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Il teatro dell’incontro: La casa delle orfane bianche di Fiammetta Palpati

Varcare l’ingresso dalle maniglie dorate, superare il foyer, accomodarsi in platea, aspettare che le luci si abbassino e che il sipario si levi, osservare un proscenio vuoto e un palco buio. Una voce si staglia nel teatro, legge un’«AVVERTENZA»:

La gran parte della vicenda che il lettore troverà narrata nelle seguenti scene, o allo svolgimento della quale assisterà, è liberamente – e senza vincoli di fedeltà – immaginata a Amelia, al giorno di oggi (p. 11).

Così esordisce il testo proposto dall’autrice – nonché regista – Fiammetta Palpati. Un esordio spettacolare sotto ogni suo aspetto, primo fra tutti il suo arco di vita.

La casa delle orfane bianche è stato pubblicato a gennaio da Laurana Editore nella collana Fremen curata da Giulio Mozzi. Basta la lettura di poche pagine per appurare l’originalità del testo. Un’originalità che è stata subito riconosciuta da due dei più prestigiosi premi letterari dedicati agli esordi in Italia: Palpati a maggio viene insignita del Premio Opera Prima dalla Fondazione Mondadori. Neanche un paio di settimane più tardi vince il Premio Campiello Opera Prima. La giuria peraltro riscontra la profonda originalità dell’opera, declinata sotto quattro punti di vista principali: «di linguaggio, di drammaturgia, di impianto e di tema». Insomma: originalità di contenitore e di contenuto.

Il contenitore di questo romanzo è debitore della struttura della pièce teatrale: un testo in due atti aperto da un’avvertenza e inframmezzato da un “intervallo galante”. Ogni atto è poi suddiviso in capitoli – in giornate, quarantasette per la precisione – che seguono lo svolgersi temporale della Pasqua secondo il calendario cristiano, dalla Quaresima alla domenica della resurrezione.

Del teatro, poi, si riconosce la profonda cura nei confronti dell’aspetto scenografico della vicenda: nel libro di Palpati un’attenzione certosina viene dedicata alla descrizione dello spazio della casa che ospita le protagoniste di questa storia. La distribuzione dei mobili, la disposizione delle stoviglie, il grado di decadimento dell’arredamento, il colore delle stanze: tutto concorre a creare un’atmosfera vivida ed evocativa, dove anche l’elemento in apparenza più insignificante, come un’oca o una damigiana o un telecomando, si carica di simbolismo.

Sempre rimanendo aderenti alla sfera teatrale, uno degli aspetti di maggiore interesse di questo libro è il «narratore imperfetto» che dà voce alla storia: «un flâneur da sala piegato alla cronaca o un videocronista con ambizioni letterarie», si legge nel risvolto di copertina, una figura posta a latere della narrazione, elegante e azzimata nel suo distacco, a tal punto da risultare snob e giudicante nei confronti degli eventi e dei personaggi messi in scena. Oltre alla ricercatezza raffinata del linguaggio di questa figura, ciò che la caratterizza in misura preponderante è il tenore ironico e surreale con il quale accompagna l’intero arco narrativo. Questo elemento risulta apparentemente in contraddizione con il carattere drammatico della vicenda: a un’analisi più attenta, però, tale scelta stilistica risulta efficace nel tenere il lettore lontano dall’immedesimazione e dal pathos che da questa conseguirebbe. È questo narratore a dare a Le orfane bianche un carattere tragicomico, che distingue questo romanzo nel panorama letterario italiano degli ultimi anni.

Se il contenitore è debitore del teatro, il contenuto deve molto alla tradizione del romanzo. La vicenda è semplice: tre figlie – Natàlia, Lucia e Germana – e tre madri anziane – Pina, Felicita e Adele – tentano un esperimento di quello che in tempi moderni viene definito co-housing: «Un incastro perfetto, considerato tutto. Una società. Un sodalizio. Di più: un gioco» (p. 29), tutte assieme «sotto lo stesso tetto all’insegna del vecchio adagio: mal comune vecchio gaudio» (p. 24). È così che queste tre figlie si ritrovano a prendersi cura di chi le ha messe al mondo, incontrando – e scontrando – una realtà casalinga e basso-corporea, basti pensare al gesto grottesco eppure imprescindibile della pedicure.

