In un’epoca ormai antica, età della pietra quanto a mezzi di trasmissione ma età dell’oro del giornalismo, Telecapodistria è stata caput mundi.

Nel ricostruire ascesa, apogeo e inevitabile declino del canale, Sua Eminenza Sergio Tavčar – per decenni alla direzione della sezione sportiva ed esperto più o meno di qualunque disciplina – ha optato per ridurre il proprio ruolo del tempo a quello – parole sue – di un primus inter pares: è una (sincera) dichiarazione di modestia che non impedisce al cronista triestino, ora autore per Bottega Errante de I pionieri. Le incredibili storie di una televisione di confine, di figurare quale promotore di un’esperienza dagli esiti straordinari, il miracolo di un’emittente di frontiera capace – per la sua maniera di raccontare lo sport prima e meglio degli altri – di trasformare una periferia in capitale europea. Grazie a personaggi sì visionari, ma animati per lo più da un congenito senso di concretezza, TV Koper-Capodistria è stata in grado di affiancarsi alle grandi televisioni nazionali – talvolta persino sostituendole –, per poi cedere al corteggiamento di Fininvest e ritrovarsi sola sul più bello, ma appena in tempo per resistere a lungo – e non senza dignità – all’invincibile ondata delle pay-tv via piattaforma.

Il fiuto imprenditoriale a monte del progetto è tutto racchiuso in un’unica trovata, vincente alla lunga e nell’immediato: l’idea di rivolgersi al pubblico italiano in terra slava, o appena “al di qua” rispetto al confine, ha garantito alle trasmissioni un primo, ma già significativo, bacino di utenza. Poi, naturalmente, c’è stato il contributo di giornalisti che mai si sono persi d’animo dinnanzi a un imprevisto, o di fronte alla necessità di imparare nuove regole o una nuova lingua. E prima delle comparsate dei nomi altisonanti, uomini illustri poi reclutati da Rai e Mediaset o addirittura – nel caso dei più precoci – finiti a lavorare per Sky e DAZN, Capodistria è servita alla formazione di professionisti come lo stesso Tavčar o i suoi sodali Sandro Vidrih e Bruno Petrali, che per conto dell’imprevedibile Slavko Prijon hanno commentato gare di ogni sorta. Di quest’ultimo, figura controversa e romanzesca, si ricorda come nonostante la sua menomazione – una mano direttamente attaccata al tronco, per via di un’operazione mal riuscita – avesse imparato a reggere il volante con i polpastrelli della sinistra, mentre si serviva della destra per redigere articoli preparati a tempo di record durante il tragitto, spesso di ritorno da una trasferta. Un simile amalgama di incoscienza ha costituito, fin dagli inizi, un elemento caratteristico dei professionisti impiegati all’interno della redazione, abili a spaziare da campionati sloveni di sport minori (e non di rado invernali) alle più grandi kermesse planetarie: poteva cambiare, al massimo, il fatto che si assistesse a un evento dallo studio o vi si stesse presenziando di persona, o che il budget determinasse, di volta in volta, pernottamenti in suite di lusso o dormite da mal di schiena su divani di fortuna.

Si ha dunque per le mani un libro che non consiste – caso isolato – nel tipico florilegio di aneddoti su vincitori inattesi, sconfitte gloriose o retroscena svelati, ma è piuttosto una raccolta di feticci per appassionati di media in senso tecnico: si discute di montaggio e inquadrature, di segnali da captare e annotazioni a penna dell’ultimo minuto. Anche per Tavčar è un obbligo morale passare attraverso il calcio volante di Boban al poliziotto serbo e la bandiera croata maltrattata da Vlade Divac ai Mondiali di basket in Argentina, ma il suo punto di vista si distingue per ciò che interessa aspetti pratici ed emergenze quotidiane della rete istriana, protagonista sostanziale dell’opera nel contesto di un passato suggestivo solo in parte e non necessariamente migliore del presente. Sul piano ideologico – e così su quello tecnologico – ci troviamo qui agli antipodi degli Stati Uniti, paese-guida dell’ultimo secolo sia in ambito televisivo che dal punto di vista delle prestazioni agonistiche, ai cui sport Capodistria riservò comunque moltissimo dei propri palinsesti. Sebbene Tavčar si sforzi di non cedere alla tentazione di infangarne il prestigio, dato che agli americani e al loro medagliere cerca di tributare i dovuti onori, gli atleti in questione ne escono spesso dipinti, almeno dal tono cui si fa ricorso, come detentori di primati senz’anima. Alla menzione di Jordan non si può sfuggire, ma quella di Alonzo Mourning è un piacevole imprevisto (Bird, tra tutti, è invece il favorito); è inevitabile, d’altra parte, che sul Dream Team si faccia prevalere la bellezza – quando non il valore, attenendosi alle regole FIBA – di compagini come la Jugoslavia o l’URSS: fanno scuola in tal senso Dino Rađa e Toni Kukoč.

