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L’Africa pensata e I buoni risentimenti. Intervista a Elgas

A CaLibro Africa 2024 ho intervistato Elgasnom de plume di El Hadj Souleymane Gassama, sociologo e saggista senegalese che vive in Francia. I buoni risentimenti. Saggio sul disagio postcoloniale (2023; trad. it. Lorenzo Alunni, Edizioni e/o, 2024), è il suo primo libro pubblicato in Italia e sarà seguito da un romanzo, Maschio nero, sempre per le Edizioni e/o. Un estratto dal suo diario di viaggio, Un Dieu et des moeurs (2015), è stato tradotto per il secondo numero dell’antologia Africana (Feltrinelli, 2024), curata da Chiara Piaggio e Igiaba Sciego.

I buoni risentimenti, pubblicato in Francia per Riveneuve, è un saggio molto denso e complesso, che affronta i nodi fondamentali del rapporto tra gli intellettuali africani, l’Africa e la diplomazia culturale degli ex-colonizzatori europei. Concentrandosi prevalentemente sul mondo francofono, Elgas identifica nell’accusa di “tradimento” identitario la grande piaga che affligge la ricezione degli intellettuali africani che pubblicano e vivono in Occidente; traccia, inoltre, una distinzione storica e epistemologica tra i concetti di postcoloniale e decoloniale, entrati nel dominio pubblico nel mondo accademico e dalle conseguenze reali tangibili, nel dibattito contemporaneo. Dopo aver analizzato il susseguirsi di narrazioni “afro-pessimiste” ed “afro-ottimiste” proposte dai media negli ultimi sessant’anni, l’autore esplora la difficile realtà degli intellettuali che decidono di restare in Africa, costretti a misurarsi con il soft power degli istituti culturali francesi e con chi invece li accusa di compromissione, millantando una “purezza” identitaria impossibile dell’africa pre-coloniale, mistificazione che impedisce lo sviluppo di un dibattito veramente plurale e basato sui fatti, contribuendo ad alimentare un’immagine di subalternità del Continente, troppo spesso “pensato da fuori” e visto come senza speranza o senza possibilità di cambiamento.

Con il saggio pieno di appunti e post-it sottobraccio mi avvio verso l’Hotel Tiferno, ormai familiare ritrovo per le mie interviste a Città di Castello. Attendo l’autore, trentaseienne dall’aria sportiva e giovanile. Ci stringiamo le mani, ci presentiamo. Quando sente il nome della rivista, che gli traduco come La baleine blanche, si illumina e mi confessa il suo amore per Moby Dick e Melville, il suo libro e scrittore preferiti. Comincia con il piede giusto una lunga chiacchierata piena di Storia, nomi di pensatori a me nuovi o noti, grande acume e un pizzico di umorismo.

Nel saggio lei individua molti casi in cui autori e autrici africane sono state vittime della “Sindrome di Senghor”, secondo la quale al riconoscimento in Francia non può che accompagnarsi un’inevitabile de-africanizzazione, un’alienazione che fa cessare immediatamente la validità e la legittimità del riconoscimento artistico da parte dei “veri africani”. Il caso più recente della lista è quello di Mohamed Mbougar Sarr. Quando l’ho intervistato l’anno scorso mi ha parlato delle polemiche che la vittoria al Premio Goncourt 2021 per La più recondita memoria degli uomini (Edizioni e/o, 2022) – la seconda di un autore nero dopo 100 anni – ha scatenato in Senegal, montate in maniera pretestuosa anche sulla scia del libro precedente, Puri uomini (Edizioni e/o, 2024), che faceva i conti con l’omofobia diffusa nella società senegalese. Sarr è stato accusato di «creare deliberatamente polemiche in Senegal per attirare attenzione sui [suoi] libri» e di essere un traditore. Come se la vittoria al più importante premio per libri scritti in francese implichi il dover «sacrificare qualcosa della [sua] cultura, del [suo] essere senegalese». Come mai, da un secolo a questa parte, sembra non esserci stata evoluzione in questo dibattito?

