La Balena Bianca sospende le pubblicazioni fino a settembre. Anche stavolta non potevamo mancare di congedarci con gli ormai leggendari consigli di lettura estivi di prosa a cura della redazione. 

Antonella Moscati, Patologie, Quodlibet (Niccolò Amelii)

Patologie di Antonella Moscati (pubblicato per la prima volta in Francia nel 2020 e riproposto da qualche mese in Italia da Quodlibet) è un libro ancipite, composto da due testi tra loro diversi per registro e impostazione, che però – come scrive la stessa autrice nella postfazione – si interrogano sulla stessa cosa: «come nasce il ricordo, chi è che ricorda, quando, come e se possiamo dire che un ricordo è vero». Il primo – intitolato, appunto, Patologie – è un “lessico famigliare” composto attraverso i nomi delle malattie – reali, presunte o immaginate – dei suoi membri, in cui un io ipertrofico scivola continuamente nel “noi” in un gioco pronominale che indaga le stratificazioni della memoria. Nonostante l’esattezza nomenclatoria, la prosa sottile e però vivace, a tratti divertita di Moscati si posiziona agli antipodi della lingua asettica e neutra del referto medico, trovando il proprio baricentro stilistico ideale tra Ginzburg (con fluidità e ritmo più colorito) e Ramondino (con una semplicità sintattica molto meno barocca). Nel secondo testo – dal titolo Agt (acronimo di “amnesia globale transitoria”) – il tono si fa più trattenuto e serio, il precedente idioletto famigliare “semicomico” di ricette e prescrizioni lascia spazio a una nervatura filosofico-saggistica molto più spessa ed esibita e il racconto, che prende le mosse da un fatto personale – l’improvvisa perdita di memoria dell’autrice dovuta, appunto, all’amnesia globale transitoria –, diventa il pretesto per un’acuta riflessione sul valore della memoria, sulla percezione di sé stessi e sullo statuto di realtà del ricordo. 


Chicca Gagliardo, Quando ci scopriremo poeti nessuno potrà prenderci, Hacca (Claudio Bagnasco)

In un’epoca di forsennata autopromozione (di sé e delle proprie opere), stupisce e conforta l’uscita del nuovo libro di Chicca Gagliardo, Quando ci scopriremo poeti nessuno potrà prenderci, che Hacca ha dato alle stampe nell’aprile del 2024. Il lavoro, leggiamo nell’aletta del volume, “nasce da un tempo nel silenzio”, che non significa solo una notevole distanza (otto anni) dall’ultima pubblicazione della scrittrice. Lo si comprende dall’attenzione dedicata a ogni singola parola, caricata del suo massimo significato e della sua massima musicalità, come accade nella poesia o nella preghiera. La rarefatta prosa di Chicca Gagliardo dialoga con una serie di fotografie scattate dalla stessa autrice, dando vita a un originalissimo linguaggio che ci mostra da una prospettiva nuova la realtà quotidiana, le cose del mondo. Perché se è vero che “In noi c’è una ferita che brucia più forte di noi” (p. 118) è altrettanto vero che “Più a fondo c’è luce che brucia più forte / di ogni ferita” (ibid.). La lettura di Quando ci scopriremo poeti nessuno potrà prenderci è consigliata soprattutto a chi si sente soffocato dalla sovraesposizione al fare e necessita di ritrovare il ritmo umano.


Iacopo Gardelli, L’Alsìr. Romanzo balneare, Fernandel (Roberto Batisti)

