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«La violenza potenziale del corpo». L’uomo baconiano di Bellinvia

bacon, fast-food, il secondo libro di Carlo Gregorio Bellinvia dopo Omissis (Arcipelago Itaca 2021) esce nella collana ‘Melanos’ delle Edizioni del Centro Scritture (ecs 2024). Si tratta di una raccolta di prose di natura ecfrastica, i cui ipotesti figurativi si individuano in una selezione di opere del pittore irlandese Francis Bacon, recuperabili attraverso i QR code a piè di pagina che indirizzano alle riproduzioni digitali delle tele. Il volume è siglato dagli interventi di Davide Castiglione, Marilina Ciaco e Dimitri Milleri, che forniscono spunti critici utili a orientarsi nella lettura.

Il pun appositivo del titolo, bacon, fast-food, anticipa sia l’isotopia della violenza orale («la colpa di ogni carnivoro», 21), tra i motivi primari del libro, sia una certa dislocazione parodico-grottesca, al limite del ludismo, che affiora localmente nelle prose. Quest’ultima sviluppa un’inclinazione incunabulare al cartoon a tratti osservabile nello stile baconiano, la cui vis deformante è spesso tale da condurre la rappresentazione in prossimità della caricatura: penso all’accensione cromatica e alle figure antropoidi in tele come Three Studies for a Crucifixion (1962) o al surrealismo quasi fumettistico di alcuni elementi in Painting (1946), Fragment of a Crucifixion (1950) Painting (1978). Ciò consente di circoscrivere sin da subito la specificità del patto ecfrastico nella raccolta di Bellinvia: un esercizio di metasemiosi che intende ora mimare il processo che presiede alla composizione della fonte; ora svilupparne alcuni presupposti speculativi: nello specifico, quel valore di «powerful statement in regard to the human situation»[1] che agisce da premessa teoretica al grottesco creaturale di Bacon e che nel libro tramuta in discorso circa «la violenza potenziale del corpo umano» (51).

Come rilevato da Castiglione e Ciaco, infatti, il rapporto tra parola e immagine è, in questo caso, soprattutto un tentativo di acquisire alla scrittura i principi operativi del modello visuale. Castiglione parla di parole che «tengono dietro alla figurazione cupa e stravolta di Bacon con l’ingegno della metafora» (58), mentre per Ciaco l’operazione di Bellinvia mira a partecipare al «gesto» (64) pittorico baconiano, a estenderne la portata riproducendone il meccanismo disformante alla base. Più nel dettaglio, la prosa poetica di Bellinvia sembra guardare a due procedimenti complementari ascrivibili al portamento figurativo di Bacon: la scorciatura e la stratificazione.

Se la deformazione espressionista è – scrive Contini – l’esito di una rappresentazione che include il tempo come categoria spaziale, le figure teratomorfe delle tele baconiane sono il risultato di una contrazione repentina di tale cronotopo, come subissero l’effetto di un potente campo gravitazionale. È stato appurato come il materiale fotografico che Bacon ha eletto a fonte della propria opera abbia spesso subìto sia alterazioni accidentali sia manipolazioni intenzionali come macchie, pieghe, stropicciature che correggono il dato instante determinando la sembianza del soggetto sulla tela. Ne deriva il totemismo cinetico dei corpi di Bacon, la mimesis di una creaturalità che per violenza e per alea si genera dalla materia: la scorciatura adultera morfologie e intensifica pateticamente i connotati, vuole intercettare «lies that are truer than the literal truth» e fermarle provvisoriamente in una forma instabile. In questo senso dovrebbe leggersi il riferimento alla velocità contenuto nel sottotitolo del libro, 52 appunti veloci su Francis Bacon: esso preannuncia il ductus stenografico che contrassegna a vari livelli – fàtico, ritmico, figurale –  la prosa di Bellinvia, traducendo in accidente linguistico il collasso morfologico che affligge le sagome di Bacon. Si veda la prosa che correda Paralytic Child, Walking on All Fours (from Muybridge), una tela del 1961 in cui il pittore raffigura un infante deforme in quadrupedia, sintesi ritmica a partire dagli studi protofilmici di Edward Muybridge sui corpi in movimento:

l’orfano-pronto è la palla di porcellana che inizia la partita nel biliardo, il suo pascolo è il tavolo verde di chi nasce d’azzardo: si regge sulle quattro zampe quasi per disperato patrimonio ovino o bovino, ancora semisolido di placenta e sangue e prima pelle: discaricato e senza documenti, si trova chiuso fuori dalla staccionata in giovanissima età. pure fobico verso i viventi, da ingegnere curioserà tra le macine dei macelli, geologo scenderà e salirà gli strati della carne operata e psicologo ne sonderà l’umiliazione (2)

