È un saggio breve ma densissimo di spunti e traiettorie, quest’ultimo lavoro di Pietro Montani, filosofo, docente emerito di estetica alla Sapienza e responsabile scientifico di lunghissimo corso delle opere di Sergej Ejzenštejn. Con Immagini sincretiche. Leggere e scrivere in digitale (Meltemi, 2024) l’autore si rimette in moto lungo una strada che batte da più di un decennio, nel vivo di ciò che lui stesso definisce, prendendo in prestito un termine proprio da Ejzenštejn, «il sincretismo dell’espressione audiovisiva».

Il celebre regista parlava del film audiovisivo come perfetto esempio di «composizione sincretica» e del cinema come «la più sincretica di tutte le arti», per la capacità di operare una sintesi organica di diverse forme espressive: la parola, la fotografia, il teatro, le immagini in movimento, la musica e via dicendo. In questo senso, e l’autore si premura di sottolinearlo, è centrale l’importanza che il cinema delle origini, in particolare e forse sorprendentemente, ha avuto «nello sviluppo degli alfabeti espressivi digitali». Il cinema come principio originario – urphänomen si potrebbe dire – di quella che Montani definisce «svolta sincretica» della comunicazione digitale contemporanea. E del suo carattere narrativo.

Questo contributo si aggiunge a un panorama di studi sulla testualità digitale tanto vasto quanto eterogeneo; si consideri anche solo il lavoro di Domenico Fioromonte, Elena Pistolesi, Gino Roncaglia, Isabella Pezzini, Franco Moretti. Il metodo di Montani insiste nel dare centralità a un concetto di testualità esteso, oltre-letterario, e a un approccio multidisciplinare che considera la filosofia, la mediologia, le neuroscienze. È un campo di indagine in cui all’analisi delle strategie compositive della (inter)testualità digitale – vale a dire: in che modo elementi come il riuso, il rimando, la citazione esplicita e implicita, la parodia, l’allusione, l’omaggio e via dicendo, si relazionano nel significare e risignificare – si accompagna l’attenzione alle scienze cognitive e al contributo che la multimodalità dell’immaginazione umana possono dare nel definire in quali termini, oggi, si esprime la celebre “cooperazione interpretativa” di cui già parlava Umberto Eco in Lector in fabula.

Montani esplora questo territorio – che comprende tutte le forme della testualità, ma qui soprattutto audiovisiva – forte di un riferimento anche a Ejzenštejn, regista sì ma anche brillante teorico, oggi più fresco che mai. È un percorso di interrogazione sui processi interpretativi di un lettore-spettatore che pare – questa è una delle tesi del saggio in oggetto – sempre più predisposto antropologicamente alla lettura e alla scrittura di sistemi semiotici complessi, stratificati, ibridati da forme e alfabeti diversi. In poche parole: all’esercizio di un nuovo linguaggio.

Una competenza che è in via di acquisizione, scrive Montani. Fa parte della nostra quotidianità accelerata, ma segue i tempi lunghi «cui debbono sottostare i processi di interiorizzazione delle innovazioni tecnologiche destinate a modificare gli assetti strutturali delle culture umane». Come accadde con la scrittura, del resto. È interpellato Walter J. Ong per ricordare che ci vollero tre secoli di alfabetizzazione, nella Grecia Antica, prima che la scrittura si diffondesse tra la popolazione venendo interiorizzata «a tal punto da influire in modo esteso nei processi intellettivi».

Eppure, sembra imporsi rapida la capacità di apprendimento del lettore-spettatore contemporaneo, ben adattato ormai dentro un ecosistema digitale in cui poter essere al contempo narratore e narratario, lettore e scrittore. Le domande che si pone Montani sono allora: fino a che livello di complessità si può portare questa forma espressiva? Quale grado di sofisticazione possiamo raggiungere, in questo senso, come “scrittori”? Ed è possibile una «lettura profonda» delle scritture digitali, a dispetto della rapidità con cui si esprimono e con cui le fruiamo?

La neuroscienziata cognitivista Marianne Wolf parla di una «seconda alfabetizzazione» del lettore contemporaneo, che è evidentemente anche un lettore di immagini. Lo sviluppo di un cervello “bi-alfabetizzato” seguirebbe lo sviluppo delle tecnologie digitali, nel loro continuo riarticolare il rapporto tra parola e immagine. Si è avviato così un processo in cui le facoltà cognitive sono addestrabili all’apprendimento e all’applicazione «dei nuovi sistemi espressivi sincretici già in uso nel web». Per capirne di più, è importante allora considerare l’analogia tra il funzionamento di questi sistemi e il «discorso interiore» nella mente dello spettatore di cui parlavano i formalisti russi, vale a dire quell’operazione creativa e inferenziale di montaggio di elementi in un insieme significante: sembra esserci, infatti, più di una “consonanza” tra il sincretismo delle scritture digitali e il funzionamento multimodale dell’immaginazione, ovvero il suo modo di lavorare, di processare la realtà organizzandone la gran varietà di stimoli – verbali, visivi, sonori.

