Il protagonista de La misteriosa fiamma della Regina Loana di Umberto Eco sostiene che gli scrittori diventino tali perché disprezzano gli altri scrittori: visto che non amano i libri in circolazione, ne scrivono di propri per avere finalmente qualcosa di bello da leggere. Negli ultimi quattordici anni, da quando cioè ho iniziato a inviare i primi racconti e romanzi a case editrici e riviste letterarie, ho speso molto tempo a cercare di capire le cause della mia echeggiante e improbabile incapacità di raggiungere un qualsivoglia traguardo editoriale, una sconfitta di cui ho finora riscontrato pari soltanto in Snoopy. Non sono bravo? Non so l’inglese (la lingua in cui, per ragioni ormai dimenticate, mi ostino a scrivere)? C’è poca domanda nel mercato contemporaneo per storie di orrori genetico-istituzionali annidati nella scena gastronomica della provincia nord milanese? Chi può dirlo. Una delle spiegazioni che più mi affascina, senz’altro poiché non priva di un certo alone romantico o almeno emo, è che in fondo io non sia affatto uno scrittore, almeno non secondo il criterio stipulato dal narratore di Eco più sopra.

A me i libri tutto sommato piacciono. Per carità, non tutti, ma non posso nemmeno dire di avere gusti particolarmente esigenti. Mi capita inoltre regolarmente, diciamo una volta ogni paio d’anni, di leggere un libro così bello, e che dice in modo così chiaro esattamente quello che volevo dire io, che non mi sprona a comporre un’opera di pari spessore (sono da sempre privo di spirito agonistico) ma si porta invece via un pezzettino del mio bisogno di scrivere. La fortezza di Jennifer Egan è un libro del genere, così come Sogno numero 9 di David Mitchell. L’ultima devastante aggiunta a questo mio canone personale è Sabato champagne di Alice Valeria Oliveri, pubblicato da Solferino nel 2023.

Utilizzando una prosa elegante, aulica a tratti e becera altrove, Oliveri descrive la placata tristezza di una vita formata dall’abitudine alla solitudine e plasmata dai messaggi tutt’altro che disinteressati trasmessi da un televisore sempre acceso, amico inseparabile a un tempo amorevole e meschino. Sabato champagne è un libro ingannevole, che nasconde, così come la sua protagonista Anita, complessità, dolore e oscurità sotto una facciata di pacata disillusione. È un romanzo che, del romanzesco, ha all’apparenza poco – a una lettura superficiale potrebbe sembrare, infatti, un lungo saggio di critica dei media – ma che sa utilizzare invece gli aspetti più rivoluzionari dell’arte narrativa: l’accettazione delle contraddizioni intrinseche dell’esistente; la capacità della finzione di porsi fuori dai dettami della vergogna e del tabù, potendo così esprimere anche le confessioni più inenarrabili. Persino quella (orrore! orrore!) di una passione trasversale per il lato più trash della TV italiana.

Sabato champagne si dilunga infatti in astute analisi e minuziose osservazioni sui programmi chiave della Mediaset anni Novanta e Duemila, da Non è la Rai a Striscia la Notizia fino ai format inaffondabili di Maria De Filippi. Quei programmi, insomma, che hanno accompagnato Anita attraverso i suoi quasi trent’anni, dalle ore solitarie della sua infanzia al tempo trascorso col suo primo ragazzo, dagli anni paurosi dell’università fuori sede fino alle speranze e ai disincanti della vita lavorativa – per altro proprio nella Cologno Monzese che è il centro nevralgico di questo impero mediatico. Attraverso riferimenti classici e paralleli epici, Oliveri fa di Costantino Vitagliano e Lele Mora dei moderni Achille e Nerone; fa emergere tutta la carica mistica e sovrumana di una figura enigmatica come quella di Maria De Filippi, e dipinge con la giusta dose di mistero, fascino e timore le personalità che dirigono questo show infinito, nascoste dietro al simbolo revisionista della compagnia, il biscione milanese che, invece di divorare la sua preda, le offre un fiore. Sabato champagne è in grado di sviscerare in maniera disarmante e convincente, senza gli allarmismi saccenti che appesantiscono molta critica dei media popolari, le dinamiche sociali che questi programmi hanno in primis catturato ma poi inevitabilmente anche formato, in un processo tipico di tutta la narrativa per cui il mondo prima lo si racconta ma, nel farlo, al contempo lo si plasma. Ed è impossibile sottovalutare, come il romanzo suggerisce in maniera persuasiva, il modo in cui il regime di reality show, comicità nostrana “bassa”, cartoni giapponesi e serie americane proposto dalle reti Mediaset sia penetrato in ogni angolo del paese, formandone la cultura, gli ideali e le aspettative, una cappa che – come lo smog che corrode la città anche per chi non usa la macchina – influenza inevitabilmente la vita di chi non guarda Canale 5.

