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«Ma come diamine le ho realizzate io queste cose?». Intervista a Italo Belladonna

Italo Belladonna (Salerno, 1985) è ben noto, sotto il nome del suo progetto Venta Protesix, ai cultori dell’estremismo sonoro, grazie a una ormai lunga carriera di compositore elettronico votato alle declinazioni più brutali della harsh noise: i suoi album (con qualche eccezione, come si vedrà) erigono muri di suono perforante e urticante che è stato paragonato, ad esempio, a un trapano da dentista. Come se non bastasse l’aggressione quasi fisica alle facoltà uditive di chi ascolta, poi, Belladonna è solito raddoppiare l’assalto, attaccando anche il buon gusto e il senso del pudore con un immaginario (di titoli e illustrazioni) sistematicamente disturbante, che attinge agli aspetti più depravati e degradanti della sessualità umana. Meno noto, finora, il suo interesse ormai di lunga data per la poesia italiana contemporanea; un aspetto che ora diventa pienamente pubblico nella sua ultima fatica Automated Poetry About Uncontrollable Compulsions (2024), esperimento che incrocia poesia, musica elettronica, e intelligenza artificiale. È a partire da quest’ultimo album che ho intervistato Italo Belladonna sulla sua carriera e la sua poetica, trovando in lui un interlocutore sensibile e disponibile, dalle risposte mai scontate.

Caro Italo, il tuo ultimo album è caratterizzato dalla presenza della poesia, fin dal titolo. Ciascuna traccia è infatti descritta dal titolo come un “Automated poem” dedicato a una qualche compulsione quotidiana. Eppure, le tracce in sé sono, come tutta la tua musica, strumentali. Le poesie però ci sono davvero (nel booklet), e sono davvero automatiche, in quanto scritte dall’intelligenza artificiale. Da critico interessato alla poesia degli ultimi anni, trovo che i poeti siano riusciti a interagire in modo interessante con la dimensione informatica quando non si sono limitati a descriverla dall’esterno, ma ci si sono calati dentro, imparando a vedere il mondo – e a scrivere – come la macchina. L’idea di comporre con l’aiuto del computer risale almeno alla Neoavanguardia, ma in tutto il recente fermento per le possibilità creative (o distruttive?) dell’AI, non si era ancora avuto un esempio convincente di poesia italiana realizzata con questo metodo. È significativo che il primo ad arrivarci non sia stato un letterato di mestiere, ma un artista sperimentale (anche se probabilmente rifiuteresti entrambi questi termini) la cui prima dimensione è quella sonora. La prima domanda che ti vorrei fare è dunque sul perché di questa commistione artistica. Come sei arrivato a concepire questo progetto, c’è per caso qualche esperienza contemporanea che ti ha ispirato, o al contrario hai proprio individuato un vuoto da riempire?

L’idea di questo album nasce sul finire del 2020, da diverso tempo uno dei miei interessi principali era diventata la poesia contemporanea italiana grazie anche a La Balena Bianca che seguo da anni ormai. Rispetto al passato, il mio rapporto con lo strumento che utilizzo dagli esordi del 2008 (normalissimi laptop come se ne trovano in vendita nelle più famose catene specializzate in elettronica di consumo in giro per l’Italia, con una vecchia versione del software Max/Msp) è diventato più maturo ed equilibrato sotto diversi aspetti. Non è più la macchina che decide dove condurmi ma sono io che riesco a darle una direzione e a pilotarla con destrezza fino ad ottenere un suono del tutto artificiale e depersonalizzato. Puntavo a raggiungere delle sonorità simili dalla pubblicazione del mio vecchio CD del 2020 Existential Dread Simulator, passando per il successivo Hyperfixation del 2023 fino ad arrivare a queste 8 tracce presenti nel mio ultimo album uscito per Urbsounds, un’etichetta di Bratislava che dal 2017 pubblica i miei lavori.

Più in generale, qual è il tuo rapporto con la poesia contemporanea, italiana e no (i testi che accompagnano l’album sono in inglese)? C’è qualche autore in particolare che stimi, o che senti vicino alla tua visione?

