All’inizio della seconda parte di Charlie Palla di Cannone, il romanzo d’esordio di Giulio Spagnol da poco uscito per Mondadori, lo scrittore del racconto che il lettore ha appena terminato prende la parola per spiegare le ragioni che stanno alla base della propria opera. Questo essere di carta è implicato in una strategia autofinzionale con cui l’autore rimanda ai dati biografici presenti nel risvolto di copertina e al tempo stesso li contraddice.
Il Magdalen College di Oxford dove ha studiato diventa ad esempio l’Hertford College in cui insegna il personaggio (103). Il suo obiettivo sembra quello di prendersi sornionamente gioco dell’ossessione contemporanea per i fatti realmente accaduti. La sequenza iniziale ne è una mise en abyme. Lo scrittore parla con il suo editore, che viene rappresentato impietosamente mentre cerca di convincerlo ad allungare il suo testo con un aneddoto qualsiasi, «anche insignificante va bene, basta che sia vero…» (104).
Alla bruta verità documentaria si oppone il mondo di invenzione della prima parte. Il racconto si apre con i divertenti interrogatori del Preside di una scuola elementare che cerca di capire come sia possibile che la maestra Calamari sia stata ritrovata legata in un armadio del laboratorio di Biologia. Attraverso un montaggio di scene abbastanza complesso si arriva a comprendere che l’evento è l’esito della ribellione degli alunni della quarta A. Tutto è cominciato con gli insegnamenti filosofici di uno studente, Carlo Campo detto Charlie.
La storia di Charlie è segnata da un trauma. In seguito a una meningite è rimasto senza arti. Questo evento abnorme ha avuto su di lui un effetto distruttivo:
Ecco, sei disteso nel letto e senti che qualcuno ha tolto il tappo all’universo e la tua giornata, che deve ancora iniziare, comincerà a scolare dentro la voragine che si è aperta e ci sparirà dentro, verrà inghiottita. Prima placidamente, senza scossoni, come scola l’acqua sporca da una vasca da bagno. Poi sempre più in fretta, come un vortice, come le rapide di un fiume – il Rio della Plata, il Rio delle Amazzoni, fai tu. Il tempo è diventato un fiume, un fiume che, mentre dormivi nel suo letto, ti ha travolto e scorticato, ti ha staccato la pelle. Ora sei esposto, hai gli organi in bella vista che pulsano lividi all’aria aperta. Di te non rimangono che lo scheletro e gli organi. (40-41)
L’immagine della pelle esprime la distruzione della personalità spogliata dei propri attributi. La vita diventa così un «pellegrinaggio» (41) senza una meta precisa, in cui il bambino prova a ricostruire se stesso, come un rabdomante vagando con il suo «bastone da netturbino» (43): «Sai che devi coprirti, sai che devi ritrovare i brandelli di pelle che il fiume ha spazzato via, questo prima di morire di freddo, sai che devi fare in fretta, sa anche che la ricerca durerà un tempo infinito» (41). Il male è una realtà incomprensibile, che però «esiste» (38) e con cui bisogna fare i conti. Anche a costo di non riuscire mai del tutto a liberarsene.
Dopo un fallito tentativo di suicidio, Charlie sceglie la via dell’ascesi. La sua morale diventa innanzitutto quella del silenzio: «Non le rispondo perché non credo sia utile. Anzi, potrebbe essere addirittura controproducente» (28). Ma anche quella del rifiuto della contingenza. Charlie desidera uscire dal tempo e apprende che le «leggi assurde» che regolano la vita «hanno la stessa consistenza del nulla» (54).
Questo insegnamento è al centro della lunga parabola riferita da Charlie ai suoi compagni. Il bambino racconta i fatti che hanno portato allo scoppio della fabbrica Westlicher Dünger, ma in fondo dimostra che è impossibile risalire a una causa ultima, sottolineandolo anche attraverso lo stile digressivo. Charlie conclude: «La domanda che vorrei farvi è semplice: secondo voi, in fin dei conti, cosa ha causato lo scoppio della Westlicher Dünger?» (85).
