«Io parlo il nero e parlo il bianco, e non in due lingue diverse, ma nello stesso francese che parlano tutti. Lo spiego […] perché forse non siete abituati al modo in cui noi africani viviamo il francese» (p.11).

Così inizia il romanzo I miei due papà di Éric Mukendi – scrittore congolese approdato in Francia all’età di sette anni – pubblicato in Italia da Edizioni E/O, che sarà ospite a CaLibro Africa Festival a Città di Castello dal 4 al 6 ottobre 2024. Con queste parole inizia, quindi, il racconto del giovane protagonista quattordicenne della storia, Boris, congolese per nascita e francese per adozione, trovandosi davanti ad uno psicologo per una perizia da sottoporre al tribunale in merito alla sua condizione di immigrato. Boris sente di dover sottolineare, da subito, la dualità della sua persona e della sua cultura – da una parte la semantica della sua vita con connazionali africani, dall’altra quella legata al nuovo mondo dei bianchi.

Éric Mukendi scrive una storia all’apparenza semplice – Boris si ritrova ad avere due papà; ma come scrive lo stesso autore, «noi africani siamo così, non facciamo mai niente come gli altri» (p. 28). Boris è nato in Congo, a Kinshasa; dopo la morte della madre, lui e Daniel, il suo padre biologico, hanno vissuto per qualche tempo da soli. Più tardi suo padre si è risposato, ma ha ripudiato la moglie a suon di «Ti ripudio, ndumba!» (p. 17) – termine usato nella lingua locale proprio per riferirsi ad una ragazza insincera e frivola. Boris e suo padre godono la loro compagnia reciproca per breve tempo: prima che se ne renda conto, Boris si trova all’aeroporto di Kinshasa su un volo diretto a Parigi, dove lo attende zio Fulgence – o, secondo la legge francese, suo padre. Boris, infatti, viene adottato legalmente dalla moglie di suo zio, Béatrice, in quanto figlio di Fulgence – questo, quantomeno, è quanto dichiara lo stesso Fulgence agli occhi della legge – permettendo così al ragazzino di ottenere la cittadinanza.

Quando papà Daniel bussa alla porta di Boris sono passati sette anni dall’ultima volta in cui si sono visti; e da quando, due anni prima, Daniel era partito da Bamako diretto in Algeria, Boris non aveva più avuto notizie sugli spostamenti di suo padre. Ora Boris si ritrova con una famiglia che si è allargata in sua assenza: suo padre si è risposato in Tunisia ed ha avuto una figlia. L’eventualità, per Daniel, di un soggiorno permanente in terra francese appare come un miraggio – così inizia una caccia alla possibilità di essere riconosciuto legalmente come padre di Boris e di avere quindi diritto alla cittadinanza francese.

Con questa storia così articolata, l’autore porta sotto i nostri occhi il dibattito sull’immigrazione, sui confini e sulle frontiere a livello giuridico, ma soprattutto a livello sociale, sul piano del quotidiano, scegliendo di istruirci con umorismo e leggerezza, raccontandoci l’ordinarietà di vite normali, o quasi. La storia narrata in prima persona da Boris riflette a più riprese un razzismo che si manifesta nel modo comune con cui l’altro viene percepito («I neri si assomigliano tutti, si sa», p. 43), attraverso il linguaggio riservato agli africani dalla popolazione francese («Anche se li accogli bene devono sempre comportarsi da selvaggi», p. 101), attraverso i comportamenti che gli immigrati sentono di dover tenere per essere accettati («Stavo attento ad avere un’aria cordiale e a mio agio, perché si sa che per principio quella gente ha paura di noi», p. 93). Per Boris tutto questo viene accentuato dall’incontro fugace con una ragazza francese, Hortense: l’ambiente ricco e raffinato in cui lei vive, gli amici e i compagni di scuola bianchi, così diversi dalla multiculturalità a cui lui è abituato nella sua scuola di Bondy. Boris sente subito bisogno di dare prova di sé, in un mondo socialmente e culturalmente costruito per dividere e distinguere. Suo padre Daniel, invece, non vuole accettare questa disparità, questa distinzione, che traspare anche nelle posizioni lavorative che gli immigrati loro malgrado si trovano ad accettare: «Ho una laurea in filosofia, sono un insegnante, un direttore di scuola, e mi tocca fare le pulizie» (p. 43).