Il paralytic child del titolo viene rideclinato in «orfano-pronto», con rivisitazione semantica del participio per via etimologica: da prōmptus, participio perfetto di promĕre, quindi ‘tirato fuori, estratto’, con allaccio alla prosa precedente, in cui l’atto di nascita del pittore viene metaforicamente descritto come gesto di escavazione e rinvenimento di un «tubero fetale» (1). Ma pronto è anche colui che si dispone all’incipienza dell’azione: l’aspetto levigato e tondeggiante del bambino paralitico e il biancore della pelle suggeriscono il dettaglio morfologico-materico della «palla di porcellana» con cui si avviano le partite di biliardo e che, incrociandosi col dato biografico (la ludopatia acclarata di Bacon, nonché la sua ossessione per il ruolo del caso nella composizione delle tele), innesca l’articolazione figurale legata alla sfera del gioco (partita, biliardo, tavolo verde, azzardo). Quest’ultima si intreccia a sua volta a un ulteriore regime immaginativo – centrale nel libro – che interessa l’animalizzazione del corpo umano, l’idea di un’antropogenesi sempre incompiuta perché gravata da oscure parentele filogenetiche (pascolo, quattro zampe, disperato patrimonio ovino o bovino, staccionata). Il tutto è mediato dalla fluidità della copula («l’orfano-pronto è la palla di porcellana»); dei nessi preposizionali (nasce d’azzardo, semisolido di placenta, per disperato patrimonio ovino o bovino); dei due punti, anch’essi adoperati in funzione di scorciatura logica, sebbene il ricorso a certe strutture dell’argomentazione non sia estraneo a quella che Castiglione definisce «implacabile logica coesiva» (58), ovvero un rigore nei procedimenti associativi che garantisce al testo tenuta figurale e discorsiva. Gli espedienti retorico-linguistici di tale habitus stenografico sono molteplici: altrove abbiamo ancora la riattivazione etimologica dei significati («la creatura pontefice» dei Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion, 7, dove l’aggettivo sta ad indicare la postura in quadrupedia rovesciata della figura a destra del trittico; «fieri turisti dell’orrore», da fĕrus, ‘feroce’, 15); locuzioni come «marcio re mida in quarantena» nell’ecfrasi di Study after Velasquez’s Portrait of Pope Innocent X (1953), che concentra icasticamente un complesso di dettagli cromatici (l’oro della sedia gestatoria, il livore mortuario del volto del Papa), la degradazione grottesca della statura sacro-istituzionale del personaggio, il senso di isolamento e segregazione dato dall’elemento di origine tizianesca del velo, che in Bacon si espande fino a formare uno sorta di gabbia entro cui la figura del pontefice sembra rinchiusa; l’utilizzo del vocabolario tecnico della saggistica d’arte («rigido cosmo bizantino», «bestia picassiana», «licantropo michelangiolesco», «tematica come un arcimboldo», «polipo vitruviano») che, oltre a esplicitare la memoria culta che sempre supporta l’immaginario baconiano, bene si inserisce nella logica della scorciatura, condensando in un solo attributo l’evocazione di un preciso universo formale e assiologico.

