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#Mappe. Non Langhe, non niente

Raccontare io? Nemmeno ci penso. In piazza, mi siedo sotto la veranda del bar accanto all’ex Consorzio e aspetto. Arriva in bici. Indossa il casco da ciclista e le ginocchiere. La ragazza del bar sa già: chinotto con il ghiaccio.

Siediti con me, gli dico.

Lo circonda un leggero odore di gomma e sudore. Porta guanti da automobilista, senza dita. È più vecchio di me ma non so di quanto. Ha un corpo sottile, una faccia senza segni del tempo. Lo incontro sempre sulla bicicletta: nel centro del paese, sulla provinciale, in un sentiero tra la meliga.

Ho bucato di nuovo, terza volta questo mese.

Fai troppi chilometri.

Alza le spalle e affonda la cannuccia nel liquido scuro.

Mi devi aiutare a raccontare, dico.

Cosa?

Questo posto.

Qui non c’è niente da dire. Passa il ponte sul Tanaro, quelli là non vedono l’ora. Ti contano la storia del vino, la magia del vino, il profumo del vino, gli abbinamenti del vino, la merda e il vino. Poi attaccano con le trifule. I tartufi. Lo capisci il dialetto?

Non voglio raccontare le colline, lo hanno già fatto in troppi.

Cosa vuoi raccontare di qui? Questo non è neanche un posto.

Beve a lunghi sorsi, con la cannuccia. Spinge gli occhiali spessi sul naso sudato.

Non è una collina, non è una pianura. Non abbiamo un fiume che ci attraversa, un lago che rinfresca. Non vengono turisti e chi ci capita dice: e quindi? Case e tre chiese aggrappate sul bordo di un altopiano affacciato su un oceano di colline. Se vuoi sentire storie belle e ben raccontate passa il ponte o torna in città.

Duman allunga la mano lunga verso settentrione.

Di là l’altopiano dove stiamo aggrappati si perde nella insipida pianura che muore nella periferia di Torino.

Altro braccio, verso occidente.

Di là si perde nelle valli che si infilano nelle montagne.

Entrambe le braccia si aprono a oriente.

Tutto il resto sono quelle colline di merda, fino al mare.

Succhia, rutta, si lascia andare sulla sedia.

Quanti chilometri hai fatto oggi?

Guarda l’orologio.

Quasi duecento.

Duecento chilometri in bicicletta senza mai allontanarsi dal paese per più di cinque o sei chilometri. Duman gira in bicicletta tutto il giorno, sulle stesse strade, dalla mattina presto a sera. Tutti i giorni dell’anno, con qualsiasi tempo. È miope che fa schifo, ha l’abbronzatura dei ciclisti. Viaggia su una bici da turismo con borse sulle ruote, specchietti retrovisori, la sella ergonomica e un orologio contachilometri. Qualche volta pinza una carta da gioco sui raggi delle ruote per fare il rumore di un motore. Tra abiti impermeabili, provviste, lampade e medicine potrebbe arrivare dovunque. Non fa nient’altro, nella vita non ha mai fatto altro. Da tempo hanno smesso di rompergli le balle. Come conosce lui questo posto, non lo conosce nessuno.

Quando hanno tracciato i confini delle Langhe e Roero, dice, hanno disegnato un dente sul filo del confine, una rientranza solo per tagliar fuori il nostro paese. Ce l’hai una bici che ti porto in giro?

Non ho le tue gambe.

Guarda l’orologio.

Ho ancora un’ora e mezza prima di cena. Cominciamo da fuori, dice spingendo sui pedali.

Raggiungiamo la terrazza di San Pè, dove la strada comincia a scendere nella valle del Tanaro. Di fronte il mare delle Langhe oltre il corso del fiume. Colline pettinate di vigne con paesini sulla gobba come capezzoli di pietra.

Non siamo su una collina, dice, non è inespugnabile. Se costruisci una fortezza sul precipizio quelli arrivano dall’altopiano e ti inculano.

“Quelli”, chi?

A nessuno interessa conquistarci. Quando l’hanno detto le colline patrimonio dell’Unesco sono venuto qui e gli ho scraciato sputo finché ne ho avuto. Non hanno il diritto di tagliarci fuori. Se quel loro vino di merda è famoso è anche grazie a noi. Vieni, cominciamo dal fondo.

Due chilometri e quattro tornanti e si raggiunge la vecchia stazione ferroviaria. Duman viaggia senza mani, senza freni. Sposta il corpo perché la bici si inclini il necessario per curvare. Ci provo, ci riesco. Anche se non abitiamo sulle colline quel paesaggio ossessivamente curvo ci è entrato dentro, come se le curve fossero il modo naturale di procedere rettilineo.

