Non ti arrendere all’estate, leggi poesia. Molti dicono: finalmente è arrivato il tempo migliore, quello giusto, il meritato riposo. Troppo facile: rinnega la chimera del merito, confuta l’idea di riposo. Si tratta di disinnescare, grazie alla poesia. Otto consigli per mandare a rotoli i tuoi progetti di quiete nel modo che più preferisci. Oscurità, difficoltà, spiattellamento, poesia da colorare, canto a voci spiegate oppure monodia robotica, grufolio, ruttino. Tutto va bene, purché smantelli gli obbiettivi di un’estate.


Riccardo Frolloni, Amigdala. Un racconto in versi, Aragno, Torino, 2024, pp. € 15. (Stella Poli)

Il primo testo è un gaslighting graduale, forse il gaslighting fondativo, paradigmatico. Molto velocemente, poi, diversi piani: una faglia appenninica, una Bucureşti piena di areoporti sbagliati, e, alcune, pare, glosse a margine, che però, progressivamente, riconosci come tessere dello stesso soffitto, come, dopo il crollo di Assisi, «per il restauro della volta della basilica assisiate, detta il puzzle piu grande di sempre».

Inizi a addensare alcune linee, una è la paura, i suoi tragitti: «se c’è una fuga, allora c’è un pericolo […] Il processo, infatti, è il seguente: talamo – corteccia – amigdala»; una la manipolazione, le sue strategie, le tecniche da psicosette, i monologhi di Wanna Marchi.

Ha una grande tenuta narrativa, questo racconto in versi, a patto che non si confonda la narratività con la compiutezza, con l’esaustività degli archi narratologici. Tornano i personaggi, ma labile è la cronologia, sembra sempre di stare a un passo da uno scioglimento, mentre s’interrogano foglie di Sibilla che, mescolate, direbbero il contrario, ma mancano dei pezzi, nel modo in cui mancano i pezzi nelle famiglie, nelle esistenze: si evitano le questioni, le domande peggiori, «certe storie non erano mai state chiare, ma tutto si rimuove».


Martin Rueff, Verticale ponte. I poeti sconfinati, Modo Infoshop, Bologna, 2021, 80 pp., € 15,00. (Roberto Batisti)

Il lockdown più severo d’Europa, «il trauma più profondo che le società occidentali hanno vissuto nel secondo dopoguerra» – dice bene, nella postfazione, Guido Mazzoni – attendeva e forse attenderà ancora a lungo di essere compiutamente detto in letteratura: come per ogni trauma troppo grande, la rimozione è stata il prezzo da pagare per poter andare avanti. Una prima elaborazione poetica di quegli eventi non sarà certo da cercare nel volontarismo delle varie instant-antologie tematiche (tanto d’area ‘terrapiattista’ quando andràtuttobenista), ma possiamo trovarla dove forse non ce l’aspettavamo: come in questo libretto di Martin Rueff, poeta filosofo e traduttore francese, artigianalmente edito dalla benemerita libreria bolognese Modo Infoshop. Si tratta della prima raccolta scritta da Rueff in italiano: un atto d’amore verso una lingua e una letteratura da lui lungamente studiate, che si avvantaggia appieno della libertà un po’ folle e molto seria che ci si può permettere in un idioma non materno. I poeti italiani omaggiati nel sottotitolo – e spesso nei versi, con eco esplicite – sono dunque sconfinati anche perché la loro parola dà all’autore lo slancio per evadere dal confinamento, almeno con l’immaginazione lirica. Inoltre, se l’italiano non è lingua materna di Rueff, lo è però dei suoi figli, e lo sguardo infantile ha grande parte in questi versi. Solo così una scena banale come lo svuotamento della campana del vetro, osservata dal vuoto della reclusione, può diventare qualcosa a metà fra la caccia a un mostro fiabesco e un rito liberatorio alla Apollinaire, che si chiude «nel ricordo mattutino di Guillaume | del vetro che esplode come una fragorosa risata». Come accade in altre interessanti voci poetiche levatesi in questi anni – si veda Marina Grigorivna – l’appropriazione dell’italiano dall’esterno, con gli stridori morfosintattici e stilistici del caso, consente risultati di una freschezza inventiva e di un’incisività a tratti notevoli, nonché uno straniamento molto adeguato di fronte ai mesi più stran(iant)i delle nostre vite. Il libretto, d’altronde, è uscito pressoché a ridosso degli eventi, nel 2021: ma non è troppo tardi per recuperarlo.