In realtà la vita congolese-francese che Boris vive insieme allo zio Fulgence è ben bilanciata, avendo assorbito le usanze del paese e della cultura che li ha accolti senza aver dovuto relegare in un angolo le loro origini e il bagaglio di tradizioni nate in terra lontana. Zio Fulgence ha sposato una donna francese e, benché le incomprensioni non manchino, lui e Béatrice conducono un’esistenza serena e calorosa. Boris è un ragazzo tranquillo che cerca di tenersi lontano dai guai, talvolta senza successo. Daniel, invece, è più battagliero, più tenace e ancora largamente attaccato alle usanze congolesi; Boris e Fulgence se ne accorgeranno ben presto in un episodio esemplare. Una sera il figlio, suo malgrado, rientra oltre il coprifuoco, sapendo bene cosa lo attende: a Kinshasa la punizione per la disobbedienza e la menzogna sono dieci colpi di righello sulle dita, che ora, in Francia, si trasformano in dieci cinghiate di cintura sulle cosce. A quest’usanza si oppone fermamente lo zio, ma «Secondo la loro tradizione doveva solo stare zitto» (p. 111), lasciando che il padre si occupasse dell’educazione del figlio. Fulgence, tuttavia, non riesce a voltarsi dall’altra parte: per lui, oramai, queste usanze e modi di fare appaiono obsoleti, senza cognizione di causa, perciò decide di intervenire, lasciando Daniel a combattere tra lo sgomento e l’umiliazione:

Era chiaro che per lui una scena del genere non avrebbe mai dovuto svolgersi e che era entrato in un terreno sconosciuto, un mondo nuovo in cui le regole e la tradizione non bastavano più a fornire risposte e soluzioni ai problemi della vita quotidiana, un mondo in cui solo l’istinto e gli impulsi riuscivano a regolare le nostre azioni. Si vedeva che papà aveva paura di vivere in un mondo simile (p. 113).

Con la storia che Mukendi ci racconta impariamo così a conoscere piccoli elementi di un paese geograficamente lontano, finendo per delinearne il folclore, gli usi e costumi. Esistono varie lingue regionali nella Repubblica democratica del Congo: Boris e la sua famiglia parlano in lingala, la lingua della capitale, ma talvolta scappa loro qualche frase nella lingua della loro etnia, soprattutto nei momenti più litigiosi. Ci sono società matriarcali – come la tribù da cui proveniva la ndumba ripudiata da Daniel, dove è considerato normale avere più mariti – e società patriarcali, come quella dei baluba, l’etnia da cui proviene la famiglia di Boris. Per i congolesi la religione è essenziale per mantenere l’equilibrio sociale, mentre l’ateismo non è contemplato. Ciononostante Boris afferma che nessuno torna in Congo, tutti preferiscono scappare – come Daniel, d’altra parte, che sogna fortemente di cambiare il suo status quo. Ora ha una moglie e una figlia che richiedono la sua presenza e che hanno bisogno di lui economicamente, bisogni che non riesce pienamente a soddisfare essendo loro rimaste in Tunisia ed essendo lui un lavoratore precario in un nuovo continente. Con l’aiuto di un avvocato amico, Vincent, che lavora in un’associazione che supporta i sans-papiers come Daniel, la famiglia di Boris desidera far leva sulla moralità della popolazione francese, portando al centro del dibattito sociale e giuridico la questione dell’immigrazione e di situazioni familiari divise da frontiere che sono più mentali che fisiche. Vincent afferma che la loro storia potrebbe animare lo svecchiamento di leggi oramai anacronistiche, mostrando che attenersi ad esse risulterebbe crudele. L’attuale legislatura potrebbe lasciare un cittadino francese senza suo padre, presumibilmente un ragazzo senza la sua nazionalità francese; potrebbe arrivare perfino ad espellere padre e figlio, quest’ultimo legalmente adottato.  È lo stesso avvocato Vincent a suggerire un ulteriore passaggio della riflessione, quando ribadisce che:

da una parte c’è la legge […] dall’altra ci sono uomini, cuori, sangue, lacrime e sudore. Una frontiera non è altro che la manifestazione fisica della legge e ferma solo quelli che non hanno i mezzi per varcarla o scavalcarla (p. 145).

La frontiera è una linea che ferma, con tutta la potenza giuridica che il dibattito pubblico ha alimentato sempre più negli anni, e ci deve soprattutto spingere a riflettere. Cos’è la frontiera, oggi? Cosa contiene, che significati porta con sé questa parola? Il romanzo di Éric Mukendi non mira tanto a darci le risposte, giuste o sbagliate che siano, quanto a porci le domande più scomode, quelle più difficili, e quindi più necessarie.


Eric Mukendi, I miei due papà, trad. di A. Bracci Testasecca, Edizioni E/O, Roma 2024, 160 pp. 16,00€


Eric Mukendi aprirà domani, venerdì 4 ottobre, la seconda edizione di CaLibro Africa Festival a Città di Castello, insieme alla scrittrice Emanuela Anechoum e con l’accompagnamento musicale di Michele Mandrelli e Nicola Pitassio.