Nessuna lettura potrebbe esser più letteralmente da ombrellone del romanzo d’esordio del romagnolo Iacopo Gardelli, che fin dal sottotitolo s’iscrive al genere balneare: da intendersi, però, non nel senso del disimpegno, perché Gardelli è un vero scrittore e il suo libro, pur scorrendo senza fatica, non è certo un prodotto usa e getta. Balneare è invece il punto d’osservazione prescelto dall’autore per raccontare vent’anni di storia e società italiana, tramite le vicende di due famiglie – molto diverse per estrazione – frequentatrici abituali dello stabilimento dei lidi ravennati che dà il titolo al romanzo. Poiché gli anni raccontati, a cavallo del millennio, sono quelli del nostro declino, il tono di fondo è amaro, elegiaco, lontano dal solare edonismo a cui l’ambientazione potrebbe far pensare. E un senso di scacco e d’insoddisfazione sembra dominare la vite dei protagonisti e i loro vari intrecci amicali, lavorativi, amorosi. Al tempo stesso, però, il racconto di una decadenza generale a partire da una realtà marginale, ma ben localizzata e ben conosciuta, risulta molto più credibile rispetto ai vasti affreschi a tinte apocalittiche di chi tenta il Grande Romanzo Italiano. La fedeltà di Gardelli al suo oggetto emerge notevolmente nella lingua, che se limita al minimo gl’inserti in dialetto vero e proprio, è però fortemente insaporita da robuste iniezioni di lessico e morfosintassi regionali. I molti romagnolismi – che in assenza di qualsivoglia glossario tocca al lettore indovinare, con un bell’esercizio d’induzione contestuale (e garantisco che quasi tutti già a Bologna suonano esotici) – sono comunque solo il più vistoso dei tanti, pregevoli effetti di realtà di un libro che, tra acuti affondi sociologici e precise notazioni meteo-paesaggistiche, ci lascia con l’impressione di saperne davvero qualcosa di più su noi stessi e sul mare mucillaginoso in cui spesso ci siamo bagnati.


Rachel Cusk, La seconda casa, trad. Isabella Pasqualetto, Einaudi (Marzia Beltrami)

Convinta di poter stabilire un inedito rapporto di comunione intellettuale, la scrittrice M invita il pittore L a trascorrere alcuni mesi in una sorta di ritiro artistico nel cottage ai margini della sua tenuta. Quello che doveva essere un incontro epifanico, si rivela un evento dalle conseguenze esplosive per il piccolo e curato mondo famigliare di M, le cui radici si scoprono essere misteriose e instabili al pari delle circostanti marshes, affascinanti terre basse e ricche d’acqua la cui mappa di sentieri e canali può trovarsi completamente trasformata dopo una notte di pioggia. Questa, in poche righe, la trama de La seconda casa, l’ultimo romanzo tradotto in Italia di Rachel Cusk (in attesa di Parade, pubblicato recentemente in inglese ma di cui alcune parti sono comparse già per Marsilio). La seconda casa è un libro inaspettatamente novecentesco, che mette da parte le ibridazioni dell’ipercontemporaneo e recupera un gusto pieno per la fiction che ricorda piuttosto i romanzi di Iris Murdoch, con pochi personaggi invischiati in rapporti fatali e financo grotteschi. Rinunciando alla molteplicità prismatica di Resoconto, Transiti e Onori ma mantenendo una prosa asciutta e precisa, Cusk questa volta sceglie una storia e la costruisce da cima a fondo. Non da ultimo dando forma ad una protagonista e voce narrante che, con la sua forza narrativa filtrata da una indefinita ed eppur innegabile antipatia, problematizza il rapporto tra esperienza e la sua elaborazione artistica, ribadendo l’importanza del narrare nel definire il proprio agire nel mondo ma ricordandoci anche il sottile e ambiguo confine tra raccontarsi e raccontarsela.


Claudia Lanteri, L’isola e il tempo, Einaudi (Lorenzo Berto)

La forza di questo romanzo è custodita già nel titolo: da un lato la dimensione spaziale di un’isola innominata a sud della Sicilia evocata da una lingua precisa, scientifica e vernacolare che solletica l’immaginazione del lettore. Dall’altro lato un tempo – quello della memoria del protagonista Nofriu, il quale ricorda tre settimane terribili del sé bambino – che deforma la realtà, rendendola un eterno presente, affascinante e disturbante al tempo stesso, e che chiede al lettore di stringere un patto: farsi trascinare dalle sue spire confuse all’interno di questa storia fosca: «Via via che si allontana nel passato, la somiglianza col vero del ricordo diminuisce. Si fa avvicinare a malapena, come il leprotto al muso del cane stanco: pensi di essere vicino a catturarlo e quello sfugge via» (p.136). L’esordio di Lanteri è un giallo letterario: il pretesto noir – l’arrivo sulla costa di una barca guidata da un uomo con a bordo il corpo di una donna morta – perde di nitore di fronte a una dimensione letteraria ricorsiva e incantevole che ricorda la scrittura dei grandi classici – in particolare di Morante. Una storia che diviene ritratto della nostalgia e della natura dell’uomo: «fa il male senza accorgersi e senza una ragione. Un insegnamento che alcuni scambiano per una via libera» (p.193). Complesso, a volte confuso e imperscrutabile, ipnotico e sfuggente come una fatamorgana, L’isola e il tempo è una promessa di stupore, una speranza esaudita nel voler incontrare la forza di un classico nella penna di un’esordiente d’oggi.


