C’è una scena in Parthenope di cui si parlerà più di altre, perché ognuno si divertirà a dare la sua interpretazione: parlo del momento in cui Silvio Orlando, nella storia il professore di antropologia Marotta, presenta suo figlio alla protagonista, Parthenope appunto, interpretata da Celeste Dalla Porta. Chissà che vuol dire, è la metafora di? Dai titoli di coda, non ho smesso di immaginarmi Sorrentino fumare il sigaro e leggere divertito le esegesi più fantasiose, cervellotiche. È l’ennesima “frase a effetto” di una pellicola in cui Sorrentino esaspera la ricerca dello stupore, quell’intenzione per cui il regista napoletano cita spesso Sartre, Vi stupirò, vi stupirò tutti dice in Erostrato lo scrittore francese. 

Il film, di conseguenza, proiettato verso lo stupore spielberghiano – come ha scritto qualcuno – credo resterà tra i più divisivi di Sorrentino (com’è stato evidente sin dall’anteprima a Cannes). Di sicuro, è il più enigmatico, ineffabile, e lo si vede subito, nel fumo del prologo. Napoli, invece, come in È stata la mano di Dio, è ancora più protagonista, tra realtà e finzione, attenta a non farsi male, a differenza di Sorrentino stesso. 

Io non so niente ma mi piace tutto

Il termine ucronia (Adelphi ha pubblicato da poco un piccolo saggio di Carrère che ha riacceso l’attenzione su questa parola di origine greca) credo funzioni per descrivere la dimensione di Parthenope: quella della giovinezza, imprigionata tra il sognato e il controfattuale, cosa sarebbe successo se. La pellicola, si fa per dire, è tutta qui, nella coincidenza tra questo sentimento e il carattere della città. Il nome della protagonista fa il resto – è l’idea di Parmenide nel Cratilo di Platone, secondo cui quando mettiamo la stessa etichetta (un nome, quello antico di Napoli, Parthenope) a due cose diverse, allora queste diventano la stessa cosa, per il solo atto di nominare. Non penso però che tale sovrapposizione giustifichi il parallelismo tra Parthenope e Roma di Fellini (come, secondo alcuni critici, La grande bellezza è La dolce vita, ed È stata la mano di dio è Amarcord), che restano due pellicole profondamente differenti. Nella seconda, la città, la diatopia è l’unica protagonista; nella prima, Napoli è il riflesso di un rapporto simbiotico tra due poli; tornando al Cratilo, Napoli è l’intensione di Parthenope, ciò che consustanzia i mondi possibili della giovinezza, che la protagonista cerca di possedere tutti – dice, io non so niente ma mi piace tutto

Roma, insomma, riguarda più il piano sociologico; Parthenope (com’è evidente dalla figura interpretata da Orlando) quello antropologico, del vedere, non della rappresentazione, che frammenta la sua prospettiva, la ribalta, la spinge oltre, come la camera che sospesa, in orizzontale, oltrepassa i parapetti dei terrazzi, poi guarda dal basso verso l’alto, fino ai ripetuti close-up sul volto di Dalla Porta, chiusi in una fotografia liquida, seducente (di Daria D’Antonio come in È stata la mano di Dio). Più che un passo falso, come è stato scritto, Parthenope legge le conseguenze di un salto nel vuoto, all’indietro. Le ossessioni di Sorrentino, alla fine, sono sempre quelle, come in This Must Be the Place, quando il personaggio di Sean Penn dice, è che passiamo senza farci caso dall’età in cui si dice un giorno farò così, all’età in cui si dice è andata così

Perché (no)?

Da un lato, è un salto (o un ritorno) verso l’antropologia, e soprattutto l’antropologia napoletana, la culla dell’eterna vacanza di La Capria in Ferito a Morte, la Napoli che Sorrentino racconta e accusa, tra Capri e il cardinal Tesorone, mentre impersona la mistica del miracolo (una sorta di proiezione della Baronessa Focale di È stata la mano di Dio). Una carrellata tra decadenza ed eccesso, una fenomenologia del rituale, della conseguenza, in cui sacro e profano appartengono allo stesso prisma prospettico: Tesorone, allora, masturba Parthenope, ne osserva l’espressione, in una dimensione fiabesca. In Parthenope, la carnalità lascia il posto al sogno, dal volgare al magico è un sali-scendi impressionistico. Forse proprio l’inserimento dell’elemento magico, seguendo alla lettera Propp, in chiave anti-neorealistica (come ha giustamente scritto Pontiggia), racconta di più della scena di cui scrivevo all’inizio, e, più in generale, di una struttura diegetica debole, che vive più di nodi narratologici, di inneschi improvvisi – come la morte del fratello – e soliloqui a due, tra Parthenope e il John Cheever di Gary Oldman, tra la protagonista e Malva, l’insegnante di recitazione interpretata da Isabella Ferrari