La prosa riportata è anche utile a introdurre la questione relativa all’ordinamento del macrotesto. L’innesto di riferimenti a particolari ed eventi della biografia dell’artista nella descriptio delle tele è prassi sistematica all’interno delle prose: la nascita in Irlanda, i problemi di asma, l’omosessualità, il gioco d’azzardo, il rapporto d’amore con John Dryer, il tragico decesso di quest’ultimo, la morte dello stesso Bacon. Bellinvia allestisce un macrotesto che si sviluppa per diacronia. I quadri si susseguono in base alla cronologia compositiva, dal 1929 di Watercolour al 1991 di Triptych, con alcune infrazioni: Paralytic Child, Walking on All Fours (from Muybridge) del 1961 viene posto in apertura, di seguito a un testo con funzione proemiale privo di ipotesto visivo; mentre in penultima sede, tra la sequenza di tele degli anni Ottanta e l’ultima opera del 1991, viene allogata la prosa relativa a Jet of Water del 1979. La scansione diacronica e le inversioni calibrate di questa profilano un’istanza scopertamente diegetica, pure corroborata dalle giunture lessicali che spesso ricorrono tra prose contigue. Il testo relativo a Figure Study I 1945-1946, per esempio, si chiude con «un orgasmo di plastica azzurra» (11) subito richiamato in apertura dal testo che segue: «il primo senso svegliatosi dopo l’orgasmo è un orecchietta grottesca» (12), l’avverbio a rendere esplicito il nesso di successione temporale. Ne deriva una parabola artistico-creaturale che, a partire dall’elicitazione iconografica, descrive per tappe discontinue lo sviluppo biografico e biologico-pulsionale del «corpicino asmatico del pittore» (1), dall’embriogenesi (il «tubero fetale» del proemio) alla morte «ormai ottantaduenne» (53). A tale parabola consegue il decentramento del soggetto poetico ridotto a fenomeno di sguardo e istanza narrante, secondo un modello già novecentesco che nella scrittura ecfrastica rinviene un dispositivo di desoggettivazione. Interdetta dalle strutture grammaticali della lingua, tuttavia, la soggettività si direbbe piuttosto estroflessa che assente, e la sua domanda di espressione convogliata nella ricezione selettiva dei dettagli e nei fenomeni di trasfigurazione della fonte. Il rovesciamento tra piano interno ed esterno su cui si organizzano simbolicamente molte prose è, del resto, un modo per il soggetto di interrogarsi, per interposta persona, in merito alla propria stessa consistenza: «ma è interiore o interiora, lui vedendosi dentro si chiede» (10).

Complementare ai procedimenti di scorciatura è la tecnica della stratificazione. Bacon lavora a partire da materiale fotografico il più diverso: le ricerche condotte dopo la sua morte nello studio londinese al n. 7 di Reece Mews hanno portato alla luce un archivio visivo composto di ritagli di giornale, reportage giornalistici, pubblicità, riproduzioni meccaniche di tele e sculture, ritratti e nudi, gli studi di Muybridge, fotogrammi di opere filmiche, manuali specialistici di medicina, zoologia e altro. La foto sembra agire da simulacro privato del mondo esterno, attutisce il carattere instante dell’oggetto e Bacon si sente così autorizzato a intervenire su quest’ultimo con una violenza che l’osservazione diretta inibirebbe. Ne risultano composizioni costruite per sovrimpressione di elementi e dettagli provenienti da fonti eterogenee, con procedimento additivo che a volte esita nell’organizzazione collagistica del materiale. Si pensi a opere come Painting (1946). Bacon lo descrive come «one continuous accident mounting on top of another»: al di là del tentativo dell’artista di presentarsi come una sorta di continiana «sede irresponsabile di fenomeni», interessa che la composizione derivi dalla sovrascrizione progressiva di elementi che si accavallano l’uno sull’altro. Si riconoscono un ombrello nero, la silhouette parziale di un uomo in completo scuro con un fiore giallo appuntato sul petto (gli studiosi ipotizzano Neville Chamberlain per la presenza dell’ombrello, oggetto-emblema legato al “man of peace” nell’immaginario inglese), sullo sfondo tre scure finestre identificate con quelle del bunker di Hitler, quindi la grossa carcassa animale a evocare l’iconografia della passione e poi reni, ossa, viscere e intestini esposti come festoni. L’occhio di Bellinvia si appunta su ciascuno di questi dettagli articolandoli narrativamente in una prosa che, senza rinunciare localmente alla coalescenza metaforica («l’ombrello lo individua fiorito di giallo»), si costruisce per moduli paratattici («un ombrello […] e una bocca […] e quindi sempre l’oggetto pluviale»), iterativi, enumerazioni asindetiche («vederci dentro ghirlande d’intestini, sorrisi di costati, collane dentarie, coppiette di reni, abbracci squartati, stracciati»), una sintassi per addizione che mima il principio operativo da cui la fonte visiva scaturisce. Si legga ancora l’incipit della prosa che correda Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion:

inizia a dilaniarsi come per mina quiescente e disumana, magari nazista, la visione inizia a dilaniarsi, la sua pupilla è una mina premuta, quiescente e disumana: bacon seleziona le tre creature ibridando natura e incubo, trapiantandole dentro un rigido cosmo bizantino, sotto un cielo sempre pesantemente, caldamente, altamente e tempestosamente, serenamente bizantino, cielo che non è qui lo sfondo paradisiaco delle madonne con bambino […] (7)