La vicenda narrata da Palpati chiama in causa direttamente la letteratura. Tra divertimento e dramma, gioca tra i generi, sperimenta voci diverse in un ambiente che è coacervo di allegorie e suggestioni poetiche, si riappropria di uno dei rimossi contemporanei più significativi – l’accudimento dei più anziani. Al tempo stesso dà ampio sfogo alla pressione del desiderio delle protagoniste: quello di sperare in qualcuno – una «fata madrina», a detta dell’autrice – che ci aiuti nel momento del bisogno. Ma come spesso accade, il desiderio è destinato a infrangersi sulla durezza feroce della vita.

Non ci vuole molto affinché si inizino a intravedere le falle del sistema: «I bisogni non si incastrano. Piuttosto si ingarbugliano. E chi era venuto per offrire sta finendo, più che altro, per chiedere» (p. 91). Esasperate da una convivenza decisamente meno idilliaca del previsto e sospinte da un passato che non manca di rievocare i traumi accumulati nel tempo, le tre figlie vedono degenerare nel fallimento e nel delirio generale il tentativo di spartirsi le fatiche della cura delle madri:

«Non basta essere infelici per farsi venire un’idea così. Be’, sul principio, è parsa anche sensata. Poi ha preso il suo verso, come tutto ciò che è sbagliato. Perché non solo il bene, dividerlo, si moltiplica. Anche il male» (pp. 70-71).

Nonostante l’ostinazione nel tenere in piedi il progetto – le figlie arriveranno addirittura a “scambiarsi le madri” –, ci sarà bisogno di una presenza esterna a ristabilire l’equilibrio – o a inventarne uno nuovo: «Bisogna che venga qualcuno da fuori a farci apprezzare le cose che abbiamo sotto gli occhi» (p. 73). È proprio sull’arrivo sulla soglia di casa di una suora, tale Modestina, che prende avvio il secondo atto del romanzo. È questa personalità austera e ambigua – donna di fede o imbrogliona non si sa – a portare a compimento l’agnizione delle protagoniste: sarà infatti la suora a svelare l’identità nascosta delle tre figlie – legata a doppio filo con quella delle madri –, quella di orfane bianche.

«Straziante è sentirsi abbandonare da chi ci ha amati. Ogni giorno un pezzetto: dapprincipio è sbadataggine – non afferra la mano – assenza – sarà malinconica? – dimenticanza – il nome – confusione – una parentela scambiata, negata. Si chiama demenza senile. Adesso, assai frequentemente, Alzheimer – come volete, ci si è intesi. Ma, se quella distanza che aumenta non è mai stata una prossimità, allora non è lacerazione, strappo. Ma tragedia. Coesistenza di opposti. Ambivalenza. Poiché non c’è la separazione dalla fonte d’amore, ma dalla speranza di essere amati. Dalla possibilità di correggere, di riparare. Pazzia.

Le orfane sono eroine di una tragedia. Desiderare vendetta nei confronti di chi ci ha generati è un abominio. Uno stigma. Esse devono perdonare il loro aguzzino. Tenerlo in vita.

Non meritano il nostro scherno» (pp. 236-237).

L’ingresso della suora nella casa sbilancia la simmetria fino a quel momento costituita. Come ha sottolineato Alessandro Zaccuri nella postfazione: «Il problema, nel romanzo di Palpati, è che la morte delle madri ancora non è avvenuta, ma le figlie sono orfane lo stesso, orfane da una vita, solo che se ne accorgono solo ora, mentre accudiscono quelle vecchie tornate bambine» (p. 363). Ecco che, nello scompiglio e nella disperazione, i ruoli sembrano detonare in una danza dove, tra la preparazione del banchetto pasquale e il continuo affannarsi dietro le esigenze della suora, figlie e madri sembrano trovare una dimensione non di guarigione, quanto più di consapevole accettazione:

«Il perdono è nell’incontro.

