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Giulia Niccolai: sopra le righe, messa in «Riga»

Il «Riga» 45 dedicato a Giulia Niccolai, a cura di Alessandro Giammei, Nunzia Palmieri e Marco Belpoliti, innesca una strategia di lettura insolita: pur riconoscendone il carattere antologico, verrebbe quasi da dire enciclopedico, si finisce per volerne attraversare le diverse sezioni seguendo un ordine esaustivo, da copertina a copertina, affidandosi alle scelte ponderate dei curatori e al fascino dell’esplorazione in crescendo di una delle personalità più sfaccettate del secondo Novecento italiano.

Si parte dai testi creativi di Niccolai, selezionati e introdotti da Giammei, per poi mettersi in ascolto della voce personale dell’artista attraverso riflessioni autobiografiche, interviste e conversazioni, arrivando infine alla prospettiva critica, accademica e non, sul lavoro e sul profilo umano di Niccolai stessa. Un po’ come l’Autodidatta della Nausea sartriana, che compulsa i volumi della biblioteca di Bouville in rigoroso ordine alfabetico, il lettore di questo «Riga» si ritrova a non voler saltare nemmeno un passaggio della traiettoria di una fotografa («Che nel ricordo il fiume è come il mare», p. 18, da Il grande angolo, 1966) che diventa narratrice («Finito il romanzo, lo si mette in forno», p. 20, da King Clown, 1969-1979) che diventa poeta sperimentale («Como è trieste Venezia…», p. 38, da Greenwich, 1971) che diventa monaca buddista, in quest’ultima svolta sussumendo e quasi risolvendo le esperienze precedenti («Io mi presentavo sempre come | “traduttrice”, se poi mi capitava | di aggiungere: sono anche poeta, | immancabilmente l’interlocutore | mi correggeva: vuoi dire “poetessa”? | La volta successiva, con un’altra persona, | se dicevo: sono anche poetessa, | venivo comunque corretta con un: | vuoi dire “poeta”? | Insomma, una beffa. | Ora sono monaca», p. 64, da Frisbees di coda, d’occasione e di straforo, 1985-2011). Tutto, in questo percorso, assume un senso, se seguito con la cura e l’attenzione che la stessa arte di Niccolai invita a coltivare: anche la copertina del volume, una sequenza di scatti di Antonia Mulas dei tardi anni Settanta in cui Niccolai guarda in camera con un’espressione facciale sempre diversa, significando una ripetitività che accoglie il cambiamento.

Si potrebbero individuare tre percorsi di lettura particolarmente proficui, tra i tanti offerti dal lavoro di selezione critica di Giammei, Palmieri e Belpoliti. Il primo riguarda la dimensione del gioco, che ha caratterizzato l’intera produzione niccolaiana raggiungendo picchi di estro nella lunga stagione dei Frisbees. Questi ultimi, vere e proprie poesie da lanciare che Giammei definisce «in bilico tra la barzelletta e la massima zen, l’illuminazione psicanalitica e quella spirituale» (p. 55), mutuano dal gioco soprattutto la pluralità sottesa allo scambio con l’altro – in questo caso il lettore/ascoltatore, o lettrice/ascoltatrice, invitato/a a interagire con l’aerodinamicità della poesia e a rispedirla al mittente, arricchita della propria interpretazione. E se la co-creazione implica una condivisione di fatica intellettuale da parte di chi crea e di chi riceve, al tempo stesso la dimensione ludica garantisce una comunicabilità irriducibile di cui la neoavanguardia, pur frequentata e ben conosciuta da Niccolai, ha talvolta fatto a meno. Niccolai rifiuta dunque la legge autoritaria del senso, in questo affine ai colleghi e amici del Gruppo 63, ma ha anche bisogno di assicurarsi la prosecuzione dei giochi da lei intavolati, evitando chiusure monologiche e autoreferenziali.

In Greenwich, Dai Novissimi (1970-1972) e Substitution (1975) il gioco è prima di tutto questione linguistica: Niccolai prende a prestito, rispettivamente, la toponomastica dell’Encyclopedia Britannica, il lessico dell’introduzione di Alfredo Giuliani all’antologia I Novissimi e alcune citazioni di saggi di un numero di «Nuova Corrente» dedicato a Bachelard e la scienza, smontandoli e ricombinandoli in modo creativo e a suo modo sovversivo. In effetti, nell’intervento Il femminismo e l’arte di avanguardia italiana, pronunciato all’Università della California nel marzo del 1978, Niccolai nega una propria partecipazione attiva al movimento femminista, individuando le ragioni etiche e logistiche della sua effettiva distanza (pp. 112-128). Eppure è difficile non riconoscere una valenza femminista nel lavoro di appropriazione della parola maschile, normativa per tradizione, che Niccolai sovverte dall’interno, denormativizzandola e rendendola gioco pur senza ridicolizzarla («Sostituisci alla perdita del centro | la distruzione del centro | alla perdita di un senso | la negazione di un senso», p. 41). La marginalità femminile, nel Gruppo 63 come nella cultura italiana del secondo dopoguerra tout court, viene quasi rivendicata da Niccolai e per ciò stesso resa strumento di una lenta, ponderata ma inevitabile rivincita, in parallelo a un umorismo che riesce a farsi stile, secondo la lettura di Franco Tagliaferro (p. 326). Come inevitabile per un’artista poliedrica e in costante evoluzione, il gioco è anche quello che scavalca i limiti della lingua, approdando alla complessità della poesia concreta – già in Humpty Dumpty (1969) e poi in Poema & Oggetto (1974), Facsimile (1976) e Lettera aperta (1983) – di cui offrono letture illuminanti, in questo volume, Milli Graffi (pp. 261-266), Sarah Patricia Hill (pp. 363-378) e Taylor Yoonji Kang (pp. 437-457).