Si noti l’innesco lento assecondato dalla funzione pausativa delle virgole, la ripetizione di interi sintagmi come se la descrizione fosse costretta a tornare sempre parzialmente indietro per aggiungere nuovi segmenti rematici, fino ai due punti esplicativi che virano il dettato verso la sintesi concettualizzante. Si torna quindi in un regime descrittivo, puntellato di ripetizioni nominali e aggettivali, in cui spicca la lunga seriazione avverbiale che procura effetti di scarto dinamico, rafforzativo o ossimorico nel tentativo di effare l’incandescente monocromia della «piatta dimensione» dello sfondo, secondo un modulo che si ripete anche in chiusura, in riferimento alle figure del trittico: «rabbiosi perché interamente, sinteticamente e vanamente masticatori e sessuali» (7), con diade di aggettivi che intercetta due nuclei centrali nell’articolazione concettuale del libro, la violenza fagocitante e la pulsione erotica (altrove espressi in sintagmi come mangime sessuale, 12; bocca amante, 21; raperonzolo cannibale, 31;  preda amorosa, 39).

Si giunge così al secondo livello, intimamente relato al primo, su cui si sviluppa il dialogo tra scrittura e immagine. Esso interpella le premesse teoretiche, i rudimenti di pensiero che nutrono l’immaginario di Bacon, il suo sentimento al tempo stesso tragico ed erotico-vitalistico dei corpi, le forme estreme della sua mimesis. Si parta proprio dall’isotopia della crocifissione, che in Bacon attiva un plesso di campi simbolici che interessano la condizione e il comportamento dell’uomo, secondo un’antropologia riconducibile alla tradizione del realismo creaturale, e cioè a un sentimento di vulnerabilità e corruttibilità della carne non più riscattata dal destino figurale. In ambito estetico, tale sentimento si traduce in un’attenzione alla nuda immanenza della creatura sofferente, agli aspetti oscuri e degradanti del corpo e della pulsione, spesso con esiti di deformazione grottesca. L’ossessione di Bacon per l’iconografia sacrificale della croce è ascrivibile alle propaggini novecentesche di tale declinazione della mimesis: la sostituzione del corpo umano di Gesù con le carcasse animali – già in nuce nel Bue macellato di Rembrandt – rientra in quella concezione che parifica tutta la carne del mondo nel segno della mortalità e della sofferenza, circostanziando la violenza subita o inflitta come qualità intrinseca ai rapporti tra le cose esposte ad esistere; così come la rappresentazione per sineddoche dell’evento sacro in Three Study for Figures at the Base of a Crucifixion, in cui le tre figure sono autonome e come svincolate dal contesto narrativo della passione, implica uno spostamento spaziale e simbolico dall’orizzonte salvifico al polo della sofferenza terrestre. Bellinvia sviluppa fino alle conseguenze più estreme l’antropologia creaturale che alimenta il grottesco baconiano. Nel testo che correda Fragment of a Crucifixion (1950) (15) l’evento della crocifissione viene rinarrato come sadico episodio di caccia. Nella tela di Bacon riconosciamo una croce monocroma di colore grigio scuro, una piccola creatura teratomorfa inchiodata al centro sull’asta verticale, un’altra creatura più grossa come appostata sull’asse orizzontale: da quest’ultima stilla del sangue che cade nella bocca spalancata della prima chimera. La scena si staglia su uno sfondo marrone sul quale si individuano presenze stilizzate di essere umani e automobili. Nella prosa il colore grigio scuro della croce trasforma quest’ultima in un «incrocio» stradale, la creatura crocifissa diviene «l’animale spiaccicato» sull’asfalto e più avanti «il selvatico divino», con iunctura che bene esprime il vincolo girardiano di animalesco e numinoso, mostruoso e sacro. La violenza con cui Bacon interviene ad alterare l’ordinaria esperienza della forma viene metaforizzata plasticamente nel gesto di collocare una trappola («scorciare è la trappola adatta per il divino selvatico ») con l’intento sadico di incastrare la divinità nel suo stato creaturale («bloccarlo nella carne, un istante prima che si ricacci nella sua tana celeste») e totemicamente incompiuto («che non gli lascia completare la metamorfosi, che lo fa restare feto eternamente imperfetto, non finito»). La bocca spalancata nell’urlo è il topos iconografico della creatura che soffre; pure, nella rappresentazione di Bacon questa vittima emissaria riceve il rivolo di sangue dalla figura superiore, rivelando un potenziale di violenza introiettiva che Bellinvia coglie ed esprime nel sintagma «pericolosa bestia ferita», la cui struttura ad astuccio segnala la sovrapposizione tra statuto vittimario e attitudine predatoria: la creatura sacrificale fungerà infatti a sua volta da «esca lamentosa per attrarre la preda più grossa: il grosso padre», con dispositio chiastica che consente alla lingua di assimilare la struttura della croce come archetipo della violenza, del dispositivo di sostituzione vittimaria così come descritto da Roberto Calasso, e cioè una dialettica tra debito e desiderio, sazietà e fame: un «dare in pasto al posto di»[2].