Il dibattito non è nuovo; anzi, è molto, molto vecchio. Si può riassumere affermando che tutti gli autori che scrivono in francese, che sono pubblicati in Francia o, allargando il campo, in Occidente e che ricevono una forma di riconoscimento dalle autorità francesi e occidentali, sono sempre stati sospettati di essere pagati, di essere alienati, di essere, sostanzialmente, traditori della propria comunità. L’esempio di Mohamed Mbougar Sarr colpisce particolarmente, perché [nel dibattito senegalese, ndr] non si è parlato affatto del contenuto del suo ultimo romanzo. E, anche quando si è fatto, sono stati presi un paio di estratti decontestualizzati ed è stato detto, per esempio, che l’autore fosse razzista perché uno dei personaggi faceva commenti razzisti. Sarr è stato ritenuto responsabile per quei commenti razzisti ed è stato tacciato di essere contro il suo popolo, e così via. In più, per sua sfortuna, aveva scritto – come lei ha ricordato – un romanzo sulla questione dell’omosessualità in Senegal, Puri uomini (2018) [1]. Quando ha vinto il Goncourt ha ricevuto una grande esposizione mediatica, anche in Senegal. La gente è andata a vedere quello che aveva scritto prima e ovviamente si è deciso «be’, questa è la prova che l’autore è un agente LGBT dell’Occidente inviato per depravare i costumi locali, per de-africanizzare la nostra società».

Questo dibattito non si è evoluto, ed ecco perché ho voluto dare una prospettiva storica nel mio libro e iniziare parlando di Léopold Sédar Senghor. Senghor è una figura importante sia per ciò che ha fatto sia perché è stata la prima vittima di queste accuse. Funziona così: non si guarda a quello che un autore scrive, al suo pensiero ma solo da dove scrive e se ciò che scrive è in linea con ciò che si deve pensare nella comunità o meno. In seguito, ho parlato dell’esempio importante di Yambo Ouologuem. Siamo 8 anni dopo l’indipendenza, nel 1968. Il movimento che domina in quel momento si riempie la bocca di parole come “ritorno in Africa”, “valori africani”, “identità africana”. Ouologuem scrive un romanzo, Dovere di violenza (1968) [2], in cui dimostra che alcuni africani erano stati barbari come tutti gli altri, che anche gli africani hanno partecipato alla colonizzazione, che non dobbiamo avere uno sguardo idealistico sul passato africano. E la cosa divertente è che quando scrisse questo, nel ‘68, tutti gli autori africani dell’epoca gli saltarono addosso, insieme ai critici… perfino Senghor.

Il critico Amadouan Pateba e tutti gli autori della negritudine si scagliarono contro Ouologuem, quasi come se avesse bestemmiato contro gli dèi. Questo oltraggio porterà con sé una punizione terribile perché Ouologuem andrà incontro a un destino tragico: accusato di plagio, viene ostracizzato e decide di ritirarsi nel suo paese natale [fino alla morte, avvenuta nel 2016, ndr].

Adesso ho evocato solo alcuni nomi ma si potrebbe parlare anche di Gaston Kalman, di Axel Kaboul e molti, molti altri. Il meccanismo è sempre lo stesso: una volta che scriviamo cose che non sono considerate positive nel Continente, dicendo che anche gli africani sono stati responsabili di quello che è successo in Africa, veniamo trattati come dei traditori.

Nulla è cambiato, nulla si è evoluto in questo senso. Non si sta evolvendo perché tutt’oggi stiamo vivendo le conseguenze di una forte febbre decoloniale, a livello politico. Lo vediamo nel campo dei media, nel campo artistico, ovunque. La realtà che continua a riproporsi è quella secondo la quale gli autori o gli artisti africani non vengono giudicati per cosa scrivono o per la qualità della loro scrittura, ma per il loro opporsi o meno alla “fedeltà” all’Occidente. Questo è davvero un grosso problema.

Nel discorso sugli intellettuali – soprattutto letterati – africani, vige da sempre una dicotomia tra autori “del fuori”, gli “alienati”, «residenti in Europa e considerati sconnessi dalla realtà» e scrittori “del dentro”, che vivono in Africa e che quindi sono considerati «incarnazione di autenticità e perennità dei valori e delle tradizioni» (mi avvalgo qui dell’agile sintesi formulata da Alain Mabanckou nella sua lezione Letteratura nazionale e demagogia politica tenuta al Collège de France il 19 aprile 2016) [3]. Questa categorizzazione, che sembra inscalfibile, nuoce a entrambi gli schieramenti, incasellati su posizioni aprioristiche e monolitiche, ma soprattutto mi sembra nuoccia alla narrazione dell’Africa, vista come “fuori dalla Storia” per la supposta purezza e immutabilità della sua identità pre-coloniale, a cui è diventato quasi necessario appellarsi. L’Africa viene sempre raccontata dai media occidentali come “spacciata” o “culla del futuro”, secondo due visioni intercambiabili che vengono riassunte dalle etichette di “afro-pessimismo” e “afro-ottimismo”. Cosa ci dicono della narrazione sull’Africa queste categorie? Come si possono superare?

