Uscito questa primavera per Einaudi, l’ultimo romanzo di Michele Mari, Locus desperatus (finalista al Premio Campiello) narra di una doppia ossessione: per le parole e per gli oggetti.
È il titolo stesso dell’opera ad aiutarci a comprendere i due piani di lettura. In filologia il locus desperatus è un passaggio testuale irrimediabilmente corrotto, che va segnalato con la cosiddetta crux desperationis: esso palesa, insomma, lo scacco del professionista deputato all’intelligenza testuale, il filologo.
Ma il luogo disperato del romanzo di Mari è anche la casa dell’anonimo protagonista, stipata di libri e dei più vari oggetti, verso i quali egli ha un legame morboso: «[…] ero re: delle mie cose, delle mie collezioni, dunque di me, che in quelle collezioni avevo sistematicamente trasferito ogni mia più intima particola, fino a ricomporvi un’analitica e dissociata entelechia» (p. 5).
Eppure, dicevamo, anche la sua abitazione diventerà un locus desperatus: un giorno, uscendo di casa (dopo aver girato la chiave «secondo l’immutabile rito», p. 3, azione che denota ossessività e inclinazione al pensiero magico), il protagonista vede la sua porta segnata da una croce fatta col gesso.
Il parallelismo con la filologia è stringente non solo per la simbologia: così come il locus desperatus resiste all’intelligenza anche del più caparbio esperto di testualità, allo stesso modo la casa segnata da una sorta di crux desperationis diventerà in un certo senso illeggibile per il proprietario, nonostante il suo attaccamento feticistico a ciò che essa custodisce.
Sarà Asfragisto, curioso personaggio vorace di sambuca che «sembrava uscito da un racconto di Hoffmann» (p. 8), a esporre l’accaduto al protagonista. Asfragisto fa parte di una congrega di bizzarri esseri che ha deciso di impossessarsi della sua abitazione, proprio perché essa «contiene un’enorme quantità di cose speciali, uniche» (p. 7), sfrattandolo. E alla domanda del malcapitato se non sarebbe stata più semplice l’eliminazione fisica, per entrare in possesso della sua casa-collezione, Asfragisto illustra l’impossibilità di rompere il legame affettivo tra gli oggetti e il loro possessore: «“Se vi eliminiamo […] è possibile che parte delle vostre cose, almeno il loro senso, si perda con voi, e questo non lo vogliamo, no, non lo vogliamo proprio”» (p. 9).
Il padrone di casa dovrà dunque restare in vita mentre lo spirito vitale, potremmo dire, di ciò che la arreda piano piano andrà trasferendosi in Asfragisto e nei suoi sodali. È sempre l’eccentrico e loquace personaggio a spiegare:
“[…] A furia di circondarvi di cose, amandole, collezionandole, vi ci siete a poco a poco trasferito, regalando loro quote sempre più consistenti della vostra personalità. Le avete personificate, giusto? e nel contempo vi siete spersonalizzato. Credevate di possedere, e sarà stato pur vero: solo, vi siete spossessato. Sicché noi […] per prendervi l’anima non dobbiamo fare altro che prendere le vostre cose […]” (p. 11).
Uno dei due punti focali dell’opera è quindi la prospettiva originale da cui si guarda alla mania dell’accumulo, non già come deriva consumistica ma come rituale per fissare, parcellizzandola, la propria esistenza, forse nell’illusione di eternarla.
Abbiamo parlato di prospettiva originale perché in Locus desperatus non c’è alcun accenno di critica verso l’atteggiamento ossessivo di chi travasa la propria affettività negli oggetti, anzi: tutti i personaggi danno per scontato che ciò che si possiede sia un prolungamento (vivo) di sé, il protagonista dialoga con libri e manufatti, inoltre tenterà una strenua resistenza al piano di Asfragisto proprio affidandosi ad alcuni feticci per lui particolarmente carichi di significato.
C’è un altro aspetto che avvalora l’indulgenza verso la propensione all’accumulo, ed è lo stesso che ci permetterà di passare all’indagine del secondo piano di lettura del romanzo, quello dell’ossessione nei confronti della parola.
Si può supporre che l’intero corpus narrativo di Mari possa anche essere letto come una sorta di lunga autoanalisi, in cui lo scrittore si cela di volta in volta dietro il protagonista di turno. Se non abbiamo nessuna esplicita dichiarazione dello stesso autore a conforto di questa nostra tesi, basta leggere le battute iniziali di Locus desperatus: si tratta di un elenco di oggetti presenti nella casa, anzi di «testimoni fraterni ormai radioattivi» (p. 3), tra cui troviamo «l’Oca di Enzo Mari» (ibid., qui e oltre corsivi nel testo), designer e padre di Michele.
Ecco che la quantomeno parziale identificazione tra il protagonista del romanzo e il suo estensore giustificherebbe la benevolenza verso l’ossessione per il collezionismo. Che nel libro (e qui la coincidenza tra personaggio e autore sembra ancora più autorizzata) diventa anche ossessione per la parola, per almeno tre motivi.
