Quest’anno in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia c’era un oggetto misterioso: un film da tre ore e mezza diretto da un certo Brady Corbet. Ai più questo nome non dirà nulla, a me personalmente ricordava soprattutto un attore interprete di ruoli minori in Melancholia di Lars Von Trier e nel remake americano di Funny Games diretto da Michael Haneke. Qualche anno fa era uscito con un film dal titolo Vox Lux, in cui una ragazzina sopravvive miracolosamente all’ennesimo massacro all’interno di un liceo per mano di un giovane armato. La protagonista traduce in musica il cordoglio di una nazione e in men che non si dica è una star. La violenza subita sembra però averla contaminata nel profondo e, una volta diventata adulta, sarà lei stessa fonte di sofferenze per la sua piccola cerchia di collaboratori e parenti. Il film aveva diviso la critica nettamente: c’era chi lo demoliva senza mezze misure e chi invece intravedeva il potenziale di un cineasta sofisticato. Quando questo fenomeno accade, il più delle volte è un buon segno: se non siamo davanti a un futuro maestro, sarà almeno un regista con una visione. E il film The Brutalist, presentato a Venezia, ne è la riprova.

L’opera racconta la storia di Laszlo Toth, architetto ungherese ebreo noto in patria per le sue opere brutaliste, che riesce a fuggire dal campo di sterminio nazista e approda negli Stati Uniti. Dopo una serie di iniziali difficoltà, finisce sotto la tutela di un magnate americano, di cui diventerà una sorta di architetto personale, incaricato di realizzare un’opera maestosa dedicata alla defunta madre del mecenate e destinata all’uso dell’intera comunità. Quello che sembra un percorso di riscatto e rinascita, si trasformerà gradualmente per Lazslo in una nuova prigione, dove alla violenza nazista si sostituisce quella del capitalismo. Il brutalismo del titolo non è chiaro infatti se si riferisca unicamente allo stile architettonico caro al protagonista o più estesamente alla brutalità dell’America di prima metà del novecento: una terra spietata ma generosa, che allarga le sue braccia a transfughi da un Europa in fiamme, per poi stritolarli.

Fin dai titoli di apertura, possiamo apprezzare una premura estetica di Corbet quasi commovente – la scelta di presentare il film nel formato 70 mm è una vera ruffianeria per cinefili. La prima lingua che si ascolta è l’ungherese (la voce della moglie di Laszlo) mentre si assiste all’arrivo dell’architetto nella terra delle opportunità. Il primo incontro è quello con la Statua della Libertà, ma la si osserva a testa in giù, minacciosa e incombente, un po’ come quella descritta da Kafka all’inizio del suo Amerika (dove al posto della fiaccola la statua ha una spada). Il film ha da subito il tono dell’epopea e Adrien Brody si conferma uno dei migliori attori della sua generazione, restituendo tutta una gamma di sentimenti del protagonista all’arrivo a New York: dallo smarrimento all’eccitazione. Il respiro della pellicola è quello appartenuto alle narrazioni dei film monstre dei cineasti delle generazioni precedenti. Da I cancelli del cielo di Cimino a C’era una volta in America di Leone, fino ad arrivare a Il Petroliere di Paul Thomas Anderson. In questo genere di opere – tutte più o meno legate a miti fondativi dell’America moderna – il regista sbroglia con la dovuta lentezza un’imponente materiale visivo e narrativo, senza fretta e immergendo lo spettatore per gradi nel mondo descritto.

Corbet cesella una prima parte del film quasi perfetta dove si assiste ai primi passi di Laszlo nel Nuovo Mondo: dalla fila per il pane all’incontro con il cugino convertito al cattolicesimo e proprietario di un mobilificio in Pennsylvania, che gli offre il primo incarico. Sarà grazie a un lavoro commissionato all’impresa del parente che Laszlo saprà mostrare il suo talento a Harrison Lee Van Buren, il suo futuro mecenate. Guy Pierce, nel ruolo del ricco possidente, incarna la perfetta sintesi dell’americano di successo dell’epoca: ostinato, prepotente e convinto che qualunque cosa possa essere comprata. Laszlo e Van Buren rappresentano non solo lo scontro tra il Vecchio e il Nuovo Continente, ma due volti della stessa ossessione. Laszlo anteporrà la riuscita della sua opera ad ogni altro aspetto della sua vita, Van Buren vede in questa enorme cattedrale la sublimazione del suo potere.

La seconda parte del film procede con l’avanzare dei lavori dell’opera monumentale, faticosamente e con diversi intoppi, fino a giungere a un’inaspettata quanto inevitabile frattura. Alla fine della proiezione, incuriosito dalla storia di questo architetto ungherese, cerco la sua biografia su internet, ma mi imbatto solamente in un suo omonimo, quel Laszlo Toth che negli anni settanta prese a martellate la Pietà di Michelangelo. Non so se Corbet avesse in mente quell’episodio quando ha scelto il nome del protagonista, ma mi piace pensare che ci sia una correlazione misteriosa, magari quella che unisce bellezza e brutalità.