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The Substance, Demi Moore e i confini del corpo

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È difficile parlare di The Substance senza ricorrere allo spoiler, ma ne sarebbe allo stesso tempo essenziale, almeno nei limiti del possibile. Per scrivere queste righe ho dunque deciso di rivederne accuratamente il trailer e limitarmi a quello che la distribuzione ha deciso di rivelare in sede di promozione. Non parliamo di un film dallo sconvolgente twist finale à la Shyamalan dei tempi d’oro, ma di un’opera che punta a sorprendere lo spettatore a ogni sequenza alzando sempre di più l’asticella; meno se ne sa, dunque, meglio è. Dopotutto, un premio per la migliore sceneggiatura a Cannes (quest’anno) non si vince per caso.

The Substance, dunque, di Coralie Fargeat. Una regista francese che, al suo secondo lungometraggio, ci verrebbe naturale definire giovane, quando è invece una classe 1976; mettiamo quindi da parte la tentazione di definirla una enfant prodige e consideriamola per quella che è, una professionista giunta relativamente tardi al cinema che conta. 

Il suo primo lungometraggio è del 2017: Revenge era un film appartenente al rape and revenge, un sottofilone del genere horror dal ricorrente canovaccio: nella prima parte una giovane donna subisce violenza sessuale, nella seconda lei o chi per lei la fa pagare ai suoi aguzzini. Un genere di exploitation che però annovera esponenti illustri: dall’ante litteram La fontana della vergine di Bergman a L’ultima casa a sinistra di Craven, passando per L’angelo della vendetta di Ferrara.

Revenge, più un action che un horror, è un film parecchio forte, molto più della media dei film coevi: alla spettacolarizzazione della violenza – financo gratuita, in alcuni momenti – unisce un coraggio e una profondità di pensiero tutti europei, rifuggendo il timore dell’ambiguità. Nelle prime sequenze vediamo infatti Jen, la protagonista, flirtare pesantemente – senza concedersi – con il futuro violentatore: la regista non ha paura di mostrare che la vittima non è necessariamente la ragazza “per bene” tutta casa, chiesa e famiglia, ma anche chi è consapevole della propria sessualità e non teme di usarla. Territori perigliosi da cui probabilmente un regista uomo si sarebbe tenuto ben lontano.

Già da questo film Fargeat aveva già dato a intendere di che pasta è fatta, e di cosa aspettarsi da lei. 

Almeno questo credevo, al calare delle luci in sala. Con The Substance, infatti, la regista ha voluto decisamente trascendere.

Elizabeth Sparkle, interpretata dalla sessantenne Demi Moore, compie 50 anni. Non la più felice delle celebrazioni per una ex attrice di successo, ex vincitrice di Oscar, ex sex symbol, ora ridotta alla partecipazione a un programma televisivo di fitness. “People ask for something new. It’s inevitable. At 50, it stops” le dice poco prima di licenziarla Harvey (Weinstein?), il repellente produttore interpretato da un grandioso Dennis Quaid (il quale, anche aiutato da una grande regia e direzione attoriale, offre una prestazione limitata nel minutaggio ma memorabile). 

Elizabeth non ci sta, e dopo aver ricevuto un misterioso invito da un giovane ambiguo e bellissimo decide di rivolgersi al mercato nero e provare la sostanza eponima, che promette, a suo modo, di risolvere il problema.

Comincia il secondo atto. Senza voler privare lo spettatore di scoprire da solo il funzionamento della sostanza (molto preciso e dettagliato, al netto di alcuni cedimenti nella logica interna: peccato), mi limiterò a dire che grazie al misterioso farmaco a Elizabeth si affianca Sue, giovane e bellissima versione di se stessa. Peccato che, come sappiamo sin dai tempi de Il ritratto di Dorian Gray, vendere l’anima al Diavolo in cambio della giovinezza prevede un prezzo da pagare: nel caso di Elizabeth, sarà incommensurabile.