Si arriva così al secondo nodo interpretativo che il «Riga» dedicato a Niccolai delinea e suggerisce: quello relativo allo status della scrittura in un percorso umano e intellettuale che porta alla graduale negazione della scrittura stessa. La crisi esistenziale che coglie Niccolai alla soglia dei cinquant’anni, come ricostruito nel profilo biografico a cura di Palmieri e in diverse interviste del periodo maturo, si accompagna a un ictus cerebrale che priva la Shérézade glossolalica di Mulino di Bazzano (definizione di Giorgio Manganelli, p. 270) del suo strumento privilegiato: la parola. È in quello stesso periodo che Niccolai si avvicina al Buddismo, seguendo per i successivi venti anni gli insegnamenti di Lama tibetani e venendo ordinata, nel 1990, monaca alla scuola Gelugpa del Buddismo Mahayana. La meditazione, accolta come pratica quotidiana e filtro verso il mondo circostante, fa presto sorgere in Niccolai dubbi sulla necessità dell’espressione poetica: significativa, in questo senso, la Lettera a Beppe Sebaste del 2011, in cui l’autrice ricostruisce il proprio cammino spirituale e le ragioni della rinuncia alla scrittura: «Meditare, praticare tutti quegli anni mi era anche servito a liberarmi del passato, del peso del passato o comunque a viverlo più impersonalmente, essendomi liberata della fissazione che ognuno ha nei confronti di sé stesso» (p. 151).

Grazie alla visione d’insieme offerta dal «Riga», tuttavia, è possibile raggiungere un ulteriore livello di complessità: nonostante l’abbandono finale della scrittura da parte di Niccolai, è la sua stessa precedente poesia concreta a suggerire che di scrittura, o meglio espressione, espressività, arte, è in realtà possibile trovare traccia ovunque, a prescindere dal lavoro di mediazione operato dall’agente umano. Si potrebbe anzi ipotizzare che, se Niccolai accetta con così profonda serenità il proprio distacco dal mondo artistico di cui è stata protagonista attiva per decenni, è forse proprio per via della consapevolezza di aver donato una chiave di lettura del mondo valida ben oltre il proprio operato. Ipotesi sollecitata dalla stratificazione temporale e della molteplicità dei punti di vista del volume qui analizzato, che consente una lettura incrociata dei diversi periodi della vita artistica di Niccolai: appare così evidente come sia la sperimentazione ad aprire la strada al Buddismo, e come quest’ultimo diventi svolta ma anche ritorno, e dunque istanza sempre latente – Niccolai stessa confessa: «Dopo aver trovato il Buddismo tibetano ho avuto la sensazione di aver combattuto per cinquant’anni nella Legione straniera e di essere finalmente tornata a casa!» (p. 101).

È proprio la ricchezza delle suggestioni buddiste a costituire il terzo e ultimo polo di interesse qui proposto. Se la negazione della scrittura poetica può farsi affermazione di una scrittura a più ampio raggio, non esclusivamente umana, è per via di una coincidentia oppositorum dalla portata epistemologica – al di là dei principi logici occidentali di identità, non contraddizione e del terzo escluso (p. 283) – e esistenziale («essendo niente, siamo tutte le cose», p. 140) che ha molto a che fare con una visione del mondo buddista. L’eliminazione della «differenza tra il sé (che parla) e l’altro (che è visto)», osservata da W. J. T. Mitchell a proposito della poesia visiva (p. 371), è cardinale per il Buddismo, dove prende il nome sanscrito di paticca samuppada, ossia “origine co-dipendente”, o “coproduzione condizionata”, in base alla quale ogni fenomeno è legato a qualsiasi altro da un rapporto di interdipendenza. La relazionalità anche creativa di cui Niccolai prende atto già in King Clown, quando afferma che «nessun romanzo è sé stesso (come non lo sono nessuna cosa e nessuna persona) senza essere anche un altro» (p. 22), sembra anticipare il superamento buddista delle «contrapposizioni io/tu, questo/quello, l’uno/l’altro» (p. 420) che, accolto in modo diretto solo dagli anni Ottanta in poi, giustifica in maniera retroattiva la multiformità dell’ingegno di Niccolai.

Le stesse fotografie in copertina sembrano allora richiamare il tempio Sanjūsangen-dō, visitato da Niccolai nel 1997 a Kyoto e da lei descritto in Caleidoscopico Corrado, dove dieci file di sculture di Bodhisattva presentano ognuna «un’espressione diversa sul volto» (p. 141). Soprattutto, lo sguardo compassionevole del Buddha al centro di quelle file può essere accostato alla capacità di Niccolai, riscontrata da Davide Papotti, di «allevare amorevolmente parole neglette, dar loro spazio, farle crescere nelle loro sonorità, porle infine sopra il piedistallo dell’attenzione e della cura concesse di diritto al testo poetico scritto» (p. 459). Stessa attenzione e stessa cura con cui Giammei, Palmieri e Belpoliti hanno consegnato alla collezione dei «Riga» un volume imprescindibile per chiunque voglia approfondire il lato comico dei nonsense e quello profondo dell’afasia, di Giulia Niccolai così come dei molti artisti e intellettuali a lei legati da una sempre affettuosa comunanza di interessi.


La presente recensione è uscita sul numero 49 della rivista «Oblio. Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca», scaricabile gratuitamente a questo link.


Giulia Niccolai, a cura di Alessandro Giammei, Nunzia Palmieri e Marco Belpoliti, Macerata, Quodlibet, «Riga» 45, 2023, 26 €, 496 pp.