Intanto perché nelle centotrenta pagine del volume si dà conto di numerose opere letterarie più o meno note, appartenenti tanto alla cosiddetta cultura alta quanto a quella popolare (sempre nell’elenco che apre il romanzo, Magnus, Al Capp e Jacovitti coabitano con Achille Castiglione, Ugo Foscolo e Louis-Ferdinand Céline); e l’opera è disseminata di citazioni e riferimenti tratti da letteratura, poesia, cinema e storia dell’arte.
Inoltre, diversi volumi della vasta biblioteca del protagonista iniziano a farsi letteralmente illeggibili, diventando così loci desperati in un locus desperatus: e vista l’intima connessione tra essi e il protagonista, il loro deterioramento avrà ripercussioni sulla memoria di lui.
Infine, sempre il protagonista palesa in varie occasioni la sua affezione morbosa alla parola, alla sua etimologia e al suo ventaglio di significati. È una propensione che gli condiziona la vita, ma che tutto sommato gli garantisce la frequentazione di un universo in cui tutto sembrerebbe tenuto insieme da una logica stringente:
A casa, mi disposi alla minzione: minsi. La parola glande, una ghianda. La raccolta delle ghiande, una lectio. Lego legere, mettere insieme le lettere e dunque leggere, mettere insieme le norme e dunque stabilire la legge, che poi lex viene anche da ilex, che è la quercia, che sono le ghiande. Ma lego fa anche legare, che è avvincere come si avvince col vinco o vincastro il fascio di spighe, e però anche imprigionare e punire allontanando dal consesso dei giusti, come fe’ Zeus coi Titani relegandoli nel Tartaro buio, e relegare è legare più forte, come son le pagine di un libro e com’è religione, ch’è timore del potere di Zeus che è Ious cioè jus che è ancora la legge e norma tremenda del giusto. Ma da jus è anche jugum, ch’affratella le bestie all’aratro, e coniugium, ch’unisce gli umani ed è la famiglia: che mangiava le ghiande e mangerà il frutto dell’aratura, la raccolta, la lectio… (p. 12).
Anche Michele Mari pare trovare rifugio in una lingua colta e onnivora: nel giro di una ventina di righe, tra pagina 23 e 24, rinveniamo ad esempio la locuzione latina disce omnes e quella francese à rebours, la citazione dei Pink Floyd, delle figurine Mira Lanza e di un testo mistico, una licenza interpuntiva (i due punti ripetuti per quattro volte all’interno di un breve periodo) e un’esortazione colorita che un personaggio femminile rivolge al protagonista: «“Se ti dedicassi un po’ a questo mio culone”» (p. 24).
Ma, dicevamo, l’universo del collezionista di oggetti, al pari di quello del cultore della parola, sembra governato da una causalità inscalfibile. Si tratta in realtà di due architetture fragilissime, come ben si impara leggendo Locus desperatus.
E allora perché delegare un’intera esistenza alle cose o ai libri? Forse, come in fondo ha ben intuito Asfragisto, dietro l’ansia dell’accumulo c’è in realtà una tensione nella direzione opposta, verso lo svuotamento di sé: trasferirsi nelle cose significa rifiutare la fatica quotidiana del confronto, la pianificazione di un percorso esistenziale. È ambizione di immutabilità, di invisibilità. E così, riesce difficile arguire quanto appartenga al personaggio e quanto all’autore di Locus desperatus la dichiarazione che segue, fatta dopo «un giro di ispezione per tutta la casa» (p. 112) in cui si è riscontrata una serie di oggetti deteriorati o guasti, come in un intimissimo ammutinamento:
«E io, chi ero io per condannare tutto questo, per opporvi resistenza, per riorganizzare… riorganizzare cosa, io che per primo avevo lasciato che la mia vita evolvesse così, nell’attaccamento all’antico, nel culto del prima, nel rimpianto perpetuo, nel rifiuto di ogni ammodernamento… nell’immobilità, nel silenzio, per sentire di meno, per vivere di meno… Sì, chi ero, per rinnegare la natura cimiteriale di tutte le mie cose, di tutta la mia centripeta vita?» (ibid.).
Insomma: nelle centotrenta pagine di Locus desperatus sono stipati (è proprio il caso di dirlo) stilemi e manie che hanno attraversato tutta la produzione letteraria di Michele Mari, da Tu, sanguinosa infanzia a Verderame, dal libro fotografico Asterusher (il cui emblematico sottotitolo è Autobiografia per feticci) a Leggenda privata. Vi ritroviamo infatti la passione per la narrazione gotica e il gusto di celare nella vicenda – con diversi gradi di riconoscibilità – elementi autobiografici, l’ansia collezionistico-classificatoria e quella di esibire debiti culturali (ma pure emotivi), l’affezione all’antico e al desueto.
Qui, però, la brevità e densità del testo non permettono di diluire queste caratteristiche in una narrazione sufficientemente ariosa, né che presenti grossi elementi di novità rispetto a ciò che è stato il percorso letterario dell’autore fino a oggi. Siamo dunque di fronte a un testo più che mai metaletterario, intensissimo compendio dell’universo letterario (e forse esistenziale) di Mari. Quindi, per stare al gioco dell’autore, ne consigliamo la lettura a chi fosse feticisticamente legato alle sue opere. Oppure a chi volesse scoprirne, tutti assieme ex abrupto, motivi e toni.
Michele Mari, Locus desperatus, Einaudi, Torino 2024, 136 pp. 18,00€