Comincia così il suo tour de force, a cui Demi Moore dà anima e corpo, in quella che ha il sapore di essere l’interpretazione della vita, e forse del rilancio. Probabilmente le manca una certa profondità per interpretare una parte così complessa, ma è innegabile il coraggio nell’affrontare un personaggio che sembra essere uno specchio della sua stessa carriera, così come era successo, in termini affini ma diversi, a Robin Wright in The Congress. Moore non esita a offrire allo sguardo del pubblico le sue imperfezioni fisiche e i cedimenti del corpo dovute all’età, e accetta di buon grado il trucco e le protesi, sempre più incredibili, che la regista le impone. Scena dopo scena, infatti, il degrado fisico di Elisabeth procede inesorabile e le devastazioni fisiche che deve sopportare sono sempre più sconvolgenti e insostenibili, sia per lei che per lo spettatore: ogni volta che si pensa che così può bastare, che oltre non si può andare, ecco che Fargeat e il suo team sorprendono superando un limite dopo l’altro, lasciando la platea sempre più sgomenta, sconvolta e atterrita (non è difficile immaginare almeno una defezione nel pubblico per ogni proiezione, ben prima dei titoli di coda).

E si continua così, tra suture, mutazioni, espulsioni, mutilazioni, fino ad arrivare all’allucinante terzo atto, in cui film come Carrie, Society e La mosca confluiscono in un finale sublime e grottesco, deflagrando nell’annichilimento supremo di quel vascello fisico che chiamiamo corpo. Un finale che racchiude più finali uno dentro l’altro, e che solo apparentemente potrebbe apparire trascinato, quando in realtà non fa altro che rilanciarsi più e più volte, alzando ogni volta il livello dell’assurdo.

L’immane calvario a cui viene sottoposta Elizabeth si affianca alla vicenda contrapposta di Sue, interpretata da Margaret Qualley, una che persino Quentin Tarantino, regista notoriamente disinteressato dall’esaltazione del corpo femminile nella sua sessualità, aveva mirabilmente celebrato in C’era una volta a… Hollywood. Fargeat ne glorifica il corpo perfetto in tutto il suo splendore grazie a un insistito male gaze che rifugge la sinuosa grazia di un maestro come Abdellatif Kechiche, ma che risulta più grezzo e pubblicitario, come si addice a questa vicenda di bassa Hollywood. Qualley offre una grande prova, tutta di fisico (ovviamente), contrapponendo la sua freschezza alla pesantezza di Moore e del suo corpo provato dagli anni.

In generale, la regista si muove in questa storia di serie B con una regia e una produzione di serie A, affiancando (e potenziando) l’eccesso degli accadimenti con uno stile ricercato e, se non particolarmente raffinato, decisamente efficace. Ecco dunque un profluvio di grandangoli e piani grottescamente ravvicinati (che esaltano una bocca piena di denti marci, un bubbone gonfio di pus, un pezzo di carne martoriata), un compartimento sonoro gustosamente ripugnante (il semplice intingere un gamberetto nella salsa è accompagnato da un effetto che suggerisce immagini di ulcere esplose) e, soprattutto, un’infinita serie di dotte ispirazioni. La Hollywood misteriosa e maligna, le cui palme appaiono come totem nefasti, viene da Mulholland Drive e The Neon Demon, oltre che dalle storie di Bret Easton Ellis. Lanthimos e Kubrick sono ricordati nelle geometrie e nella fissità delle inquadrature, mentre il tunnel psichedelico di 2001 Odissea nello spazio non accompagna il viaggio oltre lo spazio e il tempo di un’astronave, bensì la discesa in uno spazio profondo ancora più inquietante, quello che si cela nelle insondabili spirali del DNA. Tutto il resto, ça va sans dire, è puro Cronenberg.

Cosa ci vuole raccontare Coralie Fargeat con questo film violentissimo, strabordante ed eccessivo (anche nella durata, 142 minuti che comunque volano)? Una parabola sulla Hollywood spietata che butta nel tritacarne chi cade lontano dalle luci della ribalta? Una critica al sessismo e all’ageismo (mi si perdoni il modaiolo neologismo) serpeggianti nella nostra società? Una favola morale sull’accettazione di se stessi? Un pamphlet femminista, dove tutti gli uomini sono predatori, sfigati, idioti o semplicemente dei pezzi di merda? Probabilmente un po’ tutte queste cose assieme. Ma a me piace pensare che il vero obiettivo fosse un altro: creare, se non il migliore, il più divertente, eccessivo, grottesco, disgustoso, esaltante, esilarante film horror del millennio, alla faccia dei suoi colleghi maschi. 

Missione pienamente riuscita.