Dall’altro, è un salto verso la giovinezza che, al contrario di Youth, il film che ha seguito La grande bellezza, non è perduta. In Parthenope, infatti, non ritroviamo il gusto malinconico, aspecifico del tempo che passa. È una pellicola che non confonde malinconia e nostalgia: è della seconda – il suo etimo, il greco nóstos lo segnala, cioè il ritorno di Ulisse nell’Odissea, tra, guarda caso, sirene come parthenope – di cui parla la protagonista, ormai adulta, interpretata da Stefania Sandrelli: [essere giovani] è durato poco, dice. Non solo, ancora in antitesi rispetto a Youth, Parthenope cementa una costruzione in progress del tempo: più di altre fasi della vita, la giovinezza è contemporaneamente l’officina del futuro e del passato (quello che poi ricorderemo). Quello di Sorrentino è un eterno ritorno che ha poco a che fare con Nietzsche

Il tempo, insomma, è in presa diretta, come lo è l’amplesso nella scena-scandalo del film. A questo punto, di questa scena, come durante i riferimenti imbarazzanti (ma non imbarazzati) di Malva al sesso anale, Mereghetti si chiederebbe il perché, che bisogno c’era di sfoderare un armamentario sempre più eccentrico. Ecco, forse, come sottolinea spesso Marotta nel film, perché è in questo caso la domanda sbagliata. O, quantomeno, temo non sia a fuoco: il gioco di Sorrentino, in Parthenope, piaccia o meno, è lo stesso che domina la sete di fascinazione della giovinezza (miscelato alla mistica partenopea): allora, al contrario, risponderemmo, perché no? Cioè per dirla alla Sorrentino: è la discrasia tra l’irrilevante e il decisivo che si sta cercando, la possibilità che non solo il concetto di Africa esista – detta alla Godard –, ma che anche tutti gli altri, i giovani, li vogliono avere. Mi viene in mente la battuta proprio di Sorrentino al Giffoni quest’anno: è vero, ci sono i giovani dell’ipertrofia del sé su Instagram, ma anche quelli che leggono Proust, e poi quelli che leggono Proust ma non lo capiscono

Come cometa

Il Guardian ha scritto che Sorrentino in Parthenope scade nell’autoparodia; Variety che siamo di fronte a un trattato di bellezza cinematografica. Forse è un problema di ri-conoscere, e il cinema di Sorrentino è riconoscibile come pochi altri: allora quando esacerba, come in questo caso, la dimensione dell’evanescenza, spesso labirintica dietro al volto di Parthenope, il giudizio si polarizza. 

A essere onesto, dovessi dare un voto, come si fa di solito (per fortuna non qui su La Balena Bianca), per riassumere il proprio pensiero su un film, su Parthenope sarei in difficoltà. È evidente che la storia rappresenti una parabola per certi versi estrema, anche dal punto di vista diegetico come detto, e che Sorrentino, da grande amante dei personaggi (più che della trama), abbia scelto di addensare il campo narrativo e, al contempo, tentare l’impossibile: renderlo statico, immanente, il grande e paradossale colpo di scena – se non nella fine, nell’epilogo affidato a Sandrelli e alle immagini dello scudetto del Napoli. Di conseguenza, come ogni esercizio al limite , a volte si perde l’equilibrio, si rischia che l’inconsistenza non sia più la cifra dello stupore ma del nulla, e alcune impasse – penso alla sequenza in cui Parthenope è corteggiata da un misterioso uomo a Capri – ci sono, tanto da renderlo forse il più imperfetto, il più faticoso – è stato detto – della filmografia di Sorrentino. 

Tuttavia, da Parthenope scaturisce una pulsione evocativa vertiginosa – a livello visivo come è ormai consueto aspettarsi da Sorrentino, ma anche a livello emotivo –, che in quest’annata cinematografica è difficile da ri-trovare; forse, per fare un nome, solo in All We Imagine as Light (Granx Prix a Cannes). 

L’entrata in scena della protagonista, che riassume tutte le attenzioni su di lei, come nell’incipit de Gli Indifferenti Entrò Carla, dice Moravia, e poi il resto – è il segno che Parthenope vive, è evidente, di luce propria ma è anche affascinata, come tutti, dalla luce che riflette. Nel dubbio tra queste due prospettive, la giovinezza e Sorrentino scavano, senza offrire una sintesi, se non in quel è durato troppo poco. Viene in mente uno dei racconti più belli di Del Giudice, Come cometa, in cui appunto i protagonisti si preparano al passaggio velocissimo di una cometa, che vedranno solo di sfuggita, dopo aver calibrato al millimetro ogni strumento, per tentare in qualche modo di fermare il tempo. Parthenope, il fidanzato e il fratello ci provano a modo loro, mentre Cocciante canta Era già tutto previsto. Dietro la finta carrellata circolare, Sorrentino realizza una scena che è già uno dei ricordi più belli del nostro cinema. Forse sì, era già tutto previsto, aver perso qualcosa: mentre mi osservano, me ne sto già andando, dice del Giudice.