Matteo Terzaghi, Il manuale del fosforo e dei fiammiferi, Quodlibet (Michele Farina)

Cinque anni dopo il delizioso La Terra e il suo satellite Matteo Terzaghi torna in libreria con Il manuale del fosforo e dei fiammiferi nella collana «Quodlibet Storie». Con questo libro l’autore ticinese conferma la sua affezione al formato della raccolta di prose brevi, che flirta con i generi prosastici più diversi: enciclopedie, favole, manuali, riscritture, temi scolastici. Rispetto ai suoi libri precedenti, Terzaghi aumenta la ricorrenza di alcuni simboli, ad esempio l’immagine del fuoco come metafora del narrare, per rendere più compatta la struttura dell’opera e contenere il rischio di dispersività. Per adescare e convincere il lettore indeciso trascrivo a bella posta i titoli, impagabili, di alcuni pezzetti del libro: La favola postale, L’enciclopedista selvatico, Il manuale delle talpe, Piccolo libro di lettura a uso di chi passa, Capitolo a manovella, Accendere un lumino. Anche in questo Manuale la maschera di Terzaghi resta quella di uno scolaro curioso e sensibilissimo, convinto che non esista fenomeno così piccolo o irrilevante da non contenere una fiammella di meraviglia.


Ia Genberg, I dettagli, trad. Alessandra Scali, Iperborea (Martina Pala)

Pubblicato in Svezia nel 2022 e tradotto in Italia per i tipi di Iperborea, I dettagli, di Ia Genberg, è un libricino di 140 pagine che in così poco spazio si dimostra capace di scavare a fondo nella soggettività della voce narrante e di restituire la complessità di un io che si definisce e trasforma in relazione agli altri. La cornice che giustifica questo viaggio interiore tanto breve quanto profondo è la febbre della protagonista, che costringe quest’ultima a letto a rimuginare e a scrivere. Il libro si articola in quattro capitoli che portano i nomi delle persone (e dei rapporti) che hanno segnato un certo periodo della vita della voce narrante, definendone e plasmandone l’identità. È solo attraverso l’altro, infatti, che la scrittrice impara a conoscersi e a spiegarsi. I rapporti raccontati, quasi sempre privi di grandi eventi ma piuttosto connotati dai sentimenti che li hanno nutriti e dalle piccole ma significative abitudini create insieme, si sviluppano nel tempo ma non in ordine cronologico, incrociandosi di sfuggita ma senza mai dare vita a una gerarchia rigida. Nonostante l’intensità dei sentimenti e la convinzione, quasi ogni volta, che non possano finire, tutti i rapporti descritti, in un modo o nell’altro, terminano, lasciando la protagonista ciclicamente sola. Quello che però resta alla protagonista, anche quando la solitudine sopraggiunge, ogni volta, inevitabile, è il dialogo con le persone amate e ora assenti, che sembra risuonare internamente e trovare voce di nuovo nella scrittura. I dettagli, con la sua attenzione ai sentimenti piuttosto che agli eventi, con la caratterizzazione dell’io attraverso l’altro, con il suo fluire ritmico ma lento, è uno di quei “libri [che] ci restano nel sangue anche se nomi e dettagli sono ormai sbiaditi nel tempo” (p. 12).


Lu Min, Cena per sei, trad. Natalia Riva, Orientalia (Federico Picerni)

La letteratura cinese ha la nomea di essere caratterizzata da romanzi prolissi, pesanti e difficilmente comprensibili da chi non ha una solida formazione sulla storia della Cina, soprattutto moderna e contemporanea. Ci potrebbero essere varie risposte, ma per questa estate forse quella migliore è Cena per sei di Lu Min. Incalzante e avvincente, caratterizzato da una galleria di personaggi molto ben strutturati, i cui punti di vista si alternano di capitolo in capitolo, il romanzo, opera di un’autrice emergente, si svolge sullo sfondo delle grandi trasformazioni economiche che scossero la Cina negli anni ’90, con il graduale passaggio al capitalismo e gli effetti traumatici che questo ebbe sulla società. Con il legame famigliare e un misterioso incidente a fungere da collante narrativo, i sei vivono sulla propria pelle (e nella propria psiche) questi epocali cambiamenti, aprendo una finestra preziosa su come furono vissuti questi ultimi dalle comunità operaie lasciate alla coda del “miracolo cinese”.


