San Sebastian, alias Donostia in lingua basca (“a” è l’articolo posposto), è una città di confine, al limite: geografico, il confine con i paesi baschi francesi è a pochi chilometri; (bi)linguistico, appunto, in equilibrio tra il castigliano (lo spagnolo che si parla a Madrid per capirci), e il basco, la lingua che da decenni è il grande mistero della linguistica storica – non si capisce, infatti, nonostante sia nel cuore dell’Europa, a che genealogia appartenga -. Nell’intercapedine, abbiamo la leggendaria tarta de queso (una sorta di cheesecake), il calimocio (vino più coca cola), la galerna (il vento che alterna pioggia e sole senza sosta), e il San Sebastian International Film Festival, l’ultimo appuntamento tra i grandi festival europei (dopo Berlino, Cannes, Venezia) e l’inizio dell’award season.
Quest’anno, tanto in concorso quanto in sezione Perlak, quella dedicata alle proiezioni in anteprima dei film provenienti proprio da Cannes e Venezia, c’erano titoli molti attesi. Qui vi parlo di due pezzi da novanta come François Ozon e Costa-Gavras – rispettivamente con When the Fall is Coming e The Last Breath – che però mi hanno deluso; e di due sorprese (o conferme), ossia il ritorno dietro alla macchina da presa questa volta per un film, e non un documentario, di Joshua Oppenheimer con The End, e di Afternoons of solitude, vincitore del festival, diretto dall’ormai affermato Albert Serra. Della sezione Perlak, ci sarebbe l’imbarazzo della scelta – dall’anteprima di Megalopolis di Coppola, a The Substance il film scandolo di Fargeat presentato a Cannes; qui ho scelto un’altra pellicola che mi ha affascinato, ossia Bird, il nuovo film di Andrea Arnold.
When the Fall is coming di François Ozon e Last Breath di Costa-Gavras
François Ozon, esponente del cosiddetto “cinema dei corpi”, ha presentato a San Sebastian, dove ha già vinto in lungo e in largo, la storia di Michelle (Hélèn Vincent), nonna di Lucas ed ex prostituta, che si è ritirata in Borgoña per trascorre la vecchiaia. L’innesco narrativo è legato al tema dell’assurdo: Michelle, in bilico tra demenza e coscienza, cucina dei funghi velenosi alla figlia. Da quel momento in poi, le sarà vietato di trascorrere del tempo col nipote. Nel frattempo, il figlio Vincent (Pierre Lottin) dell’amica Marie-Claude (Josiane Balasko) esce di galera (non sapremo mai perché c’è stato), e Michelle gli presterà dei soldi per aprire un locale e rimettersi in careggiata. All’improvviso, però, la figlia di Michelle muore, buttandosi da un terrazzo, e pare che Vincent c’entri qualcosa. Ozon, in When the Fall is Coming, miscela – ed è ciò che non funziona – una quantità eccessiva di tematiche: l’isolamento della vecchiaia, la demenza, il senso di colpa, il tema della redenzione, il rapporto madre-figlia, e financo quello della prostituzione (riferimento, appunto, al cinema dei corpi). Lo sguardo (apparentemente) ingenuo, tipico del regista francese, a differenza di altri lavori come, per esempio, Giovane e bella, diventa ben presto confuso, al limite del superficiale, e de-sostanzia una storia anch’essa impalpabile. When the Fall is Coming rappresenta il tentativo di fondere lo sguardo leggero ma analitico della famosa trilogia del lutto, l’intenzione politica di molte sue pellicole precedenti (per esempio nella penultima, Grazie a Dio), e un’atmosfera romantica, in cui i legami relazionali dominano la partitura diegetica, per esempio in Estate ’85. La fusione, però, è rimasta sulla penna dell’autore francese; si salva, forse, solo l’interpretazione convincente di Pierre Lottin, in uno dei film, spiace dirlo, meno riusciti del regista francese.
Costa-Gavras, all’alba dei novant’anni, dopo capolavori che hanno segnato la storia del cinema come Missing (Palma d’Oro nel 1982) e Z-l’orgia del potere (Gran Prix a Cannes nel 1969), confeziona una pellicola-soliloquio, anti-inchiesta, sul tema frequentatissimo in questa annata cinematografica del fine-vita, basti pensare a La stanza accanto, il film di Almodovar Leone d’Oro a Venezia all’inizio di settembre. La mise en page, però, è stanca, ripetitiva; l’idea di mimare l’intenzione delle operette morali leopardiane e/o replicare il dialogo platonico, tra oncologo e scrittore, perde d’intensità quasi subito, nella ripetizione acritica della necessità di “morire con dignità”. È un addio alle scene, se sarà così, purtroppo inconsistente.