Anche questa è una questione molto, molto vecchia. I concetti di afro-pessimismo e afro-ottimismo hanno origine diciamo dagli anni Sessanta, dalle conseguenze delle indipendenze africane. Molti autori cominciarono a scrivere in un clima di disincanto post-indipendenza: abbiamo il romanzo di Ahmadou Kourouma I soli delle indipendenze (1968) [4] e Dovere di violenza di Yambo Ouologuem, entrambi del 1968. Sempre negli anni Sessanta, un agronomo francese di nome René Dumont scrisse L’Afrique noire est mal partie (1962) [5]. In quel periodo si cominciava a capire che molte scelte post-coloniali rilevanti stavano condannando – o avrebbero potuto orientare – il continente verso una direzione sbagliata. Da quel momento si fece strada un filone che è stato denominato afro-pessimismo, dalla bibliografia molto nutrita. Uscì, per esempio, il saggio dello scrittore americano naturalizzato francese Steven Smith, Négrologie [6], che contiene delle asserzioni veramente pesanti sul Continente. Ma il vero impatto lo ebbero i media, che mostravano solo immagini di guerre e carestie. E poi arrivarono gli anni Ottanta e Novanta, un periodo di guerre civili e fallimenti di interi Stati, crisi economiche per cui la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale imposero “cambiamenti strutturali”, guerre etniche, guerre geopolitiche. A quel punto, ecco la cosa divertente – e ormai siamo ben dentro gli anni Duemila e verso i Duemiladieci: l’Economist esce con qualcosa di sorprendente: una prima pagina sull’Africa. Il titolo è: The Hopeless Continent [7], con la foto di un bambino-soldato che imbraccia un fucile. Quello è stato un segnale: in quel momento ci si è detti che bisognava provare a cambiare lo sguardo sull’Africa ma all’epoca ai media non importava. Dagli anni Duemila, con l’emergere della tecnologia digitale, il discorso iniziò a evolversi un po’ ed è qui che si rintraccia il passaggio dall’afro-pessimismo all’afro-ottimismo, al tempo inestricabilmente legato ai media digitali. Nel 2011, lo stesso giornale uscì con un nuovo articolo: Africa Rising [8]. Questo è stato il momento-simbolo di un cambiamento.

Ci fu un cambio di paradigma graduale e molti media occidentali iniziarono ad avere sezioni sull’Africa sempre più consistenti, mentre prima le sezioni sull’Africa non esistevano affatto. Quando si trovava l’Africa su un giornale, era solo per cronache terribili e così via. Vennero aperte sezioni dedicate al continente sui giornali francesi: Le Monde Afrique, La Tribune Afrique… E in Africa nacquero dei nuovi quotidiani. Rimane però questo problema: l’afro-pessimismo, come l’afro-ottimismo, non si basa sui fatti: è piuttosto un modo di raccontare la realtà connotandola negativamente o positivamente che prescinde dai fatti, quando il lavoro dei giornalisti dovrebbe essere quello di dire le cose come stanno.

Qui entra in gioco un termine neoliberista che viene utilizzato molto spesso: narrazione. Si sente dire «dobbiamo cambiare la narrazione», in inglese narrative – ma non si può. Si può cambiare quanto si vuole il discorso attorno alla malattia di cui soffre un paziente ma ciò non lo farà guarire, anzi. Il momento storico che stiamo vivendo è caratterizzato da queste cose, siamo immersi in questo scontro di narrazioni, a cui si aggiunge la contestazione da parte anche degli stessi media dell’élite occidentale ancora considerata colonizzatrice. Il discorso è più o meno questo: l’Africa dovrebbe avere i propri media ed avere una propria voce per parlare di sé autonomamente. Sembra un dibattito recente ma l’idea è molto antica. L’Africa è sempre stata raccontata dall’esterno, attraverso l’antropologia e l’etnologia, discipline coloniali, nate per essere sperimentate dagli occidentali sui non-occidentali. Da questo sguardo sono nate le teorie razziste, etniche, le segregazioni… Tutto ciò è successo perché la narrazione era esogena, proveniente dall’esterno. Ciò significa che sarebbe auspicabile avere solo una narrazione interna? Che questa sarebbe una garanzia di autenticità o di qualità? No, perché quando la narrazione è così reattiva, non si basa solo sui fatti, vuole correggere gli errori dell’altro. E così rimaniamo in una forma di rovina circolare, come direbbe Borges, e non finiamo mai. Quindi la cosa più importante è avere media seri e onesti che guardino al continente con le sue grandi potenzialità e senza ignorare, in modo empatico, le sue grandi ferite. Quello che mancava fino a poco tempo fa era una dimensione di empatia, perché c’era una forma diffusa di cinismo, quasi di disprezzo che non ha ancora del tutto abbandonato la sfera mediatica e intellettuale.