Vitaliano Trevisan, Trilogia di Thomas. Un mondo meraviglioso, I quindicimila passi, Il ponte, con postfazione di Emanuele Trevi, Einaudi (Stella Poli)

Succede, a volte, per accidente biografico o giovanile disattenzione – ma non solo – di scoprire un autore importante già in un punto avanzato della sua parabola narrativa. Tanto più salvifica pare allora la meritoria iniziativa di Einaudi che raccoglie i primi testi di Trevisan, ormai non semplici da trovare, in un’unica pubblicazione, con partecipe e acuta postfazione di Trevi. Uniti, uno standard, un resoconto, un crollo (questi i sottotitoli, rispettivamente, dei tre testi ristampati), fanno sistema, forse persino troppo compatto: dovremo tentare di distinguere, allora, nella topografia vicentina e iper-mentale, rimuginante, con punte d’icasticità quasi insostenibile, i cambi di ritmo, le microinfrazioni narrative. Leggere Trevisan spesso è scomodo («sembrava composto esclusivamente di spigoli», Trevi) perché alcune scene – gli occhi di coniglio all’asilo delle suore, certi pescatori glabri, i saggi sui suicidi per impiccagione o gli elenchi, lunghissimi, degli scomparsi – prenderanno in ostaggio la nostra memoria come incubi ricorrenti, da cui, nemmeno ci sarà dato svegliarci, per prendere fiato: «Per questo non fui così sorpreso quando mio fratello, […] si fermò di colpo e mi disse che lui quel giubbotto di cuoio ungherese che avevo addosso, non si sarebbe mai sognato di indossarlo; che fin dalla prima volta che l’aveva visto gli era sembrato un giubbotto orribile, […] e il fatto che papà l’avesse tolto a un cadavere congelato lo rendeva, se possibile, ancora più ripugnante, disse, soprattutto per il modo in cui gliel’avrà tolto. […] E come si fa, disse mio fratello, a togliere di dosso un giubbotto a un uomo surgelato? […] Vedo papà che gli spezza tutte le articolazioni: delle dita del polso del gomito della spalla del collo, forse anche della schiena. Sento dei suoni orribili, suoni spezzati e suoni sordi e fruscii, forse avrà usato il calcio del fucile per spezzargli tutte le ossa, chi lo sa, può essere, o una vanga».


Neige Sinno, Triste tigre, trad. Luciana Cisbani, Neri Pozza (Giacomo Raccis)

Neige Sinno è una scrittrice francese, vive in Messico e ha all’attivo alcuni romanzi. Nel 2023 ha pubblicato Triste tigre, memoir in cui per la prima volta racconta la storia degli abusi sessuali subiti durante la sua infanzia ad opera del patrigno. Decidere di raccontare in un libro questa vicenda l’ha portata a ripercorrere alcuni dei passi che, anni prima, l’avevano spinta a denunciare e a sostenere il processo contro quell’uomo (poi condannato). Come si sa, denunciare una violenza, soprattutto se domestica, significa decretare in maniera definitiva la fine di un mondo, quello del prima, e l’inizio di un mondo nuovo, sconosciuto e orrendo. Bisogna essere pronti a perdere tutto quando si parla: «E in cambio che ci si guadagna? Non lo so. Ci si guadagna la verità, ma che cos’è la verità, esattamente, non saprei dirlo». Lo stesso si potrebbe dire per chi, già scrittrice, decide di pubblicare un libro come questo, che inevitabilmente condizionerà la considerazione del pubblico, che trasformerà l’autrice in un’esperta di stupro, di incesto, di violenza – e solo di quello. Una dinamica che sembra rendere inutile qualsiasi arrovellamento intorno alla forma da dare al racconto, alla possibilità di renderlo letteratura: «ho paura che l’unica cosa che mi succeda con questo libro sia di essere invitata a delle trasmissioni radiofoniche sull’incesto, dove mi verrà richiesto di riassumere con un linguaggio ancora più semplice di quello del libro le cose che racconto qui dentro». Con Triste tigre, che ha recentemente vinto il Premio Strega Europeo dopo aver vinto diversi altri premi in Francia, Sinno mostra come la necessità di dire sopravanzi qualsiasi progetto e qualsiasi tentativo di irregimentare la scrittura entro categorie di genere, ma anche all’interno di specifiche intonazioni, muovendosi con uguale opportunità tra la freddezza con cui riferisce i dettagli delle violenze e la generosità con cui arriva a comprendere altri punti di vista rispetto al suo, fino alla rassegnata consapevolezza con cui riconosce che la violenza crea un punto cieco nella vita di una persona, un luogo che fa resistenza a qualsiasi tentativo di spiegare in maniera definitiva e univoca: «Non prendete questo testo nel suo insieme per una confessione. Qui non c’è nessun diario, nessuna sincerità possibile, nemmeno nessuna bugia. Il mio spazio, quello davvero mio, non è in queste righe, esiste solo dentro».