Le poche invettive che l’autore si concede – senza contare la tirata contro colleghi sempre meno devoti allo studio e al sacrificio – hanno come bersaglio l’americanissimo wrestling di Hulk Hogan (che proprio negli ultimi mesi si è, ancora una volta, esposto pubblicamente a favore della candidatura di Trump), attaccato però sul piano dello spettacolo e non del merito effettivo. Tavčar funge così da coerente portavoce di un universo che ruota attorno ai poli di una Lubiana decisamente internazionale e di una Trieste sempre più lontana da Svevo e Saba. E se dei luoghi si è detto, ha un qualche peso la stessa cronologia di riferimento (1971-2019), il cui punto più luminoso (1986-1990, con Seoul come intermezzo) è però il risultato di decenni di boicottaggi olimpici e di alternative di ogni natura – e in ogni ambito possibile – al capitalismo dell’Occidente più pasciuto: basti il fatto che, per mantenersi, il giornalista si improvvisi per un paio d’anni supplente di materie scientifiche nelle scuole superiori, forte dei suoi studi di ingegneria e di qualche buona parola.

Ma è l’universo dei cronisti, come detto, a rappresentare il fulcro della vicenda narrata. Parole di elogio vengono spese per la preparazione di Massimo Marianella, autore di schede sul calcio inglese che avrebbero facilitato la vita di chiunque, o per personaggi come Gianni Cerqueti, abilissimo a spazzare via i dubbi di chi temeva in lui la supponenza di “quello che viene da Roma” attraverso l’umiltà e la perizia che dimostrò nei fatti. Lo stesso vale per simboli del professionismo prestati al commento tecnico quali Ilario Castagner (suo il Perugia imbattuto in Serie A) e Giacomo Crosa (il pre-Tamberi del salto in alto maschile), mentre il sodalizio tra Capodistria e Fininvest condurrà a collaborazioni con calibri quali Rino Tommasi, Flavio Tranquillo e soprattutto Dan Peterson, di cui Tavčar non può non cogliere un certo risentimento a partire dal momento in cui la coppia si separò per esigenze di forza maggiore. Si loda inoltre l’operato di Franco Ligas, storico volto (e storica voce) di mille competizioni, e di Guido Meda, pronto fin dagli esordi a un futuro radioso.

E nonostante tutti gli sforzi compiuti per tenersi in disparte, lo stesso Tavčar viene fuori alla distanza: emerge una passione riconducibile allo sport tout court, con hockey e nuoto in prima linea almeno quanto calcio e basket. Mai del tutto in Jugoslavia e mai soltanto in Friuli, l’autore racconta tutto quel che può quasi in apnea, facendo ricorso a un’infinità di parentetiche – al cui interno snocciola, con la consueta franchezza, un bagaglio di ricordi ineguagliabile – e a un linguaggio che risente di ogni variazione possibile, impiegando dialetto, forestierismi e motti latini. È questa la passione che ha animato Telecapodistria per tutta una carriera, dalle dirette delle gesta di Monaco ’72 fino alle partite pomeridiane di un’anomala Serie A slovena con ventuno squadre e il turno di riposo. È il contagioso entusiasmo che ha permesso a un centro marginale di diventare, per mezzo secolo, il centro del mondo.


S. Tavčar, I pionieri. Le incredibili storie di una televisione di confine, Bottega Errante Edizioni, Udine 2024, 192 pp. 18,00€