Alla stazione mi aspetta appoggiato al muro, sotto la scritta del paese, con gli occhi chiusi.

Ai primi di novembre del novantaquattro, dice, l’alluvione del Tanaro si è portata via il ponte e i binari. Il ponte lo hanno ricostruito. I binari no. Non passa più il treno nella valle del Tanaro.

Attraversi mai dall’altra parte?

Non risponde ma alza il braccio e lo punta alle mie spalle. Sopra le nostre teste si alza l’altopiano dal quale proveniamo. Lo scalino di terra è ripido e imponente. Niente a che vedere con le morbide sinuosità delle colline. È ricoperto da una vegetazione intricata, selvatica. Su quel lento precipitare è difficile coltivare, difficile costruire, difficile affezionarsi. Nessuno ha mai provato a domare la cascata di argilla, gagie, sambuco e rovi. Il paese sbuca tra le chiome degli alberi e il cielo come uno scemo che sbircia nella valle.

Con la mano a coltello indica settentrione. Le braccia lunghissime sono cartelli indicatori mobili che affettano la terra che attraversa. Le sue mani indicano ma allo stesso tempo porzionano, definiscono, mettono ordine.

Laggiù c’è Pollenzo dove Flavio Stilicone ha fatto il culo ad Alarico e ai suoi visigoti. Per premio ha regalato questa terra ai Sarmati alleati. Barbari, razziatori, gentaglia che veniva dalle montagne dell’Iran. Per questo tua nonna ha il naso a becco e i capelli neri come la pece. Qui corre ancora il sangue dei briganti orientali.

Monta di nuovo sulla bicicletta, si sistema il casco sulla testa.

Resta qui, sussurra.

Si lancia nell’ultimo tratto di discesa, verso il fiume. Attraversa il ponte, piegato in avanti come in una volata. Risale la collina e scompare dietro il primo tornante.

Il silenzio del tramonto è graffiato dal garrire delle rondini. Nella stazione abbandonata il pavimento è coperto da registri compilati a mano. Odore di muffa, lezzo di gatto. Sulla banchina fragranza di piscio e ruggine. I binari bruni proseguono per qualche decina di metri verso oriente, poi si piegano e muoiono protesi verso il cielo, come braccia secche.

Duman riappare sulla provinciale, a tutta velocità. Lo stanno inseguendo? Inforco la bici pronto a scappare. Mi sgomma accanto, sparando ghiaia. Ha in mano un grappolo d’uva nera tutto martoriato. Gli acini sono quelli sodi e compatti di una barbera.

Appena in tempo, domani al massimo e cominciano a vendemmiare.

Come lo sai?

Duman schiaccia tra le dita un acino e ne spreme fuori i vinaccioli.

Guarda, sono scuri. Sono pronti.

Con la punta delle dita pulisce un acino e me lo ficca in bocca.

È dolce.

È pronta.

Mangiamo il resto del grappolo passandoci gli acini.

Ti sei fatto beccare?

Scuote la testa.

Non c’è mai nessuno dall’altra parte. La vigna non ha bisogno di nessuno, tranne per la vendemmia. Per quella chiamano gli africani che costano poco.

Perché sei scappato, allora?

Preferisco morire a casa.

Chi ha detto che devi morire?

Non puoi mai sapere quando accade. Andiamo che a star fermo mi vengono le formiche al culo.

In salita mi piego sulla bicicletta e spingo. Da bambini eravamo attirati dalle discese, dai tornanti. La forza di gravità ci rendeva uccelli immortali. Avevamo biciclette scassoni, croste di ruggine che rantolavano ad ogni pedalata, bici da donna, da bambini, pesanti come carri armati, i freni a bacchetta. In salita le grandi perle di sudore scavavano l’incavo della schiena come dita innamorate. Muscoli di pietra e polmoni roventi, chiappe che spaccano noci. La prima volta che l’ho fatta tutta, dalla Stazione a San Pé, mi sono sentito eroe. Ora le tempie battono una marcia militare, le gambe tremano.

Al bivio di Lequio Duman si ferma.

Per tanto tempo non è più capitato niente, dice, le gente ha cagato l’anima tra le nocciole, i frutteti, il foraggio, le poche vigne, la caccia. Generazioni anonime, un susseguirsi di Michele, Bartolomeo, Michele, Bartolomeo, finché è arrivato Napoleone.