La poesia contemporanea italiana è diventata nel corso degli anni una delle mie fonti d’ispirazione e cerco sempre di aggiornarmi scoprendo nuovi poeti più o meno sconosciuti in giro per la rete. Ho sempre pensato che esista una forte connessione tra la poesia più ermetica ed astratta e la mia musica. Quello che voglio dire è che, in entrambi i casi, viene richiesto un grande sforzo immaginifico al fruitore di turno. Sono molto grato alle persone che hanno realmente deciso di avvicinarsi alla mia musica, di interpretarla, scrivendomi attraverso e-mail, Whatsapp o Telegram e formulando domande argute sul perché di certe scelte stilistiche o sulla mancanza di una struttura portante in certi brani. Posso immaginare che non sia facile ed immediato penetrare all’interno del mio mondo sonoro.

            Credo che il mio contatto definitivo con la poesia contemporanea risalga ad una sera di diversi anni fa, quando su internet lessi una poesia intitolata Una solitudine per Venta Protesix scritta da una persona che non ho mai conosciuto [RB: parrebbe opera di un contatto – o di un doppio? – di Sandro Pedrazzi].

            a parte l’elemento giapponese

            (io sono per il porno occidentale)

            non mi sono mai rispecchiato tanto

            nell’estetica intera d’un autore

            italo Belladonna = Venta Pròtesix

            con quel malinconioso ceffo pallido

            e ostile, da terrone segaiolo

            dell’èra d’internèt due punto zero,

            con quel suo mondo musicale pieno

            di rumori stridenti ed assassini

            e un’iconografia particolare

            tutta a suon di bukkake e di gang bang

            dove il sesso più il noise sta chiaramente

            per: abbasso la vita (e anche la morte)

Nelle poche righe di quella poesia, il mio pensiero era sintetizzato quasi alla perfezione, in modo molto più accurato e preciso rispetto a tante recensioni o a diversi articoli che erano stati scritti su di me in passato.

            I nomi da tirare in ballo in questa intervista, legati alla poesia italiana contemporanea sarebbero tanti, ma inevitabilmente rischierei di dimenticare qualcuno, ad ogni modo posso affermare che l’esperienza a 360 gradi di Gabriele Galloni ed in particolare del suo personaggio immaginario Olimpia Buonpastore è stata davvero significativa per me. È stata una delle rarissime volte in cui mi sono sentito davvero vicino alla sensibilità di un altro autore. Grazie alla mia fantasia e alla noia che annienta in maniera spietata ogni cosa, anche io in passato ho creato personaggi che non sono mai esistiti, per sdoppiare la mia personalità e per vivere vite fittizie, dietro moniker totalmente privi di contatto con la realtà. Mi viene subito in mente Gelo Express che doveva vestire i panni di un gelatiere portoghese ispirato al personaggio di João De Deus di João César Monteiro nel film La Commedia di Dio oppure a Pyongyang Traffic Girl, dove fingevo di essere una vigilessa nord-coreana che trascorreva il suo tempo libero a creare muri di rumore digitale per esaltare la bellezza e la perfezione della propria città.

            La scelta dell’inglese, una lingua che non amo particolarmente, per i testi delle poesie artificiali presenti in questo album è stata dettata semplicemente dalla voglia di far comprendere queste poesie a più persone possibili. Avrei decisamente preferito delle poesie in lingua italiana.

Come hai scelto per questo lavoro il tema della compulsione? Quelle descritte nei testi sono tutte compulsioni in cui ti ritrovi personalmente?

Avevo in mente di concentrarmi sulle mie compulsioni da tanto tempo, ma non volevo creare l’ennesimo disco soffermandomi sulle mie ossessioni abituali e su tutte quelle turpi attività umane legate inesorabilmente alla sfera sessuale, che mi turbano e atterriscono allo stesso tempo e che finiscono per condizionare e plasmare i pensieri che si rincorrono freneticamente nel corso delle mie giornate. Per questo motivo ho deciso di dare a questa release una veste “poetica” unendo alle mie compulsioni quotidiane delle poesie generate grazie all’utilizzo dell’intelligenza artificiale.

Penso che Automated Poetry About Uncontrollable Compulsions sia uno dei miei dischi più impenetrabili di sempre e quando riascolto queste tracce mi pongo puntualmente questa domanda: se, dopo la realizzazione di questi brani, avessi chiesto ad un ascoltatore completamente estraneo ai miei suoni o anche ad uno avvezzo a delle sonorità più cupe ed estreme in quale ambito avrebbe agito l’intelligenza artificiale in questo lavoro, in che modo mi avrebbe risposto? L’intelligenza artificiale avrebbe creato il materiale audio, quello poetico o semplicemente la copertina dell’album?