La Francia, tra tutte le ex-potenze coloniali, è quella che ha mantenuto più saldamente la sua presenza e influenza sul continente africano. La dialettica che si è instaurata è chiaramente caratterizzata da ipocrisia, risentimento e ambiguità reciproca. Tutto ciò però porta con sé anche opportunità uniche che, al netto della bontà delle intenzioni, mettono l’Africa francofona in una posizione obliqua rispetto al resto del continente. Come è vissuta questa condizione da chi vive in questi Paesi?

È una situazione molto delicata. In effetti, è questa situazione di ambiguità che spiega il titolo del mio libro: I buoni risentimenti. Facciamo l’esempio di un paese africano francofono come il Senegal. In Senegal il mondo artistico è completamente trascurato, vale a dire che le autorità pubbliche non investono nella cultura. Quando sei un giovane che vorrebbe dedicarsi alla lettura in un villaggio ti tocca andare in città, e in città spesso gli unici posti dove si può andare a leggere sono i luoghi che fanno parte della rappresentanza diplomatica francese: le Alliance Française o gli Institut Français. Questi sono i luoghi privilegiati per gli artisti che vogliono far conoscere i propri lavori e magari riuscire a viaggiare all’estero. Gli autori che vengono pubblicati e che vogliono organizzare incontri nel proprio paese d’origine o non lo fanno o lo fanno all’Institut Français, anche se molti desidererebbero un Paese che gli desse la possibilità di esprimersi in spazi propri. Questa opportunità non arriva, non solo perché mancano le risorse, ma anche perché manca la volontà politica. E, in questo vuoto artistico, chi crea tende a indirizzarsi verso ciò che già funziona e verso coloro che possono aiutare concretamente, anche se non vorrebbero. Così si creano relazioni di dipendenza. Vale a dire, quando guardi a molti autori africani, molti artisti, sono orgogliosi del continente, sono panafricanisti, sono anticolonialisti, e così via. Ma tutti sanno che non c’è una realtà autoctona che possa aiutarli a trasmettere questi discorsi e quindi spesso si trovano costretti a trattare con istituzioni e persone che non gli piacciono. Una formula da me molto spesso utilizzata è che il mentore sia allo stesso tempo il carnefice. Ecco perché crea risentimento; perché, finché c’è questa forma di dipendenza, c’è una forma di verticalità. C’è una proverbiale situazione, tipicamente africana, di una mano che dà e una che riceve: la gente la percepisce come una forma di necessità, anche se non la ritiene desiderabile.

Il problema della diplomazia culturale francese oggi è questo: è così che si crea un sentimento di sostegno tra le popolazioni? Tutto questo è reso più complesso dal passato coloniale. La lingua porta con sé il passato coloniale, gli strumenti portano la diplomazia, la diplomazia agisce come un soft power e un’ennesima forma di dominio. C’è una grossa questione culturale e anche economica per il Continente, non solo nelle regioni o nei singoli Stati. Come possiamo liberare risorse per essere indipendenti, per essere in grado di avere il nostro discorso, le nostre iniziative, e non dipendere più da nessuno? La realtà è che oggi gli Stati africani non possono fare a meno dei mercati internazionali, non possono fare a meno degli aiuti, non possono fare a meno di molte istituzioni estere culturali e diplomatiche, siano esse francesi, cinesi, israeliane… Il gioco è fatto e la gente ci convive.

Lei ha detto una cosa che mi è piaciuta molto nella sua domanda; ha detto che questa relazione è “obliqua” – ed è proprio così! Questa relazione è obliqua e asimmetrica e in questo modo si sono create le condizioni del malessere e del risentimento. Quello che dico nel mio libro – ed è un concetto relativamente semplice – è tutto qui. Se vivessi ancora in Senegal, il mio discorso potrebbe essere un po’ diverso, ma io vivo in Francia da diciotto anni e accetto pienamente di avere una parte francese perché non credo che le diverse identità siano sempre in conflitto. Posso guardare al passato coloniale francese in modo oggettivo, con lucidità e criticarlo, ma con la stessa lucidità critico anche i difetti del Senegal: penso che non dovremmo cadere in una forma di purezza identitaria. Le nostre identità sono sempre in costruzione. So che la mia è una scelta minoritaria, ma penso che accettare questa “impurità” sia un modo per superare i risentimenti. Andare verso qualcos’altro, accettare la complessità della realtà facendo lo sforzo di non chiudersi in una forma di odio viscerale, quando proprio questo odio è talvolta contraddetto dai rapporti di scambio tra chi amiamo e chi odiamo.