Infine, nella prosa che descrive Oedipus and the Sphinx after Ingres (1983) (49), Bellinvia esplora il mito di Edipo, «il greco dal piede gonfio», rappresentato da Bacon come un pugile ferito che mostra alla Sfinge il proprio piede sanguinante ed enfiato. Il testo difatti parafrasa il celebre enigma sull’uomo che la Sfinge («un’altra condizione dell’umano»), secondo una certa tradizione del mito, pone a Edipo alle porte di Tebe. Ma se «la risposta alla questione è l’uomo di bacon, a quattro, due, tre gambe ma anche mutilo, monco, torto, di notte perlopiù», ovvero un essere disforme e pulsionale che nulla conserva della misura, delle proporzioni formali e dei valori codificati dal razionalismo umanistico (qui evocato in controluce attraverso il modello neoclassico di Ingres), allora sarà necessario mutare i termini stessi della questione: non più un’interrogazione sul destino creaturale dell’uomo, ma l’esercizio di un ripensamento critico integrale della sua identità di specie: «chi è l’uomo?».

Risulta così pertinente l’accostamento operato da Marilina Ciaco tra la scrittura di Bellinvia e quella letteratura della crudeltà di derivazione artaudiana messa in atto da alcuni esponenti della neoavanguardia. Penso soprattutto all’istanza di incorporazione, la «fame» che ricorre ossessivamente nell’opera di Antonio Porta («l’essere è fame che segue subito la nascita»)[3], traducendosi nell’inchiesta sulla posizione dell’uomo nel complesso dei rapporti materiali del systema naturae. Similmente in bacon, fast-food sopravvive una nozione tragico-vitalistica di crudeltà come cieco appetito di vita: ora «necessità cui persino il carnefice-seviziatore è soggetto e che, all’occorrenza, è determinato a sostenere»[4], rigore cui sottostanno tutte le cose che vivono in quanto vive a spese di altre; ora principio creativo, atto di liberazione, «festa parziale e orribile delle federazioni del corpo» (9).

«I don’t think there’s anything horrifying about my subjects. If you are able to give over as directly as you possibly can the excitement of life, they have labeled that as being horrific side. […] Because the more violently, more strongly you feel about life, the more strongly you must be aware of death»: così il pittore in un passaggio dell’intervista a David Sylvester. Quando quest’ultimo gli riferisce come molti critici si augurassero che egli iniziasse a dipingere rose, il pittore risponde: «but a rose also is very mortal»[5].


[1] Tale definizione dell’opera di Francis Bacon è del critico Daniel Sylvester; la si trova nell’intervista a Bacon reperibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=uMPmwO_l4Uw&t=588s

[2] R. Calasso, L’ardore, Milano, Adelphi, 2010, p. 104.  Una suggestione dello stesso Bellinvia interpreta la qualità sintetica dei corpi di Bacon come la fusione prospettica tra una visione di tipo frontale, caratteristica dei predatori, e una di tipo periferico, propria invece delle prede.

[3] A. Porta, Tutte le poesie (1956-1989), a cura di N. Lorenzini, Milano, Garzanti, 2009, p. 408

[4] A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, a cura di Gian Renzo Mortei e Guido Neri, Einaudi, Torino, 1978, p. 227

[5] https://www.youtube.com/watch?v=uMPmwO_l4Uw&t=588s