Dal punto di vista tecnico, sono curioso di sapere in che modo hai proceduto per realizzare i testi. Leggendoli, colpisce il loro ritmo cadenzato e ripetitivo, molto adatto in effetti a esprimere la compulsione ossessiva; e anche la presenza di rime e assonanze, con qualche ripetizione e imprecisione che può suggerire che dietro non ci sia un accorto versificatore umano. Lo stile dei versi, però, sembra molto più ordinato e rassicurante rispetto alle asprezze alienanti delle tracce sonore. Hai puntato volutamente a creare un contrasto stilistico?

Per le poesie non ho fatto altro che collegarmi ad un sito internet, per l’esattezza https://www.aipoemgenerator.org/, dopodiché ho inserito la compulsione trattata in ogni traccia dell’album. Faccio un esempio, il titolo della traccia numero 3 è Automated Poem About Counting Steps Before Going To Bed To Avoid Serious Accidents The Next Day ecco, ho semplicemente rimosso la parte iniziale del titolo ovvero “Automated Poem About” e ho inserito tutto il resto nella barra presente sul sito. Ho cliccato su generate poem e stop, le otto poesie sono nate cosi senza subire alcuna modifica.

Il mio interesse per i rapporti tra poesia e performance (un altro fronte “caldo” e molto discusso in questi ultimi anni) mi porta a chiederti come esegui dal vivo questi pezzi. La poesia viene letta, o proiettata, per accompagnare la parte sonora, oppure può essere fruita solo a parte, da chi legge il booklet?

Personalmente non stravedo per la performance e per tutto ciò che è teatrale durante ogni tipo di esibizione musicale. Consequenzialmente le poesie possono essere lette solo sul booklet della cassetta oppure sulla pagina bandcamp di Venta Protesix o di Urbsounds nei lyrics di ogni brano. Solo recentemente, a fine 2022 per essere precisi, ho utilizzato durante qualche mio live set un video realizzato per la mia musica da un’artista egiziana da me particolarmente apprezzata che si chiama Castell Lanko. Ho subito intravisto delle forti connessioni tra il mio lavoro e la sua sensibilità artistica, sono rimasto particolarmente colpito anche dalle tematiche di cui si occupa, davvero molto vicine a quelle presenti nei miei dischi e successivamente dal tipo di estetica verso cui si spinge che a mio parere si adatta perfettamente con il mio materiale sonoro. Voglio precisare che fino a quel momento non ho mai utilizzato nulla per scelta durante i miei live set perché ritengo che il video possa rubare la scena a quello su cui preferisco concentrarmi durante i concerti ovvero il suono. Inoltre, tutte le volte che ho suonato con il video di Castell proiettato alle mie spalle, non c’era assolutamente nulla di preparato. Era tutto totalmente improvvisato e non c’era nessuna sincronizzazione tra musica e video.  Sinceramente non riesco ad apprezzare fino in fondo quel tipo di performance audio/video dove tutto è costruito, e regolato in partenza e dove non c’è spazio per l’improvvisazione o per l’errore, a tal proposito posso affermare che potrei tranquillamente suonare come è successo tante volte in passato in una stanza buia senza alcun tipo di luce o di effetto speciale puntato su di me. In quel modo l’ascoltatore di un mio concerto, l’ennesimo finto paladino dell’harsh noise e delle musiche totalmente altre non avrebbe nessuna scusa e dovrebbe concentrarsi solo sui miei rumori digitali. In caso contrario potrebbe decidere di abbandonare al più presto il luogo del concerto con fare infastidito ed indignato come qualche volta è successo.