La domanda è semplice, ma la risposta è difficile e forse impossibile. Nel caos della contingenza, in cui ogni evento sta in rapporto con una costellazione di altri eventi, non si riesce a venire a capo di niente. Tutto sembra accidentale e quindi non significativo. La morale di Charlie è infine anche quella dell’annullamento dell’io. In un dibattito con il Capoclasse Charlie propone la via del «sacrificio» in modo che «la nostra vera anima, il vero sé, il soffio, lo spirito verrà assorbito nel mare della non esistenza, e l’Io illusorio cesserà per sempre di esistere» (87).
Il Capoclasse rifiuta il suo misticismo perché l’anima per lui «altro non è che la coscienza» generata dal cervello (88). Nella disputa tuttavia Charlie ha la meglio ricordando che «nessuno di quegli agguerritissimi scienziati […] ha la minima idea di cosa sia esattamente la coscienza o di come venga generata dal cervello» (89).
Su queste basi dunque Charlie può accettare il male che porta inscritto nella propria corporeità: «Ti sembrerà strano, ma non cambierei questo mio corpo con nessun altro, questo mio fagotto di carne, sferico e duro, è un veicolo divino. Se tu fossi me, e non te lo auguro, ti dimenticheresti alla svelta di tutti i tuoi problemi, della tua intelligenza, dei tuoi voti stellari, dei tuoi premi. Se ci pensi bene sono solo ostacoli» (91). Attraverso il male Charlie è in grado di comprendere l’insignificanza della contingenza.
Charlie mette in pratica le sue riflessioni attraverso un’«ascesi scivolatrice» (85). Con l’aiuto dei compagni fa scivolare il proprio corpo su qualsiasi superficie abbia a disposizione e questo lo allena a realizzare il proprio ideale ascetico. Quando la signorina Calamari parla della possibilità che Charlie si trasferisca in un’altra scuola, il Capoclasse, che ha diffuso la sua lezione tra i bambini, fomenta la folla dei compagni, dimostrando come la vita scolastica riproduca tutte le storture della società neoliberale:
Il destino della nostra classe è segnato: il nostro futuro è già imbullonato nei compiti a casa, nelle verifiche, negli esami, nei dettati, nelle graduatorie, nei concorsi, nelle università più o meno prestigiose. Soffocato dalla burocrazia, dagli algoritmi, dalle piccinerie, dagli sgarbi, dalla competizione fra uomini nel mondo reale, così come nel mondo virtuale, dal sistematico attentato ai danni della nostra concentrazione, dalla settimana corta che aggraverà la nostra condizione esistenziale di consumatori, così come dalla frustrazione di non soddisfare mai le assurde pretese dei nostri genitori, dall’ascensore sociale inceppato, dal precariato, dall’impoverimento, dalle partite Iva, dagli sgomitatori e dagli scellerati piani pensionistici dei governi. Il minimo che possiamo fare è aiutare Charlie nella sua impresa. Dico bene? (93)
Aiutare Charlie significa opporsi allo stato di cose presente. L’ascesi è il contrario della società burocratizzata, individualista, consumista e priva di forme di trascendenza. Adesso la ribellione è innescata.
Ora, nonostante il fondamento di questa storia stia nella sua esperienza reale, lo scrittore segnala di averla trasformata, attraverso gli strumenti della letteratura, in una vicenda finzionale. Il principale dispositivo impiegato in questo senso è quello enunciativo. Lo scrittore ha preso parte agli eventi raccontati nelle vesti di Capoclasse. Ma la sua è soltanto una delle voci cui è affidata la narrazione.