Non è forse il mio personale desiderio di successo letterario, internalizzato come ovvio in tenera età, nient’altro che il prodotto dei modelli di successo proposti come inevitabili dalle reti Mediaset? L’equivalente, per un bambino goffo e introverso come me, del riscatto tramite la danza praticato dalle compagne pre-pubescenti di Anita? Da piccolissimo, a sette o otto anni, chiamai i miei due conigli da compagnia Jerry Scotti e Enrico Papi. Ricordo pochissimo di quell’età, ma rammento una vaga convinzione che il mondo dello spettacolo fosse il posto giusto per me, e una simpatia innata per Silvio Berlusconi che molto preoccupò le mie maestre di quinta.

Nel romanzo il potere persuasivo e sinistro della cultura Mediaset (un vero e proprio modello di intrattenimento e forse addirittura di vita) fa capolino in maniera obliqua attraverso la storia personale di Anita, che si ritrova, dopo sogni accademici infranti, a lavorare proprio per la Mediaset che a un tempo l’affascina e repelle. La banalità e l’ubiquità di questo impero sono trasmesse con una prosa che a un tempo lo priva della sua aura glamour (riducendolo a un’azienda come ogni altra, i cui prodotti luccicanti nascondono lo stress, l’impazienza e il cemento provinciale da cui vengono generati) ma ne cattura anche il potere e l’attrattiva, trasformandola in una quasi-setta in chiave squisitamente italica, una forza di cui è facile beffarsi ma con cui è comunque e sempre bene non prendersi troppe libertà. Persino il gran padrone di questo mondo, Berlusconi stesso, fa capolino verso la fine del romanzo per raccontare – che altro – una barzelletta, in un passaggio di grande virtuosismo che ne cattura la decrepitudine e la forza, la fragilità e il magnetismo.

Quest’attenzione alla TV italiana come elemento trainante del romanzo non deve peraltro sminuire tutti gli altri aspetti che compongono un’opera profondamente camaleontica. Sabato champagne è, infatti, un romanzo familiare interrotto, o forse abbozzato, incentrato sul rapporto – affiatato ma anche distante – della protagonista con i propri genitori e la propria famiglia più in generale. È un romanzo in cui un ruolo chiave è svolto dalla casa in cui è cresciuta Anita, prodotto particolare e curioso dello spirito creativo di sua madre architetta e del padre musicista: una casa senza porte e con innumerevoli soppalchi, attigua a una bisca clandestina. Sabato champagne è, inoltre, un’opera di uno stile narrativo incredibilmente fine, capace di condensare in passaggi di fluidità Flaubertiana situazioni all’apparenza semplici ma echeggianti invece interi destini: «La verità è che io adoravo stare sola a casa a farmi i fatti miei, davanti alla tv, mentre gli altri erano in giro a fare altro» (p. 9). 

Come Lovecraft mi dimostrò per primo che si può parlare di esistenzialismo anche scrivendo di mostri bavosi, come La breve favolosa vita di Oscar Wao mi ha insegnato che i materiali della cultura nerd più becera (Dungeons & Dragons, le carte collezionabili) possono essere le pietre fondanti di una letteratura impegnata e alta, così Sabato champagne dimostra che persino nel perimetro di un’infanzia all’apparenza insignificante, trascorsa su un divano di provincia a guardare pessima televisione, si possano aprire spiragli che ci spieghino il mondo, quello collettivo delle nostre società e quello interiore dei nostri desideri e vergogne.

Cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero, ci si chiedeva. Sabato champagne racconta in maniera disarmante ma incredibilmente vivida un mondo in trasformazione, in cui i dogmi del passato lasciano il posto a un edonismo tanto aggressivo quanto moralista, in cui il successo personale diventa giustificazione di ogni sotterfugio e in cui l’immagine diventa la ragion d’essere suprema.

È facile (e legittimo) indignarsi per l’intitolamento dell’aeroporto di Malpensa a Silvio Berlusconi, ma la verità è che, sicuramente per la mia generazione e per quelle che Mediaset l’hanno assorbita ogni giorno assieme al glutammato e alle polveri sottili, Berlusconi non è a Gallarate, ma dentro di noi. Il suo ghigno beffardo è l’ombra che fa capolino allo specchio alla fine del racconto dell’orrore, il mostro che credevamo provenire dai meandri remoti degli abissi o del cosmo, ma che scopriamo invece essere ben radicato nel nostro albero genealogico. È tardi, ormai, per spegnere la TV.


Sabato champagne, Alice Valeria Oliveri, Milano, Solferino 2023, 18.50 , 320 pp.