Già da prima di scoprire questo tuo interesse per le contaminazioni con la poesia, ammiravo la tua (non)musica per il suo carattere estremo, senza compromessi, che traspariva anche dal tuo atteggiamento nelle interviste («Ho dato fastidio a molte persone, distrutto amplificatori e fatto quasi svenire/vomitare qualcuno durante i miei live. Penso che sia un risultato abbastanza soddisfacente, ma si può fare sempre di meglio»); ma anche per il fatto che dietro la brutalità s’intuiva però una fragilità, una sensibilità malinconica. Insomma, “lirico-pornografico”, per rubare un sintagma al compianto Gabriele Galloni. La musica elettronica del tuo esordio New Sad Epilogue of My Nice Electronic Composer (2008) è stata infatti definita dalla critica “crepuscolare” o “struggente”, mentre per le produzioni successive, dopo la repentina svolta verso l’harsh noise, sono più tipici epiteti come “perverso” o “morboso”. So che il rapporto col tuo esordio è stato a lungo contraddittorio – per anni lo hai tenuto nascosto, prima di rendere nuovamente disponibili le tracce nel 2016. A mio giudizio, i due lati della tua produzione non sono forse che due facce di una sensibilità che non esiterei a definire romantica, e mi pare che il tuo percorso si possa leggere come la ricerca di una sintesi fra questi due lati. Possiamo considerare anche la scelta di aprirti alla poesia come un passo in questo percorso?

Non credo che si tratti di un vero e proprio percorso. In fondo quella è la mia natura e non posso farci nulla. Ho profondamente odiato quell’album di cui parli e per anni non l’ho mai riascoltato. Addirittura chiesi ad una persona che aveva parlato di quel disco di rimuovere i titoli originali dei brani dalla pagina dove era pubblicata la recensione. Quel disco, che risale al 2008, ma a cui lavoravo dal 2006 almeno, parlava di un periodo della mia vita che volevo cancellare a tutti i costi e da cui volevo allontanarmi al più presto. Oggi, a sedici anni di distanza da quell’album, che a mio parere non ebbe lo spazio che meritava in quel periodo storico, posso affermare che in quelle tracce giovanili c’era una parte di me con cui lottavo e con cui tutt’oggi continuo a volte a scontrarmi. La contrapposizione di cui parli tra il mio lato che va costantemente alla ricerca di nuovo materiale morboso e perverso e tra questo lato crepuscolare e malinconico, tra questa fragilità e questo sentirsi perennemente fuori luogo in qualsiasi situazione della vita continua ad essere presente in ogni azione che caratterizza il ciclo ripetitivo della mia quotidianità.

Mi colpisce il fatto che le compulsioni trattate nel nuovo disco siano tutte alquanto quotidiane e apparentemente innocue, insomma nulla di vietato ai minori. Ma nel complesso della tua opera i temi della pornografia e della masturbazione (anch’essa compulsiva…) sono centrali, e molti tuoi lavori rispecchiano un immaginario hentai anche molto disturbante, nei titoli e negli apparati grafici. Anche in letteratura il tema ha dato luogo di recente a importanti riflessioni; per citare solo due giovani autori molto validi, penso al romanzo Annette (2021)di Marco Malvestio, o a certe poesie in Progetto per S (2017) di Simone Burratti. Nell’intervista che ho già citato, liquidi in maniera sospettosamente sbrigativa l’importanza del porno in quanto tale, sostenendo di usarlo «solo per masturbarmi più velocemente possibile» (tanto che poi la tua risposta si concentrava sulla difficoltà di ripulire le macchie di sperma). Da un lato questo è verissimo: tu dici di essere disinteressato al sesso, e il porno è una strategia per rimuovere la sessualità in modo asettico e anestetico. Lorenza Ronzano ne Il buon auspicio (2023) scrive che «La pornografia è […] il profilattico del sesso», «la cornice che isola il sesso dal resto della vita […] affinché non ingeneri vita e morte», «simbolo […] di una società sterile». Eppure, come Malvestio ha osservato, il porno oggi è presente nella vita e nell’immaginario di tutti, anche se si tende a non parlarne se non per condannarlo o farci ironia. La letteratura ha appena iniziato a esplorare questo mondo vastissimo e a parlarne in modo serio. Anche nel tuo caso a me pare che ci sia un fascino autentico per il tema e per tutte le sue ramificazioni: un amore, oserei dire.

Hai perfettamente ragione quando definisci queste compulsioni apparentemente innocue.  Ci sono stati periodi della mia vita dove questi riti quotidiani dovevano essere rispettati ed eseguiti alla perfezione. Prima di andare a dormire ad esempio, dovevo totalizzare un numero di passi prestabilito e prima di incamminarmi verso la camera da letto dovevo spegnere la luce con lo stesso dito della stessa mano ogni notte, tutto ciò dopo aver posizionato il contenitore delle lenti a contatto nello stesso punto del bagno dove veniva riposto con cura tutte le sere.