Uno fa un passo: chiede perdono. L’altro fa un passo: dà il perdono. Un dono più grande.

Il perdono è nell’incontro – nel passo in avanti, e non solo nel gettarsi in ginocchio. Ma anche chi perdona fa un passo verso l’altro, e si getta in ginocchio. Chi chiede perdono e chi dà il perdono solo sullo stesso piano, possono allungare una mano e si toccheranno. Usano i medesimi gesti. Conoscono gli stessi nomi. Essi chiamano male il male, bene il bene. E tutto questo, coscienza.

Anche il male è una relazione, come il bene; e nella relazione che lo riconosce, lo nomina, lo ricorda, può esserci la sua cancellazione. Chiedere perdono è, dunque, volersi incontrare per riconoscere il male – riconoscimento, non pentimento» (p. 309).

È l’incontro la dimensione che domina la porzione finale del libro: non vi è guarigione né pentimento, bensì riconoscimento comune del male passato. Nell’accorciarsi delle distanze fisiche ed emotive di figlie e madri, i ricordi e i traumi che hanno rimbalzato tra le pareti delle stanze nelle pagine del romanzo, infine, sembrano arrestarsi per essere guardati con indulgente perdono. Distrazioni, negligenze, abbandoni, assenze: tutto convoglia per estinguersi – mantenendo vivo il tono assurdo del romanzo – nel banchetto finale – non a caso il primo vero momento di apertura della casa alla realtà del mondo circostante.

L’incontro in questo libro non è solo evento narrato, ma anche strumento narrativo. Nell’esordio di Palpati ciò che lascia stupefatti è l’armonia – impressionante nella sua naturalezza – che elementi tendenzialmente opposti generano nell’approssimarsi l’un l’altro: l’impianto teatrale con il serbatoio romanzesco, la tragicità degli eventi con la comicità della voce, il lutto e la risata, il lirismo poetico con il grottesco corporeo, la precisa concretezza della descrizione con l’evocativa astrazione del simbolismo.

A rendere indimenticabile il ritmo di questa lettura è il panorama che si staglia di fronte agli occhi del lettore: l’ordine creato dai contrari, il sublime prodotto dalle antitesi. È questa, forse, la cifra che rende lo spettacolo narrato in questo libro davvero originale. La casa delle orfane bianche racconta una storia che, tornando al corpo senza dimenticare l’anima, svela i cortocircuiti della vita, quando ostinazione e incantamento esistono persistenti nello stesso spazio, mostrando complementari elementi umani quali egoismo e altruismo, senso di colpa e bisogno di riconoscimento, rancida immaturità e fulminea consapevolezza, risentimento passato e necessità presente.

Una storia che lascia il finale aperto – o meglio: il sipario alzato – e che si rivela capace di accompagnare il lettore anche oltre le porte del teatro, fino a casa, divenendo un ricordo prezioso, uno sputo di crescita, come solo un vero e grande spettacolo sa fare:

«E qui si chiude la porta sulla casa delle orfane bianche.

Non si conclude, invece, la storia. Non delle nostre donne: esse sono vive e in discreta salute. E non della casa, che sta dove è rimasta negli ultimi cent’anni, almeno, sebbene sia un po’ diversa da come vi è stata descritta. Forse neanche è conclusa l’avventura di suor Modestina – un personaggio che, sotto diverse sembianze, scommetterei non avrà difficoltà a trovare una nuova sistemazione.

Ma, meno che mai è finita l’esistenza delle orfane bianche.

Nel partecipare alla vita si corrono così tanti rischi che di esse (e di essi) il mondo è pieno – e se qui s’è raccontato solo di donne è esclusivamente perché l’autrice ne ha più dimestichezza. Ne continueranno a nascere per quanto si vorrà dire, e fare, e correggere, e prevenire. E a tirare le somme dei giorni, giurerei che i loro non saranno peggiori né migliori di quelli di tanti altri» (p. 355).


Fiammetta Palpati, La casa delle orfane bianche, Milano, Laurana Editore 2024, 19 €, 376 pp.