Lì, dice abbracciando il fiume, era il confine. Di qua la Francia, di là l’Italia. Napoleone ci ha regalato l’indipendenza comunale, noi gli abbiamo fatto girare i coglioni. Ci siamo ribellati alla rivoluzione. I Fratelli erano una banda di briganti. Rubavano, taglieggiavano, scannavano su commissione. Si nascondevano in paese. Perseguitavano i giacobini, i sindaci amici dei francesi. Erano la mafia prima della mafia. Jacques François de Menou, barone, governatore del Piemonte che in Egitto si era fatto maomettano, promise una taglia su Giovanni e Rista Scarsello, i Vivalda, Fournier e gli altri. È qui che abbiamo imparato a trattare con i briganti, prima che nella bass’Italia.

Duman spinge la bici accanto ad una lapide su cui sono incisi dei nomi.

Dopo Napoleone, dice, arriva Paolo Francesco Staglieno, l’agronomo di Cavour e di Carlo Alberto. Ha insegnato ai contadini a fare un vino accettabile. Staglieno dovette dire a quella gente di non sigillare le botti con il letame che poi il vino sa di merda. Oltre Tanaro hanno cominciato a sradicare i boschi, le ronse, la meliga, le bestie e gli orti per pettinare le colline a vite. Da noi, invece, non è cambiato niente. Da questa parte Staglieno non l’abbiamo letto. Sono dovuti passare i nazisti a ricordarci che esistiamo.

Duman conta i nomi incisi sulla lapide.

Il ventisei aprile hanno ucciso tredici paesani. Nessuno se lo ricorda. Tredici non sono pochi. Poi siamo di nuovo finiti nel silenzio. Andiamo che ho le formiche al culo.

Nelle mattine d’estate di guerra, dice pedalando, un tamburino attaccava a battere il tempo. I bambini si radunavano sulla piazza e in fila scendevano alla riva del fiume. Colonia elioterapica. Metà dei bambini giocava, gli altri si esponevano al sole. Ogni mezz’ora la maestra dava l’ordine di cambiare posizione, come in un girarrosto. Dopo pranzo i turni si invertivano. Alla sera il tamburino attaccava a battere il ritorno.

Passiamo San Pè ma non entriamo in paese. Svoltiamo verso la Provinciale. Qui sono ville basse, fantasia di geometri, quasi tutte con il capannone annesso.

Alla fine della guerra gli americani se ne sono andati, dice. Si sono portati via i feriti, i trofei, qualche prigioniero utile. Qui hanno lasciato i morti, i vinti, i bossoli e la mercanzia che non valeva la pena riportare. I camion Dodge da novanta cavalli, per esempio. Ci siamo messi a fare i trasportatori. Da noi c’era poco da trasportare, ma dalle colline scendevano fiumi di vino. Abbiamo riempito i Dodge di botti e siamo saliti verso le città: Bra, Torino, Novara e poi Milano. Siamo scesi in Liguria. In giro per il mondo. Siamo diventati negozianti da vino. Per questo ci odiano. Loro rischiano, noi ci facciamo la cresta. Il nostro salario è quello del traditore. Contrattiamo con tutti per metterci in tasca qualche centesimo in più. Barbari, banditi, negozianti. Qui scorre tanto vino, ma di vite neanche l’ombra. Tuo nonno produceva Barbera e Dolcetto e l’uva andava a comprarla oltre il fiume. Era considerato un maestro della fermentazione, usava lo zucchero e i vini meridionali per correggere la gradazione, allora era lecito. Soprattutto se consideri quello che è capitato dopo.

Tace e spinge sui pedali. Cosa sarebbe stato Duman se fosse nato sulle colline? Nel piatto dell’altopiano può pedalare in trance, meditando sulle forme della vita. La collina non perdona: vigile in discesa, affaticato in salita, non c’è tempo per pensare. Cosa fanno i matti dell’altra parte?

Duman mi legge nel pensiero:

Gente come me non ne hanno più. Solo agronomi laureati, imprenditori agricoli, tedeschi, olandesi, investitori, osti di piatti tipici. Per mezza giornata di terra, che sono meno meno di duemila metri quadrati, sei capace di dargli mezzo milione. Per cosa? Mille duecento bottiglie l’anno. Salvo grandine, siccità, parassiti e gelate te la ripaghi in venticinque anni di lavoro di merda.

Il complesso del mulino vecchio è una cascina antica con un pergolato di pietra, affreschi sulle pareti e un giardino qualche metro al di sotto del livello della strada. Accanto c’è l’edificio più moderno della stalla e una piramide di letame.

Dall’altra parte del fiume cascine così non ne trovi più, dice, tutto è nuovo, recuperato, pulito, raddrizzato, mummificato. Alle pietre e ai mattoni hanno aggiunto l’acciaio, il vetro, la pietra forestiera. Sono arrivati gli architetti. Architetti e geometri fanno la stessa cosa: uccidono le case vive. Solo che gli architetti lo fanno con buon gusto.