            Un altro titolo “divertente” e ancora oggi tremendamente attuale è Automated Poem About Compulsively Checking The Names And Addresses Written On Packages To Be Shipped Containing Venta Protesix Releases. Ho confezionato tantissimi pacchetti (solitamente quando vendo e spedisco i miei dischi utilizzo buste gialle imbottite per spedizioni marca Blasetti se non erro) successivamente cestinati perché mi ossessionavo fissando minuziosamente la mia calligrafia e notavo che un mio 7 poteva sembrare improvvisamente un numero 1 oppure una z poteva diventare sotto gli occhi vigili del postino incaricato alla consegna un 2. Potrei continuare con questi esempi all’infinito e chi mi conosce profondamente sa bene di cosa sto parlando. Al minimo errore il pacchetto era completamente da rifare. Sono arrivato a confezionare anche 3-4 volte dei pacchetti che dovevo spedire e di conseguenza tante buste imbottite sono finite nella spazzatura per questi motivi sopraesposti.

            Per quanto riguarda il discorso legato alla pornografia posso dire che prima di tutto hai citato uno dei libri che mi ha colpito di più negli ultimi tempi e che quando posso consiglio senza remore a tutti, parlo di Annette di Marco Malvestio, ma allo stesso tempo devo dirti che da parte mia non c’è mai stato amore verso questo argomento. Niente di più lontano dall’amore direi. Nel mio caso si trattava principalmente di odio, in fondo. La pornografia è sempre stata una delle mie innumerevoli ossessioni, una cosa lontanissima da me che mi spaventava causando continue incomprensioni con i miei coetanei soprattutto di sesso maschile e di cui non potevo non parlare scavando negli abissi più perversi e contorti della mente umana.

            Tuttavia da un bel po’ di tempo, penso dalla pubblicazione di Loneliness And Deviancy, il mio album del 2019, non ho più approfondito certi aspetti e più in particolare quell’immaginario fatto di pornografia giapponese bidimensionale e non che avevo sviscerato in lungo e in largo e che francamente mi aveva stancato e nauseato fino a sentire la necessità impellente di distaccarmici quasi del tutto. Quando rileggo la tracklist immaginaria di Burusera Shop Maniac, la cassetta pubblicata nel 2015 da Angst che conteneva la registrazione integrale del mio live del 2015 a Tokyo, resto per un momento interdetto e penso all’immagine di un ragazzo solitario che scriveva sul proprio smartphone 37 titoli densi di perversioni, deviazioni sessuali e masturbazione in un arco temporale di 10 massimo 15 minuti sul solito autobus che lo portava da Salerno a Cava De’ Tirreni.

Se la tua passione per la cultura giapponese è nota da tempo, seguendoti sui social vedo che ultimamente sei spesso andato in tour in paesi lontani dalle rotte più battute, soprattutto sul margine orientale dell’Europa: Slovacchia, Cipro, Georgia (dove vedo che è stato in parte registrato il nuovo lavoro), Azerbaijan… Quale ricezione hai trovato per la tua proposta in questi paesi?

Grazie a Venta Protesix ho avuto la possibilità di conoscere tante persone interessate o semplicemente incuriosite dalla mia musica in tanti luoghi diversi del mondo. In Slovacchia, a Bratislava per la precisione, torno mediamente una volta all’anno perché Urbsounds, l’etichetta di cui ti parlavo in precedenza, organizza puntualmente un evento per la pubblicazione di ogni mio nuovo lavoro. Sarò sempre riconoscente agli sforzi che Michal Lichý aka Urbanfailure, la persona che gestisce questa etichetta, compie per cercare di supportare la mia non-musica. Come ricordavi nella tua domanda, una delle tracce del nuovo album intitolata Automated Poem About Checking Numerical Codes And Adding Numbers Until You Decide It’s Satisfactory è stata registrata interamente nel corso di una notte trascorsa in una camera d’albergo a Batumi in Georgia. Facevi riferimento anche all’Azerbaijan e devo dirti che è stato il viaggio a cui sono più legato degli ultimi tempi. Se riavvolgo il nastro dei miei ricordi post-adolescenziali, mai avrei pensato di visitare questa nazione– la percepivo così lontana e misteriosa – figuriamoci di suonarci addirittura.  È un luogo che consiglio a tutti di visitare almeno una volta a gran voce, l’ospitalità che ho ricevuto in Azerbaijan, non solo nella capitale Baku, mi ha davvero lasciato senza parole. Quando mi avvicino e mi preparo ad un viaggio in una nuova nazione cerco sempre di apprendere le basi della lingua di quel luogo e cerco dei punti di contatto con quel paese attraverso il cinema, la letteratura e la musica. Nel caso dell’Azerbaijan mi permetto di consigliarti assolutamente di dare uno sguardo al film del regista azero Hilal Baydarov intitolato In Between Dying. Visto che sulla balena bianca la poesia è un tema ricorrente, all’interno di quel film di poesia ne troverai un bel po’ e di certo posso immaginare che non resterai deluso.