Charles Baudelaire, I fiori del male, a cura di Milo De Angelis, Mondadori, Milano, 2024, 440 pp., € 22. (Noemy Nagy)

La nuova edizione dei Fiori del male di Baudelaire, curata da Milo De Angelis e uscita quest’anno per Lo Specchio Mondadori, pone di fronte alla necessità della traduzione, e della ritraduzione. Una necessità urgente, nonostante – e in virtù delle – numerose trasposizioni attraverso cui il testo è già passato, ricordando al suo lettore come la traduzione consista, anche, in un atto critico, oltre che – come in questo caso – pienamente poetico. La versione che offre oggi De Angelis segna così un momento fondamentale nella contemporanea interpretazione del capolavoro baudelairiano. Ma, soprattutto, presta nuova voce a quel cigno impantanato nel fango che tanto ha ancora a che fare con l’«uomo del nostro tempo, scisso e sradicato da se stesso» (p. 2).


Marko Miladinović, Libro massimo di poesia. Swiss italian ex jugoslavian not (yet) european poetry sketches book & superulteriori, Agenzia X, Milano, 2024, 188 pp., € 14. (Filippo Balestra)

Ma certo: il Libro massimo di poesia di Marko Miladinović (Swiss italian ex jugoslavian not (yet) european poetry sketches book & superulteriori), ecco il libro di cui parlerei, anche se c’è il problema che di Miladinović sono amico e che ci vado in giro a fare delle serate. Però non ce le farei le serate se non fosse che il suo modo di intendere la poesia contiene in sé una forma contagiosa di coraggio che infonde anche, appunto, a chi gli sta intorno facendogli rivedere le cose, riposizionare la propria idea di poesia. C’è coraggio ed eternità in questo libro (edito da Agenzia X) e anche una specie di senso di sbadataggine molto raffinata. Ma soprattutto coraggio, anche visivo, di pagine riempite da magari soltanto un dettaglio, o grafici con una parvenza di scientificità che riportano però a un discorso etico ed estetico dunque di armonia delle forme e delle idee. Mi pare lampante la vicinanza di Miladinović con le avanguardie dei secoli scorsi (avanguardie poetiche ma anche artistiche, dunque artistiche quindi poetiche, ed ecco il coraggio di tornare a mischiare e confondere le carte).

Insomma per me la parola chiave di questo libro è la parola coraggio, e io lo ringrazio, Miladinović, e gliel’ho anche detto: grazie per il tuo coraggio. Prima che lo pubblicasse, ricordo, io che son meno coraggioso mi son trovato a chiedergli se “Libro Massimo di Poesia” potesse essere titolo esagerato, ma Miladinovic aveva la risposta da dare ai tentennanti, come me, o, peggio, agli eventuali detrattori: che ognuno si faccia il proprio Libro Massimo di Poesia, e vediamo poi dopo cosa succede.


Andrea Raos, Le api migratori, [dia•foria/dreamBOOK, Viareggio-Pisa, 2022, 124 pp., € 17. (Antonio Francesco Perozzi)

La cosa più difficile da valutare di un libro – specie di fronte a un’editoria che ci abitua all’instant – è la sua pregnanza storica. Per questo la ripubblicazione di Le api migratori di Andrea Raos da parte di [dia•foria, nel 2022, è doppiamente preziosa: reimmette nel circuito della poesia contemporanea un libro potente come quello di Raos (uscito originariamente per Oèdipus nel 2007); dimostra, appunto, che la letteratura è soprattutto un fatto di continue rifunzionalizzazioni e manomissioni del quadro.

Cosa curiosa, poi, è che l’irruzione nello spazio riguarda anche il contenuto del libro, visto che le api o gli api del titolo si riferiscono a un esperimento del ’56 degenerato in una minacciosa migrazione di “api assassine”. A ricostruire la stratificazione di senso veicolata dagli insetti (tra riscritture, allegorie ed eventi storici) pensa Paolo Giovannetti nella prefazione; qui possiamo aggiungere una nota sulla natura multiforme della scrittura di Raos, che oscilla tra poesia monstre, micro-testo ed esperimento verbovisivo, e sull’ambiguità simbolica delle api (creature alienate o massa in rivolta? virus o liberazione?). Dulcis in fundo, una bellissima lettera di Giuliano Mesa per chiudere il libro.

Ecco, Le api migratori, innanzitutto, è un libro. Nel senso che è un lavoro pensato globalmente, senza la vanità del “bel pezzo”; che costruisce un immaginario testuale compatto e organico e consapevolmente lo disorganizza; che è politicamente esplosivo. E questo – specie nel panorama attuale della poesia nostrana – non mi sembra poco.