Nel suo saggio porta l’attenzione sulla seconda colonizzazione dell’Africa, oltre a quella europea (al cui ritiro progressivo stanno subentrando Cina e Russia): quella araba. «Con il pretesto dell’Islam, [questa colonizzazione] ha avuto un impatto maggiore sulla coscienza delle persone, […] ha convinto le masse. […] Ha formulato l’idea di una comunione necessaria tra due vittime dell’ordine coloniale occidentale» (p. 143). Qual è l’effetto che questa colonizzazione ha sortito sulle culture locali e le religioni preislamiche e quali sono i suoi effetti politici e sociali attuali?

Ogni colonizzazione crea condizioni di sovversione, condizioni di schiacciamento, condizioni di alienazione. Molto spesso la colonizzazione che è sulla bocca di tutti, perché è stata lunga e burocratica, ha avuto anche un periodo post-coloniale: è la colonizzazione occidentale. Altri tipi di colonizzazione, come quella islamica, sono stati meno studiati e ora iniziano ad esserlo sempre di più. Sono usciti molti libri sulla tratta araba degli schiavi; una tratta molto lucrativa anche se la schiavitù nel mondo musulmano è un argomento tabù. l’Islam si è diffuso così nel Continente quasi, a volte, come un imperativo. Non dimentichiamo che ogni colonizzazione è anche il risultato di una forma di violenza, di violenza simbolica e di violenza fisica: di castrazione dei corpi, di negazione dell’umanità, di involuzione e di razzismo. Ma questa colonizzazione è stata in grado, come lei ha detto, di fare proprio il desiderio di molti africani di opporsi alla colonizzazione occidentale. Ed è per questo che a volte gli africani non percepiscono nemmeno l’Islam come un agente coloniale. Ritengono che quella sia la loro vera identità, almeno quando si parla di un paese come il Senegal. Questa colonizzazione non si è diffusa attraverso un’istituzione statale e perciò non ha solamente influenzato le élite, ma ha colpito anche la base, le masse, la popolazione nella sua grande ampiezza. La colonizzazione francese si proponeva di creare ovunque piccoli francesi, tendeva all’assimilazione. La colonizzazione islamica passa attraverso il canale religioso, attraverso la trascendenza di Dio, e la trascendenza di Dio non può essere contestata.

Appare evidente come le meccaniche di queste due colonizzazioni non siano del tutto comparabili, ma quando guardiamo a quella che ha toccato di più le persone, quella che ha influenzato di più le loro convinzioni, più precisamente il sentimento di appartenenza a una comunità, questa è la colonizzazione islamica. Il risultato di una colonizzazione riuscita è suscitare un senso diffuso di appartenenza e adesione al posto di rifiuto, anche se questa potenza ha distrutto le credenze e i sistemi precedenti.

E oggi? La diversa visione di queste due colonizzazioni continua: perché, alla fine, si parla solo delle persone francofone e mai di chi parla l’arabo ed è stato cresciuto nell’eredità coranica? La grande differenza è che se venissi educato nelle scuole francesi potresti essere accusato di essere un traditore, mentre i genitori sono orgogliosi che i bambini parlino l’arabo e possano conoscere il Corano, possano recitarlo. In un paese come il Senegal, religioso al 95%, è questo che conta.

Oltre a quello che dico nel mio libro, in un articolo ho parlato di tre colonizzazioni: la colonizzazione occidentale, la colonizzazione araba e la colonizzazione della globalizzazione. Tutti i bambini dagli anni Duemila in poi hanno ricevuto via satellite le partite dell’NBA, i film di Hollywood, la cultura americana e la tecnologia digitale della Silicon Valley. Non possiamo passare un giorno senza le GAFAM (Acronimo di Google, Apple, Facebook/Meta, Amazon, Microsoft, ndr). Alla fine, è solo una questione di aderenza e adesione. L’Islam è stato un catalizzatore per la rabbia anticoloniale, per esempio in Algeria. Se ci si riunisce tutti sotto uno stendardo comune, una bandiera religiosa che possa garantire che Dio è dalla nostra parte contro i cattivi invasori occidentali, allora si crea adesione di massa. Questo discorso ha attecchito; non solo, è diventato una motivazione trainante con effetti molto complessi da misurare. Ogni Paese africano è comunque un caso a sé. Ciò che è vero per il Senegal non è tale per la Costa d’Avorio, per via della diversa composizione religiosa, ma la fede è comunque un forte collante sociale e spesso la religione musulmana è usata per contrastare i valori occidentali. Nella riconfigurazione multipolare del mondo attuale il blocco islamico è tornato a rivestire un ruolo fondamentale. Ci sono fasi come questa in cui l’Islam appare come il modello perfetto di contro-società rispetto all’Occidente e quindi si adatta ad un discorso anticoloniale e decoloniale.

La preponderanza che gli studi postcoloniali hanno assunto nei dipartimenti umanistici, soprattutto in ambito anglosassone, fa scaturire una riflessione sull’accademia francofona. Alain Mabanckou, nella prefazione alle sue Otto lezioni sull’Africa (Edizioni e/o, 2023), rileva ancora «una certa riluttanza» nei confronti degli studi africani, percepiti in Francia come «sospetti, reazionari, demagogici», quando invece veicolerebbero «il soffio dell’alterità, il rifiuto di una visione unilaterale, fissa e arbitraria del nostro comune passato» (p. 9); dall’altro lato c’è chi, come ha fatto Jean-Francois Bayartcon una certa dose di provocazione, ha definito gli studi postcoloniali «un carnevale accademico» [9]. La verità sta nel mezzo oppure si tratta di un problema di egemonia culturale, o di un desiderio di egemonia?

Si, stiamo sicuramente parlando di un desiderio di egemonia. Non c’è nessun problema, di per sé, con gli studi postcoloniali; il quadro universitario postcoloniale è nato negli anni Settanta. Restano letture capitali il saggio di Edward Said Orientalismo (1978) [10] e un altro di cui non si parla molto ma che a me sembra altrettanto importante: si tratta del libro di Valentin Yves Mudimbe, The Invention of Africa (1988) [11]. Questi due testi, come tanti altri dell’epoca, mostrano proprio attraverso la letteratura coloniale tutto ciò che bisognava e bisogna tuttora cercare di cambiare.

Il termine post-coloniale, con il trattino, significa solo tutto ciò che è accaduto dopo la colonizzazione, mentre l’aggettivo postcoloniale riguarda il filone di studi che indaga le conseguenze della colonizzazione. Il problema è sorto quando è nato quello che è stato definito pensiero decoloniale: un termine coniato in Sudamerica e poi importato nel dibattito accademico. Il desiderio del pensiero decoloniale, a volte, è quello di un attacco all’epistemologia. Per riassumere, c’è una formula che non è male e ci permette di visualizzare meglio il quadro: il postcolonialismo ha detto che l’Illuminismo francese è stato tradito, tutto qui. La missione illuminista è stata dirottata dall’essere un pensiero per il popolo ad essere uno strumento per dominare i popoli, pur ammettendo che il retroterra dell’Illuminismo sia una forma buona di umanesimo.

Il pensiero decoloniale, invece, dice no: dobbiamo buttare via il bambino con l’acqua sporca, non si può salvare nulla. Spesso c’è una forte tentazione, comprensibile, di vendetta. C’è una forma di tentazione proprio a prendere di mira gli eredi di quel sistema di pensiero che ha portato alla colonizzazione [per ritornare a un millantato “pensiero precoloniale”, non influenzato dall’Occidente, ndr]. Si vedono i bianchi come necessariamente eredi di una forma di dominio eterno; allora dovrebbero sparire dal dibattito o esserne allontanati. Io critico questo atteggiamento, non lo trovo molto utile. Il pensiero decoloniale pretende di agire, soprattutto, come se non ci fosse già stata un’energia decoloniale manifestatasi a partire dagli anni Cinquanta. Ed è a causa di questa dimenticanza che Jean François Bayart, che cito nel mio libro, dice sostanzialmente: «Tutto quello che sostenete, noi l’abbiamo già detto; perché non citate le fonti»? Confrontarsi e riconoscere il merito di autori del passato, anche occidentali, è molto importante perché si rischia di perdersi il contributo di autori come Georges Balandier. Balandier era un antropologo francese che già nel 1950 aveva scritto un testo intitolato La situazione coloniale (1951) [12], per dimostrare che l’etnologia era in qualche modo destinata alla menzogna perché creata e sviluppatasi in una situazione coloniale. Fanno parte di questa energia decoloniale anche tutti i pensatori della decostruzione francese e tutti coloro che si sono battuti per la libertà e per istituzioni diverse; Aimè Césaire non ha mai detto di essere decoloniale, eppure affrontava temi decoloniali. La gente critica molto l’Occidente e il pensiero occidentale come se ci fosse un solo “pensiero occidentale”. Ma questa è una visione ridicola perché è pieno di occidentali che si sono rivoltati contro molto di quello che viene chiamato pensiero occidentale, anche in maniera molto radicale.

Ieri, parlando con un amico italiano, ribadivo che nel mio pantheon tengo sempre Pasolini e Gramsci e tanti altri. Nella storia del Novecento è pieno di pensatori radicali che hanno anche ispirato gli intellettuali che venivano dalle colonie. Ma, giustamente, sembra sia meglio non parlarne per non guastare la narrazione corrente. È un problema, perché quella che sto descrivendo è una vera e propria segmentazione del mercato delle idee in cui si tende a prendere ciò che conviene e tralasciare volutamente ciò che disturba.

Ecco perché distinguo le due cose: l’energia decoloniale dall’etichetta decoloniale. Sono più a favore dell’energia decoloniale, che riunisce un insieme di pensieri e filosofie che provengono da tutto il mondo con al centro la dignità umana, con il fine di correggere tutti i pregiudizi della storia e tutte le ferite cercando di dire la verità su di essa. La tentazione che c’è nel pensiero decoloniale e nella sua volontà egemonica è quella di un regolamento di conti e di una vendetta degli oppressi. Lì il problema sta in una sostanziale amnesia e in una segmentazione del mercato in base alla provenienza di un autore o di un pensiero – un proposito discutibile.

Oggi in Francia tutti i dibattiti iniziano con una polemica: questa è la tragedia. Le persone non si ascoltano a vicenda. Ma anche negli Stati Uniti, la patria del post-, ci sono anche pensatori indiani che hanno lavorato molto sulla questione, Spivak e Chakrabarty e altri. Il dibattito esiste e deve essere alimentato, ma un dibattito sano non deve riguardare l’identità personale di chi parla, stabilendo chi ha il diritto di esprimere la propria opinione e chi no.

Ora, qualcosa che riguarda specificatamente gli autori africani. Qual è questo ordine dei “buoni risentimenti”? Tutti gli autori africani che hanno avuto la loro notorietà in Francia, che hanno avuto fama in Francia, che hanno amato la letteratura francese, non hanno sempre trovato un posto nella società o nell’accademia francese. Molti di loro non sono stati riconosciuti o lo sono stati negli Stati Uniti in seguito. C’è un’intera generazione di intellettuali che non ha capito che la Francia, in certi casi, tende davvero la mano e permette una certa forma di comunione: c’è anche questo nel loro malessere. La Francia sta facendo fatica ad affrontare la trasformazione del suo sistema universitario per dare spazio alle minoranze e così queste minoranze, a volte, trovano la loro felicità altrove: in Canada o negli Stati Uniti. E poi un’altra critica che possiamo muovere a questo campo è che i ragionamenti decoloniali a volte sono puramente teorici, si aggirano per gli uffici, tra gli intellettuali, e non vengono da un’indagine sul campo basata su dei fatti.

Quando ci si batte per una causa percepita come giusta è quasi inevitabile la tendenza a una semplificazione della realtà a favore della propria tesi. Lei parla degli “accomodamenti” che l’urgenza dell’attivismo decoloniale porta con sé. «Si può mentire un po’ quando si ha moralmente ragione. Imbrogliare un po’ quando si è sicuri della propria ascendenza morale» (p. 23). Questa necessità di purezza morale a tutti costi è deleteria nell’impostare un dibattito aperto che possa costruire un futuro diverso per l’Africa, soprattutto quando viene associata al primato dell’identità e dell’appartenenza, «la sovranità del “noi totalitario”» (p. 53) rispetto agli effettivi contenuti?

Ecco, questa è la grande domanda, che contiene già parzialmente la sua risposta. Ovviamente la qualità del dibattito viene danneggiata. Di più: questo dibattito non può nemmeno esistere. Uno non può neanche criticare degli amici in modo civile che subito, appena presa la parola per dire qualcosa su un altro africano, viene trattato come un pazzo, come un alienato e così via. C’è questo culto dell’identità e questa forma di coscienza di un’identità fossile, passatista, che andrebbe cercata non si sa dove e non si sa in quale tempo; tutto ciò alimenta un’illusione di purezza e fa credere a molti che possa esistere qualche cosa come dei “valori africani”. Io scrivo da almeno diciotto anni, da quando scrivevo sul mio blog, e penso che ci sia davvero bisogno di avere uno spazio per delle sane controversie.