Nelle tue esibizioni pubbliche porti una mascherina chirurgica da molto prima del Covid. Come se avessi voluto evitare di contagiarti nel contatto con l’umanità. Al tempo stesso, quel look suggeriva una freddezza e una precisione “chirurgica” nel tuo lavoro, come la tua noise fosse un bisturi che ci lacerava senza tanti riguardi. Come ti sei sentito quando per un paio d’anni tutta l’umanità si è mascherata, neanche fossimo cosplayers di Venta Protesix? Ha senso una misantropia di massa per decreto governativo?

L’utilizzo della mascherina nella vita di tutti i giorni è una di quelle stranezze giapponesi, per noi occidentali, che mi ha sempre intrigato, uno di quei tanti aspetti legati alla cultura giapponese in cui mi sono sempre ritrovato alla perfezione. Prima del Covid la indossavo spesso, anche quando uscivo di casa semplicemente per fare una passeggiata o quando mi spostavo da un luogo a un altro con i mezzi di trasporto. Non la utilizzavo solo durante i miei live se devo dirla tutta. In seguito alla pandemia, nel 2020 in un momento in cui le mascherine in Italia erano merce rara, tutte le persone che mi conoscevano, parenti soprattutto, si sono ricordati di me e della mia fissazione e mi chiedevano di avere più mascherine possibili a loro disposizione. Avevo la stanza piena di pacchi di mascherine ma nel giro di pochi mesi ne sono rimasto quasi senza. Era strano ma al tempo stesso esaltante vedere persone che conoscevo camminare per strada nei mesi successivi alla quarantena con delle mascherine rosa (introvabili) nel mio comune di residenza.

Un’intervista non sarebbe completa senza la domanda generazionale di rito, a maggior ragione dato che siamo coetanei. Non so come sia nel mondo del noise, ma quello della poesia è ossessionato (a proposito di compulsioni!) dal discorso generazionale, che io trovo poi particolarmente problematico – almeno in letteratura – proprio per la nostra generazione nata a metà anni 80: siamo stati presi molto in contropiede dagli eventi storici, e forse anche per questo la nostra identità collettiva è debole, e i frutti del talento individuale (che c’è) stanno venendo fuori tardi e spesso in modi imprevedibili. Quanto ti riconosci in questa descrizione, e quanto senti che la tua opera rispecchi gli anni in cui sei cresciuto?

Mi riconosco totalmente in quello che dici e ho affrontato spesso questo discorso in passato. Gli anni della mia adolescenza, agli albori del 2000, trascorsi nel sud dell’Italia senza la presenza totalizzante di internet nelle nostre vite, senza amicizie o punti di riferimento in ambito musicale che mi esortassero o incoraggiassero a suonare in qualche gruppo punk adolescenziale o ancor peggio a fare cover, sono stati assolutamente decisivi nel lacerare definitivamente il mio rapporto già di per sé complesso con la materia musicale. Poi all’improvviso, senza nemmeno accorgermene, mi sono ritrovato catapultato nel 2007 su un sito internet chiamato Myspace, con un nome inventato e con dei brani che ad ogni nuovo ascolto mi portano inevitabilmente a scontrami con lo stesso quesito di sempre. Ma come diamine le ho realizzate io queste cose?

Venta Protesix, Automated Poetry About Uncontrollable Compulsions (2024)

1. Automated Poem About Washing Your Hands Repeatedly With Lukewarm Water 2. Automated Poem About Compulsively Checking The Names And Addresses Written On Packages To Be Shipped Containing Venta Protesix Releases 3. