In una delle scene più memorabili del Ladro di orchidee di Spike Jonze, lo sceneggiatore Charlie Kaufman (Nicolas Cage) decide di frequentare un seminario di Robert McKee, guru della scrittura creativa, per provare a risolvere un blocco dello scrittore. Nel film Kaufman è un apprezzato autore highbrow, imbevuto di nichilismo e paranoia. McKee, al contrario, è l’incarnazione dello scrittore-artigiano strongly opinionated, che dispensa consigli sulla scrittura con la sicumera di uno che sta rivelando i segreti del fai-da-te. Pieno di riverenza, ma anche di un malcelato senso di superiorità intellettuale, Kaufman alza la mano durante il Q&A del seminario per rivolgere una domanda a McKee:

Kaufman: Mi scusi… e… se uno scrittore tenta di creare una storia in cui succede poco, in cui le persone non cambiano, non hanno illuminazioni, lottano e sono frustrate e non risolvono niente, rispecchiando il mondo reale?

McKee: Il mondo reale?

Kaufman: Esatto.

McKee: Il fottuto mondo reale… Prima di tutto: se scrivi una sceneggiatura senza conflitti o crisi annoierai il tuo pubblico a morte. Secondo: non succede niente nel mondo? Ti sei bevuto il tuo fottuto cervello? C’è gente che viene uccisa ogni giorno. C’è genocidio, guerra, corruzione. Ogni fottuto giorno, da qualche parte nel mondo, qualcuno sacrifica la vita per salvare quella di un altro. Ogni fottuto giorno qualcuno, da qualche parte, decide scientemente di distruggere qualcun altro. C’è gente che trova l’amore. Gente che lo perde. Cristo santo, un bambino vede la madre pestata a morte sulle scale di una chiesa. Qualcuno muore di fame. Qualcun altro tradisce il suo miglior amico per una donna. Se non riesci a vedere queste cose nella vita allora, amico mio, tu non sai un cazzo di questa vita! […]

Questa scena mi è tornata in mente leggendo Estranei. Un anno in una scuola per stranieri (nottetempo), il bel libro d’esordio di Alessandro Gazzoli, che avevo già apprezzato come autore di una delle poche monografie su Giorgio Manganelli che non emanasse a ogni apertura di pagina zaffate di incenso devozionale. Anche nel libro di Gazzoli, scritto con prosa svelta e piglio brioso, le persone quasi sempre «non cambiano, non hanno illuminazioni, lottano e sono frustrate e non risolvono niente», ma ciò non accade, come forse ci si aspetterebbe, perché la materia del suo racconto sia esile, effimera e priva di potenzialità drammatiche come vorrebbe Kaufman. Tutt’altro: Estranei ci mette di fronte a persone dal vissuto duro, che spesso hanno fatto o patito cose simili a quelle descritte da McKee e che di realtà ne hanno vista fin troppa.

Come recita il sottotitolo del libro, Estranei racconta l’esperienza (anche sensoriale) di Gazzoli come insegnante di italiano in un centro di istruzione per adulti a Cles, in Val di Non. Recuperando un modo di organizzare il materiale narrativo che risale fino a Cuore di de Amicis e che passa attraverso i fortunati libri sulla scuola di Starnone, Gazzoli ripercorre le vicende di un anno scolastico seguendo il succedersi di mesi e quadrimestri. Prima ho scritto libro, e non romanzo o raccolta di racconti, perché l’autore sfrutta abilmente la flessibilità del “genere” registro di classe, realizzando un «diario intimo» capace di registrare le «reazioni da contatto» (p. 31) prodotte nell’autore dal nuovo contesto di insegnamento, un contenitore che alla bisogna può ospitare aneddoti, descrizioni, dialoghi, osservazioni socio-antropologiche o parentesi saggistiche. Il libro si presenta come una successione di paragrafi brevi, che seguono in modo latamente romanzesco le vicende della classe multietnica di Gazzoli, adottando di volta in volta un taglio diverso, fatto che rende la lettura mossa e scorrevole.

Consapevole di quanto la categoria dell’onestà possa risultare ingenua quando si discute di letteratura, Estranei è a mio avviso un libro onesto, una qualità che si apprezza già quando, declinando un aforisma da novello Flaiano secondo cui «La scuola non mi appartiene, ma io appartengo alla scuola» (p. 129), Gazzoli spiega in modo antieroico e antiretorico come sia finito a insegnare, cioè lungo la trafila liceo-laurea-in-lettere-dottorato-di-ricerca, innescata da una poco originale passione giovanile per la letteratura. Da buon lettore di Frassineti e Manganelli, Gazzoli è molto bravo a presentare in modo comico l’incidente burocratico che lo ha condotto dall’essere uno stimato insegnante di ruolo presso la scuola media al doversi confrontare con le sfide dell’educazione di adulti con background migratorio. Anche rispetto ai classici libri di Starnone, Gazzoli è più misurato nel dosaggio del comico, che raramente sfocia nell’iperbole e nel grottesco: lo si nota quando l’autore sottolinea le sfumature ridicole del burocratese scolastico, senza però esasperare l’uso di una risorsa fin troppo adatta alla pirotecnia satirica: impagabile, ad esempio, la parentesi sulla terrificante nomenclatura del Provveditorato agli Studi della provincia di Trento, il «Dipartimento della Conoscenza», che evoca subito scenari distopici orwellian-huxleyiani.

Estranei rende molto bene quel senso di spaesamento che coglie ogni insegnante quando si trova a dover mediare fra la cultura italiana preconfezionata dalla scuola – a cominciare dalla faticosa trasmissione della lingua – e persone con culture molto varie, che si iscrivono a scuola per motivi e con obiettivi molto diversi da quelli che uno si aspetterebbe, dettati da necessità pratiche più o meno nobili. Persone che compiono un disordinato processo di integrazione seguendo una traiettoria tutta loro, senza seguire le linee predisposte dalle aspettative progressiste del loro insegnante di italiano, che si presenta in aula immaginando i migranti come fossero figure retoriche:

È infatti un pregiudizio specificamente occidentale, e italiano in particolare, quello di credere che il sogno di ogni ragazzo maghrebino o pakistano o indiano (e di ogni ragazza maghrebina o pakistana o indiana) sia di “vivere all’occidentale”, e dare per scontato che costoro, una volta assaggiato il frutto proibito della conoscenza, non vorranno mai più abbandonare il paradiso terrestre che gli abbiamo apparecchiato. (p. 38)

Animato dal lodevole desiderio di essere utile a studenti dalle vite difficili, le categorie interpretative e le armi analitiche dell’insegnante Gazzoli si rivelano pressoché inutili di fronte a una studentessa siriana che inneggia a Hitler o a un’alunna pakistana convinta che il Premio Nobel per la Pace Malala Yousafzai sia in realtà un’agente sotto copertura votata alla distruzione della vita delle donne. Che la sostenitrice di questa tesi sia la stessa alunna che nel modulo di iscrizione ha dichiarato di aver deciso di iscriversi a scuola to fulfill my dreams non può che mandare in tilt gli stereotipi positivi dell’insegnante:

Mi sono presentato, come sempre accade alla vigilia di un cambiamento, pieno di propositi ambiziosi e intenti rivoluzionari, con la voglia di guarire la realtà e agire di riflesso anche su di me. Invece, se dovessi tracciare un bilancio dei primi cinque anni di servizio, mi accorgo che questa esperienza ha contribuito soprattutto a consolidare e perfezionare vecchi preconcetti inconsci, a radicare in me nuovi strumenti di prevenzione. (p. 30)

Ovviamente le cose non stanno solo così, e nel libro si raccontano anche episodi di piccoli avanzamenti didattici e soprattutto umani, che paiono imprese eroiche e pazzesche proprio per la difficoltà delle premesse di partenza che caratterizzano il “contesto classe”, come si dice oggi nel linguaggio dei verbali. Tuttavia, quella del crollo di tutte le proprie certezze è un’ammissione difficilissima, che richiede un’onestà radicale, visto anche che per tutto il libro il lettore segue Gazzoli farsi faticosamente in quattro per aiutare i suoi studenti in ogni modo dentro e fuori dall’aula, mettendosi in discussione in continuazione, ma soprattutto mettendosi in gioco. In uno sgangheratissimo viaggio verso il traguardo della licenza media, vista da fuori la piccola e simpaticissima classe formata da Amna, Bilal, Dmytro, Marisol, Priti, Samira, Shazia, Yara e Zinebsembra non raggiungere nessun significativo successo formativo, procedendo fra granitiche indolenze e rare fiammate di entusiasmo, incomprensioni e inconcludenze, problemi di convivenza e cause di forza maggiore, inaspettati snobismi e sorprendenti accessi di generosità.

Forse ha ragione Kaufman: anche il narratore di Gazzoli sembra non avere illuminazioni e non vivere epifanie stravolgenti, lottando giorno dopo giorno senza risolvere nulla. Eppure chi insegna, portato dal suo habitus a struggersi per i fallimenti e i mancati obiettivi, sa che in classe possono esistere anche vittorie invisibili, su cui è difficile apporre la propria targa di filantropi, ma al cui conseguimento si è in qualche modo contribuito insieme ad altri attori e fattori incontrollabili. Leggendo il libro di Gazzoli, sembra che le vite di questi studenti si decidano in realtà soprattutto fuori dalle aule scolastiche, in quel grande mondo in cui gli insegnanti non hanno giurisdizione e che, dopotutto, conoscono poco. È forte anche l’impressione, però, che per qualche motivo che non sapremmo ben indicare sia importante che almeno una parte di quella traiettoria, anche quando assume forme che non approveremmo o che semplicemente non riusciamo a comprendere, gli studenti la consumino nelle aule di scuola, fra i soliti armadi grigiastri e le palestre in linoleum.

Alla fine, se il narratore avrà imparato che gli altri non sono sempre come noi li vorremmo, che le persone sono libere di vivere le proprie vite con obiettivi differenti dai nostri, di accettare o respingere le lezioni che le circostanze della vita o l’imperfettissima scuola italiana tentano in ogni modo di imporgli, rimanendo stolidamente ancorate a valori che noi al posto loro (un posto che, però, non potremo mai occupare…) avremmo abbandonato, avrà già imparato una grande e difficilissima lezione. In una stagione letteraria dove le risorse del comico e dell’umorismo sono impiegate soprattutto verso la goliardia innocua e il cinismo ironico, Estranei sfrutta lo sguardo marziano dell’umorista per attuare un faticosissimo esercizio di relativizzazione e decentramento, che toglie a chi scrive la terra da sotto i piedi, generando molti dubbi salutari e poche risposte convincenti. La profilassi è salvifica e il risultato letterario è incoraggiante, perché il libro di Gazzoli, con il suo accorato scetticismo, resta al di qua degli slogan apodittici e delle formule facili: le prime cose che un buon insegnante, come le piume dei pulcini o i denti da latte, dovrebbe lasciar cadere per sperare di crescere, per il proprio bene e per quello dei propri studenti, qualunque esso sia.


A. Gazzoli, Estranei. Un anno in una scuola per stranieri, Milano, nottetempo, 2024, 180 pp., € 15,50.