A. M. Homes, Il complotto, trad. Maria Baiocchi e Anna Tagliavini, Feltrinelli (Mattia Ravasi)

How the other half lives: un’espressione inglese che descrive il fascino e la stranezza della vita quotidiana di chi appartiene ad una classe sociale diversa dalla nostra. Il complotto di A. M. Homes è un romanzo insieme sornione e lucidissimo che offre proprio il piacere voyeuristico di osservare come vive “l’altra metà,” garantendo al lettore (che si presume essere di simpatie liberali, progressiste, o perlomeno non ur-fascistiche) uno squarcio di vita di un facoltosissimo lobbysta repubblicano noto solo come the Big Guy, il “Grand’uomo”. Una vicenda che parte dalla vittoria di Obama alle elezioni del 2008, vissuta dal Grand’uomo come una catastrofe, per parlare della sua disillusione con le figure chiave del suo partito, della sua idea antiquata (e opaca) di America, e dei piani che è pronto a mettere in moto per sventare quella che vede come la discesa del suo paese nella rovina. Una fotografia che sembra il negativo dei panici liberali degli anni Dieci (in primis quello seguito all’elezione di Trump), e che suggerisce i modi insieme subdoli e goffi, e le motivazioni tra l’astuto e il ridicolo, con cui i potenti della Terra affrontano qualunque segnale di cambiamento. Il tutto intrecciato con un dramma familiare delineato con precisione, empatia e arguzia. Il complotto è un romanzo avvincente ed esilarante che offre un quadro genuinamente sinistro della situazione politica contemporanea, senza ricorrere a semplificazioni o vittimismo.


Antonio Moresco, Canto del buio e della luce, Feltrinelli (Cesare Sinatti)

L’opposto di un romanzo estivo, in queste giornate allungate fino a stracciarsi e esasperate da temperature sempre più estreme, è senza dubbio Canto del buio e della luce di Antonio Moresco. In questo libro le giornate non solo non si allungano, ma spariscono del tutto; la luce va infatti svanendo dal mondo, le sue onde si affievoliscono, la sua grana corpuscolare non irradia più nulla, affievolendosi nel suo contrario: il buio. Ma che cos’è davvero la luce? Che cos’è davvero il buio? Antonio Moresco se lo domanda attraverso le voci di un mosaico corale di personaggi che include ballerine e banchieri, preti e pittori, Putin e il papa, passando per fisici, musicisti, registi, tecnici delle luci e condannati a morte. Ogni voce affronta, a modo suo, la sua personale apocalisse, interrotta in momenti di vita quotidiana dal progressivo e accelerato arretrare della luce, di fronte a cui ci si trova costretti a interrogarsi su come sarà possibile vivere senza di essa, d’ora in poi, e su come tutto, anche se in modalità diverse, potrebbe continuare al buio. Seguendo un movimento a spirale attorno a questi interrogativi, e lungi dal descrivere solo gli adattamenti e disadattamenti degli esseri umani rispetto a una premessa narrativa surreale, le vicende dei personaggi di Moresco confluiscono intorno a una ristrutturazione non solo dei concetti (estetici, scientifici, filosofici, politici) di luce e buio, ma dello stesso linguaggio in cui sono formulati e compresi. Canto del buio e della luce è un romanzo da fine del mondo, adatto ai tempi per toni e temi – ma è anche un libro di mistica contemporanea, un reportage metafisico, una fiaba inventata su cosa ci si inventerà al di là della luce e al di là del buio, quando anche la fine del mondo, come tutto il resto, finirà.


L’immagine di copertina è stata realizzata dal nostro Massimo Cotugno