Giulio Marzaioli, thermae. un film, [dia•foria/dreamBOOK, Viareggio-Pisa 2023, s.pp., € 15,00 (Marcello Sessa)

L’oggetto che, alla fine dello scorso anno, Giulio Marzaioli ha elaborato insieme ai grafici dell’editore [dia•foria, rigetta d’ufficio collocazioni tanto “poetiche” quanto “prosastiche” (sebbene si intravedano, una volta aperto, precipitati di racconto). È la specificità del suo carattere “filmico”, reclamato fin dal titolo, a renderlo peculiare: ad allontanarlo persino dalla nozione di testo. L’autore ingaggia una sfida verso la ricerca di una letterarietà che sia cinematografica – o meglio cinetica – e che debba letteralmente imbibire, come un’emulsione, il formato-libro: dalle pagine alla copertina, dalle parole alle fotografie che si intercorrono tra loro (si badi però a non giudicare l’opera con le dinamiche analogiche del fototesto: il proposito qui è quello di trascendere la pagina non appena sfugge al dito, di sopprimere infine il leggibile e il visibile). Come ha fatto, lo scrittore-cineasta? Ha inscenato l’«erosione del tempo» percepito da due persone che, varcata la soglia di uno stabilimento termale, divengono “ospiti”: esseri senza passato né futuro, fermi ai bordi di un fonte battesimale. A differenza dei catecumeni, non diventano “uomini nuovi”, ma sfocano nel flou del referente fotografico del loro ethos: una teoria di colonne trasmutata in Rasterbild. Scacciato da questo raffinato esperimento è il fantasma del montaggio, per decenni l’unico espediente che la letteratura ha rubato al cinema, spesso senza sfruttarne appieno il portato; thermae, al contrario, è un piano sequenza che invita a «immergersi nelle acque sulfuree» del linguaggio: è “piscinéma”, come si legge nel cartello della sezione “acquatica” di L’étoile de mer di Man Ray.


Aleksandr Ida Travi, I Tolki, Il saggiatore, Milano, 2024, pp. 480, € 22. (Pier Franco Brandimarte)

Discorsi spezzati di vocette misteriose, apparizioni vocali, essenze alfabetiche con nomi e caratteri che baluginano in una piccola eternità di gesti domestici e oggetti comuni, in spazi immaginabili come in un film di Bela Tarr, dove la salvezza passa da porte rugginose, da riparare con chiodi e martello. Queste essenze in abiti da lavoro parlano, si domandano, sfociando ogni volta nella luce. I Tolki sono conversari incantati, elementari e profondi, affiorati dal 2010 nel teatro mentale della poetessa e diffusi in cinque volumetti che formano una cosmologia compatta: l’opus magnum di Ida Travi che Il Saggiatore meritoriamente ripubblica in questo libro.


Alessandro Broggi, , tic, 2024, 119 pp., € 15. (Lorenzo Cardilli)

A prima vista l’ultima raccolta di Alessandro Broggi pare un manuale per il depensamento del soggetto, della sua intelaiatura di percezioni, cognizioni, insistenze nello spazio e nel tempo. Prose brevi o brevissime si susseguono secondo numerazioni provvisorie e contrastanti, alternano monologhi e apostrofi, rivolgendosi a un tu (al lettore?) o evocando i ragionamenti di personaggi poco definiti. «Hai coltivato ovunque interpolazioni riflessive come un perseverante allenamento alla provvisorietà», «non risaldando e anzi ritirando grado a grado tutte le proiezioni», «evitando di trarre la propria identità da un’idea di separatezza»: è davvero possibile dismettere «condizionamenti, convinzioni e copioni», piantandola di «produrre singolarità nel cuore dell’indifferenziato»? Il sottile, ironico gioco enunciativo del libro ci dice di sì, e insieme mostra come emancipazione e consapevolezza siano a loro volta un posizionamento, forse l’“ultimo esempio”, per dirla col titolo della sezione posta in chiusura. ci guida in questa contraddizione da nastro di Möbius o disegno di Escher: da un lato analizza in modo spietato la diversità dei soggetti, delle azioni e delle intenzioni, mostrandone la comune inconsistenza (si legga la brillante sezione Attività); dall’altro conclude che «ogni cosa […] può soltanto essere vissuta», data l’irrealtà del linguaggio e la parzialità di qualsiasi esperienza del mondo.


L’immagine di copertina è realizzata dal nostro Massimo Cotugno.