Nella prima sequenza ad esempio c’è un narratore in terza persona che riferisce vicende cui il Capoclasse non ha partecipato, mentre nella seconda c’è un narratore in prima persona che non è però il Capoclasse. Lo scrittore dunque parte dalla propria esperienza per poi costruire un mondo ulteriore. L’altro importante dispositivo è la materia contrassegnata da una divertente assurdità, con cui viene data forma a quella che nel risvolto di copertina è definita «favola folle». Il mondo che lo scrittore costruisce è, per così dire, un mondo impossibile. Le metafore animali e le rappresentazioni fortemente caricaturali infine contribuiscono forse all’effetto di finzionalità, favorendo la trasformazione del vissuto in favola:
«Il Preside si affloscia sul suo seggiolone e arriccia le labbra. Sulla testa da testuggine due arterie temporali battono il tempo, le tampona con un fazzolettone bianco» (12);
«Il Segretario lo segue e con movimenti meccanici da gattone artritico torna a sedersi sulla poltrona, alla sinistra del Preside» (12);
«Tutti e due si mettono a ridere – la risata del Capoclasse è più il fischio di una pentola a pressione con riverbero asmatico» (20);
«Il Segretario si ritira nella poltrona come una lumaca a cui hanno toccato le corna» (22);
«La mano la diede a quella smorfiosa di Mindy Mendelssohn, con quei fiocchetti rosa nelle trecce e quell’apparecchio cromato che quando sorride sembra il cofano di una macchina (29).
Lo spazio-tempo della storia di Charlie è chiaramente finzionale. Nella seconda parte il Capoclasse ormai adulto continua ad avvertire il tempo come un peso di cui liberarsi: «Andare da mio zio a sentire il mondo che passa, il tempo che si svolge, seduto da qualche parte, magari su una panchina dei Kensington Gardens mentre comincia a piovere. Scrollarmi il tempo di dosso come un labrador fradicio. Gli attimi che rovinano. Generali esiliati. Che ruzzolano gli uni sugli altri e io su di loro. Sparire» (106).
A questo desiderio sembra legarsi la necessità della finzione. Scrivere significa «sanguinare a comando» (113). L’opera ha la sua origine in una ferita. La finzione serve a ripeterla in forma simbolica per guarirla. Del resto, la «temperatura uterina» (113) della biblioteca di cui lo scrittore ha bisogno suggerisce una ricerca regressiva finalizzata ad affrancarsi dal male. Questa è la funzione della favola raccontata nella prima parte. Qui bambini ripetono continuamente le loro frasi senza senso e così trovano la loro felicità. «Sapete perché i Pokémon sono così felici? Perché ripetono sempre lo stesso gesto» (60), dice il Capoclasse. Alla felicità perduta lo scrittore guarda con nostalgia.
Contemporaneamente però la finzione consente di fare un discorso che vada oltre il cerchio ristretto dell’io. La formula ripetuta «Così ho udito», tratta dalla mistica orientale, trasforma la vicenda in una parabola. La letteratura ha senso quando brucia i materiali soggettivi in una storia che valga per tutti. Altrimenti «rischia di dar voce alla tautologia di un io che esprime se stesso senza risultare rappresentativo» (Mazzoni 2015: 216).
Il tempo del mondo è quello del neoliberismo. Nella società atomizzata, in cui ogni individuo è interessato solo a esprimere se stesso in una logica di competizione, la letteratura deve lavorare in senso contrario. Il dominio del presente, il montaggio e i dialoghi rimandano alle arti mimetiche, dando la sensazione che la narrazione si faccia da sé. La letteratura è una forma di ascesi che permette di opporsi a un male che non è solo individuale ma anche collettivo.
È annullandosi che si riesce a dire qualcosa che valga la pena. In una delle sequenze più belle del romanzo, Charlie osserva il mondo dal finestrino della macchina riducendosi a puro sguardo. La sua mente «si salda al paesaggio» (46). È una quasi totale oggettivazione. Così diventa possibile riconoscere l’esistenza: «La vita è qui, è questo, è qualcosa del genere» (47).
G. Spagnol, Charlie palla di cannone, Mondadori 2024, 132 pp., €18.
(in copertina: «Art Institute of Chicago su Unsplash)