The End di Joshua Oppenheiner e Afternoons of solitude di Albert Serra
In La politica della famiglia di Laing (arcinoto per un altro suo testo, l’Io diviso) lo psichiatra mette in relazione la fenomenologia delle dinamiche famigliari, leggasi il mito fondativo della tradizione cristiana, e la schizofrenia. Joshua Oppenheimer, dopo aver segnato la storia della documentaristica con L’atto di uccidere e The Look of Silence, pare aver ricevuto l’eco di Laing mentre girava The End, musical post-apocalittico. Il film racconta la storia di una famiglia (interpretata da Tilda Swinton, George MacKay, Michael Channon) isolatasi in una labirintica miniera di sale, messa a dura prova dall’arrivo di uno estraneo, una ragazza, quasi fosse una opera teatrale latina. Oppenheimer confeziona un “essay” sugli equilibri famigliari, mixando e alleggerendo la narrazione con le sequenze musicali (forse la parte meno riuscita del film) e una dialogica fondata sul parlato tangenziale. The End restituisce un particolarissimo gioco tra la dimensione ucronica – cosa sarebbe potuto succedere se la ragazza non fosse arrivata / la famiglia non si fosse isolata – e quella eterotopica, dello spazio focaultiano dell’ “emarginazione connessa” al mondo circostante, quello “sopra” in questo caso. Oppenheimer firma una delle pellicole più interessanti e visionarie del festival basco (e non solo), che ha il solo difetto di non sostenere integralmente il peso teoretico che porta.
Albert Serra – non di certo uno sconosciuto nel panorama cinematografico, tra Pardo d’Oro e Gran Prix vinto – ha portato il film-scandalo (sul serio, non come per Babygirl a Venezia) Afternoons of solitude, dedicato al più controverso dei temi spagnoli, la tauromachia (o corrida). Quello del regista era, a ragione, la pellicola più sorprendente del festival, bilanciata da un’operazione di editing solenne, imponente, che analizza in senso autoptico oltre quattordici differenti perfomance del torero cileno Andrés Roca Rey. È un progetto, che com’è ovvio, ha polarizzato sia la critica che l’opinione pubblica spagnola, tra conservatori e antitaurini. Serra ha realizzato una non-fiction che ribalta lo sguardo hemingwayano di Morte nel pomeriggio o Fiesta, l’omicidio in diretta del toro non è più l’oggetto della metafisica, ma è ridotto a una rappresentazione empirica, fenomenologica della morte. Sarà un documentario, quello di Serra, che farà scuola e di cui, soprattutto in spagna, non si smetterà di discutere.
Bird di Andrea Arnold
C’è chi ha scritto che Bird, l’ultimo film di Andrea Arnold, è un Truffaut versione fantasy, ed è esattamente così. Presentato a Cannes, ed escluso dai premi principali, quello di Arnold è una delle pellicole più struggenti dell’anno: è un coming of age ambientano nei sobborghi del sud-est dell’Inghilterra, che segue la storia della dodicenne Bailey (Nykiya Adams), di suo padre Bug, l’ormai noto Barry Keoghan, e di Bird, l’ennesima straordinaria interpretazione di Franz Rogowski.
Bird è una fiaba, perché, direbbe Propp, c’è elemento magico – a Bird spunteranno le ali, tra allucinazione e realtà. Sembra che Arnold abbia guardato Misericordia, l’ultima fatica di Emma Dante, perché la somiglianza tra il Bird di Rogowski e l’Arturo di Simone Zambelli è sorprendente. Come, d’altra parte, è travolgente la carica emotiva del film; con una camera sempre attaccata ai personaggi, talvolta con finte soggettive, e un discorso metanarrativo sempre attivo, nei filmati che fa Bailey con lo smartphone, a rimestare ogni concetto, ogni rappresentazione, il motore cioè dell’adolescenza. Credo che Arnold ci abbia regalato uno dei racconti di formazione più belli degli ultimi anni, ha, infatti, incanalato una bulimia emotiva impetuosa, feroce, in un quadro di speranza e redenzione, tanto che alla fine, nel “andrà tutto bene” che Bird dice a Bailey, ci si crede, e succede di rado.