di quegli stessi temi trent’anni dopo, alle soglie di quella che sembra, per dirla con Astore, non tanto una rivoluzione rumorosa, ma una “mutazione” silente e inesorabile, un vero e proprio cambio di paradigma. Siti non riesce a rappresentare quest’ultima con la stessa vividezza e la stessa forza espressiva dei suoi romanzi precedenti, ma riesce comunque a coglierne i contorni e a condensarla in un’immagine tanto pregnante quanto sfuggente nel suo prestarsi a diverse letture: il minotauro. Rappresentato in copertina, annoiato e isolato al centro di un infinito labirinto, il figlio di Minosse e Pasifae si presta a molteplici interpretazioni: è il frutto della perversione sessuale che accomuna Franco e Piero (padre di Astore) e che, figurativamente, come spiegato nell’introduzione di Tutti i nomi di Ercole,ossessiona Siti da sempre; divora i giovani ateniesi come l’intelligenza artificiale si nutre delle parole degli utenti; ricorda l’ultimo culturista di Augusto, un ibrido di realtà e virtualità, il cui corpo è  «una nuvola gravida, un blob da fantascienza» (p. 152). Soprattutto, il minotauro è Augusto e Astore, non solo per le protesi effettive del primo e per quella immaginaria e desiderata del secondo, ma per la sua condizione di isolato all’interno di un labirinto (fatto di ricordi per il più vecchio e di speranze utopistiche per il più giovane), bestia rabbiosa e impotente, «c’ha ricevuto già ’l colpo mortale, / che gir non sa, ma qua e là saltella» (Inferno, XII, 23-24).


Walter Siti, I figli sono finiti, Rizzoli, Milano, 2024, pp. 288, € 19.