Il braccio di Duman è fisso verso oriente, come un’accusa.

Non ci sono più boschi, rovi o campi incolti. Non c’è spazio per la casualità e il disordine. La vita ha bisogno di disordine, di dubbio, di debolezza. Sai che tra i filari si piantano le rose? Le rose sono sensibili, appena c’è qualcosa che non va sono le prime a patire. E i vignaioli corrono ai ripari.

Tu saresti la rosa del nostro paese.

Vedila un po’ come vuoi.

Duman mi sta aprendo gli occhi.

Sono nato e ho fatto le scuole in città, sessanta chilometri più a nord. Eppure mi considero cresciuto qui, le radici piantate da qualche parte, lontano da dove ho la residenza. Ma non sono mai tornato a vivere qui. Quando ho portato gli amici o le fidanzate in visita, per rendermi interessante ho attraversato il fiume.

Chi fa il vino è come il dottor Frankenstein, dice Duman, si mette di traverso al naturale decadere delle cose. Una spremitura d’uva lasciata sul tavolo della cucina si fa acida in una giornata. Loro la imbottigliano e la invecchiano per due, tre anche vent’anni. Gli spiriti e i distillati sono le mummie dell’uva. Gli enologi si sentono dèi e agli dèi tutto è concesso, compreso il potere di vita e morte. Dudesemes, “dodici e mezzo”, giurava che il suo vino facesse sempre dodici gradi e mezzo, qualsiasi fosse stata la condizione di partenza. Il suo segreto era fare il vino col bastone. Lo sapevano tutti. Parlo della chimica, butti dentro le polverine e mescoli con il bastone. Cosa credi di bere quando compri un vino a meno di un euro al litro? Dudesemes e suo figlio si sono sentiti Dio. Il metanolo permette di ottenere una gradazione stabile e veloce. Il metanolo è un veleno che uccide. Nell’ottantasei sono morte ventitré persone, altre sono sopravvissute con gravi lesioni. Volevano essere Dio, sono stati angeli della morte. Quella volta, solo quella volta, parlarono di noi in tutto il mondo.

Un disastro, dico.

Una benedizione, un sacrificio necessario. Da questa parte del fiume e soprattutto dall’altra parte si è imparato che non si può vinificare a tutti i costi. Ci siamo ripuliti da opportunisti, furbi, assassini silenziosi. Le cantine sono diventate laboratori, gioiellerie, case di vetro dove tutto è chiaro, ben fatto. Non c’è più stato posto per i dilettanti: solo vino di qualità. Trent’anni fa parlavano solo dialetto ora negli showroom ci sono hostess che parlano quattro lingue. Noi ci siamo presi sulle spalle il peccato, loro si sono salvati.

Siamo come un Messia.

Di salvare qualcuno non ci è mai importato niente. Abbiamo giocato il nostro ruolo. Come Giuda che tradendo permette a Gesù di salvare.

Il cimitero sta su una gobba del terreno, l’unica che assomiglia vagamente ad una collina. Dentro ci sono solo tombe di famiglia, piccoli edifici con colombari da quattro o cinque piani, minuscoli condomini che ospitano morti impilati. Marmo, vasi di fiori, porte a vetri, statue di bronzo di Gesù benedicenti.

Quando tu eri piccolo le tombe di famiglia erano solo sul perimetro delle mura, la gente veniva seppellita nella terra. Ora si mette la gente a fermentare nel cemento e nello zinco, il vino nei tini d’acciaio. Un mondo che nega la vita e inganna la morte. Scatole, barattoli, bottiglie. Per questo vado in bicicletta, non voglio che mi ficchino in un barattolo.

Ci fermiamo di fronte ad una tomba di famiglia. Cinque piani in file di due. Ai lati due colonne grossolane sorreggono un timpano pesante. Sembra un tempio costruito da barbari. Nel timpano è inciso il mio cognome.

È tutto pieno, dice Duman, per te non c’è più posto.

Non è stata la mia casa, non sarà la mia tomba.

Chinotto con ghiaccio. La ragazza non ha bisogno di chiedere. Duman beve in una sola, lunga sorsata senza scendere dalla bici.

Non ti siedi un momento?

Devo andare a cena.

Non so niente di lui. Una moglie, dei genitori. Non so dove abita. Solo un uomo in bicicletta.

Mette il piede sul pedale, il culo sulla sella.

Lo chiamano Duman perché quando attacca a raccontare lo interrompono e gli dicono: duman, duman “domani, domani” rimandando ad un domani che non arriva mai il tempo di ascoltare.

Passa il fiume, dice, come fanno tutti. Qui non abbiamo niente da raccontare. Qui siamo solo barbari, briganti, negozianti e smemorati.