È una linea interpretativa che ha una lunga tradizione. Si diceva, in apertura, del cinema come “fenomeno originario” del sincretismo. Nel solco delle grandi riflessioni sulla percezione aperte dalla psicologia della forma, Sergej Ejzenštejn ha lungamento scritto della capacità della coscienza di creare immagini e disporle in una sequenza secondo un processo analogo al montaggio cinematografico. Il funzionamento della psiche umana e la rappresentazione cinematografica condividerebbero gli stessi principi di funzionamento. Nella Teoria generale del montaggio Ejzenštejn scriveva: «Il principio del cinema non è altro che una riproduzione in termini di pellicola, metraggio, inquadratura e ritmo di proiezione, di un processo indispensabile e profondamente originario che caratterizza in generale la coscienza fin dai suoi primi passi nell’assimilazione della realtà. Mi riferisco alla cosiddetta eidetica». Mentre in Empirismo eretico Pasolini parlava di im-segni, riferendosi a sua volta ai sogni e alla memoria come immagini significanti «che hanno tutte le caratteristiche delle immagini cinematografiche».

Questa continuità, non dichiarata e tuttavia evidente, è uno degli aspetti più interessanti del libro, e in generale dell’approccio dell’autore al tema. Recuperando e attualizzando questa impostazione comparatista, il discorso di Montani si sintonizza sulle frequenze della narratologia cognitiva, nel pieno di una concezione estesa, processuale, oltre-letteraria del concetto di narrazione. È sufficiente a perlustrare i confini delle competenze dell’utente odierno e della complessità della testualità digitale? Probabilmente no, ma è un approccio imprescindibile per provare a tracciare nuove traiettorie di analisi delle modalità, più o meno sviluppate, di leggere e scrivere il linguaggio sincretico e di compiere delle «integrazioni» complesse (di livelli di senso, linguaggi, rimandi, citazioni). Senz’altro è seducente l’assunto secondo cui lo sviluppo sempre più articolato delle modalità di comunicazione digitale ricalchi le modalità innate con cui da sempre articoliamo il pensiero, ambendone la performatività. Sistemi Text To Image e Image To Text compresi.

L’efficacia del discorso di Montani sta anche nel trovare esempi tutto sommato semplici e accessibili dentro cui calare la complessità dell’argomento. Una complessità che è, per forza di cose, anche terminologica: cogliere il senso di un meme è questione di un attimo; capire cosa succede in quell’attimo e spiegarlo “tecnicamente” è tutt’altra cosa. Montani in questo senso trova un buon compromesso, considerando che non si rivolge certo al cosiddetto “grande pubblico”, a dispetto della popolarità di alcuni esempi che porta in dote: un meme costruito su un selfie di Ferragni, The Waste Land di T.S. Eliot, le pitture rupestri di Chauvet, l’ultimo lavoro di Zerocalcare, Questo mondo non mi renderà cattivo.

Montani cita la serie del fumettista romano come paradigma del punto in cui (finora) può spingersi la capacità di scrittura e di lettura abilitata da questa seconda alfabetizzazione, in particolare per l’uso sfrenato che fa di immagini di diverso statuto (smartphone, TV, PC, camera di sorveglianza), di linguaggi verbali e visivi, rimandi intertestuali, citazioni e via dicendo. Lì dentro c’è tutta la frenesia verbo-visiva in cui siamo immersi. Ed è proprio con questa complessità di elementi, e con la rapidità con cui si sovrappongono, che il lettore-spettatore si confronta. E da cui trae il massimo piacere. La trama, in fin dei conti, è poca cosa: il vero gioco interattivo tra autore e lettore deriva non tanto (o non solo) dal riannodare i fili di un intreccio “orizzontale”, dal coinvolgimento sul “cosa succederà ora” o sul “come andrà a finire”. Piuttosto, da un processo di montaggio “verticale” di una moltitudine di livelli di significato, dalla possibilità di cogliere il senso profondo dell’opera compiendo quello che Montani chiama «lavoro di integrazione» delle modulazioni espressive, di codici, stili, relazioni.

È così allora che Zerocalcare sembra riuscire, secondo Montani, a rappresentare visivamente il sincretismo del pensiero, i suoi voli pindarici, le associazioni rapidissime, la sua multimodalità. Ha dato figuralità al «discorso interiore» del suo sé-protagonista: trionfano le immagini mentali – flashback, fantasie – e le voci dei personaggi sono tutte «attivate dal discorso interno» del protagonista, armadillo-“super-io” a parte. Zerocalcare raggiungerebbe così «i livelli più rappresentativi di quello che succede nella nostra immaginazione quando viviamo, commentiamo, lavoriamo dall’interno una storia». Ciò che sembra emergere allora – e in questo senso la lettura che ne dà l’autore è decisiva nel suggerirlo – è il costituirsi un nuovo tipo di narratività dell’audiovisivo, una narratività sincretica,che chiede di vedersi riconosciuto uno statuto ontologico autonomo, e ancora tutto da scoprire.

Ed è in questo campo aperto la cui esplorazione non impone direzioni obbligate che Montani suggerisce una pista convincente, quasi a ribadire che il segreto del futuro si nasconde nel passato, come spesso accade del resto: è al cinema delle attrazioni, al muto, al montaggio come dispositivo artistico e percettivo, di scrittura e di lettura, che dobbiamo rivolgerci per analizzare criticamente l’estetica contemporanea. Qualsiasi cosa sia il cinema, qualsiasi siano i motivi della sua portentosa capacità di produrre senso, è lì dentro che c’è da frugare per provare a tracciare una linea di continuità (antropologica?) tra i meccanismi di scrittura e lettura delle pitture di Chauvet e quelli dell’intelligenza artificiale generativa.


Pietro Montani, Immagini sincretiche. Leggere e scrivere in digitale, Meltemi, Roma 2024, 116 pp. 12,00€