Non c’è paese che possa progredire senza una grande conversazione intellettuale. È giusto anche litigare, a volte, e perfino insultarsi, perché è comprensibile che una discussione possa prendere le forme di un litigio. È fondamentale preservare degli spazi di dialogo in cui si possa non essere d’accordo. Nella civiltà del dibattito che è ormai oggi il continente africano, si vedono ben poche discussioni tra i grandi intellettuali africani, che pure esistono. E quando succede, inevitabilmente, è nella forma della polemica, spesso su temi identitari: perché oggi guardiamo soprattutto a chi sei, più che di che cosa scrivi o come lo fai. Abbiamo creato l’illusione di una forma di comunità quando si tratta in realtà di una massa che non si aggrappa a nulla. Troppe volte ci dimentichiamo la questione di classe, spesso accantonata anche dai pensatori decoloniali, perché per loro la classe è meno importante della razza o dell’etnia, mentre si tratta di un aspetto fondamentale. La realtà è questa: l’assenza di spazio di scambio, di sane polemiche, di cortesia, di volontà di guardare le cose in faccia. Questo è anche un motivo per cui il continente soffre molto, perché non c’è alcun collegamento tra questi intellettuali e gli altri segmenti della popolazione. Inoltre nutrendo l’identità, alimentando il rifiuto, abbiamo creato una massa di persone che non hanno fiducia negli intellettuali, perché ritengono che gli intellettuali siano al soldo dell’Occidente. Gli sconvolgimenti politici di oggi possono essere spiegati da una doppia rottura, specialmente tra i giovani: una rottura intellettuale e una rottura generazionale. Ci sono molti giovani che non si sentono rappresentati dal linguaggio degli intellettuali e che lo osteggiano, cercando quindi una nuova forma di radicalismo. Per loro anche le soluzioni più drastiche sono più legittime, migliori di quello che propongono gli intellettuali. Stiamo vivendo questo momento storico in molti paesi africani, in linea con ciò che sta accadendo nel mondo con l’ascesa del populismo e l’ascesa di desideri neofascisti: tentazioni per le quali arriviamo a pensare che le élite siano necessariamente tutte corrotte e sia necessario un movimento per tornare a una forma pura di identità. Mi sembra che questo sia il clima, l’energia che sta attraversando tutto il mondo contemporaneo.

Al netto della “mistica dell’identità” (p. 90) da cui la scena intellettuale è sempre stata ossessionata, cosa significa, per lei, essere un autore africano oggi?

La mia definizione è molto semplice: un autore africano è qualcuno che ha un passaporto africano, tutto qui. Dopotutto esistono migliaia di identità che possono coesistere e ognuno ha il diritto di viverle anche contemporaneamente. Non ho una concezione chiusa dell’africanità. Penso che tutte le identità siano in qualche modo plurali. E così un autore africano è solo un autore che ha un passaporto africano. Anche se decidesse di scrivere per i Giapponesi, rimarrebbe africano. C’è il titolo di un libro che cito spesso di Dany Laferrière, che è un autore haitiano, o meglio, di origine haitiana, che ha vissuto in Canada e che ora vive in Francia, dove è membro dell’Académie Française: Je suis un ecrivain japonais [13].Ha detto di essere uno che rifiuta gli incarichi se gli si dice «sei un autore africano, devi scrivere di questo o quello». L’idea di poter “tradire” la propria comunità è importante anche perché si è responsabili solo davanti alla propria libertà, alla propria coscienza. Ecco qui, e chiuderei con questa frase che ho citato nel mio libro di un autore francese che amo molto, Régis Debray, che ha detto: «preferisco la coscienza all’appartenenza».

L’intervista si è svolta in francese presso l’Hotel Tiferno di Città di Castello, il 6 ottobre 2024.

Si ringrazia l’autore ed Ester Hueting di Edizioni e/o per la gentile disponibilità.


[1] Mohamed Mbougar Sarr, Puri uomini, trad. it. Alberto Bracci Testasecca, Edizioni e/o, 2024.

[2] Yambo Ouloguem, Dovere di violenza, trad. it. Lorenza Zanuso e Luigi Fogli, Il Saggiatore, 1970.

[3] Alain Mabanckou, Otto lezioni sull’Africa, trad. it. Lorenzo Alunni, Edizioni e/o, 2024, cit., p. 117.

[4] Ahmadou Kouroma, I soli delle indipendenze, trad. it. Monica Amari, Edizioni e/o, 2023.

[5] Réne Dumont, L’Afrique noire est mal partie, Seuil, 1962; 2012.

[6] Steven Smith, Négrologie. Pourquoi l’Afrique meurt, Calmann-Lévy, 2003

[7] The Economist, 13 maggio 2000.

[8] The Economist, 3 dicembre 2011.

[9] Les ètudes postcoloniales. Un carnival académique, Karthala, 2010.

[10] Edward SaidOrientalismo. L’immagine europea dell’oriente, trad. it. Stefano Galli, Bollati Boringhieri, 1991; Feltrinelli, 2002.

[11] Valentin Yves Mudimbe, The Invention of Africa, Indiana University Press, 1988.

[12] Georges Balandier, La situazione coloniale e altri saggi, trad. it. Alice Bellagamba e Rita Finco, Meltemi, 2022.

[13] Dany Laferrière, Je suis un écrivain japonais, Boréal, 2008.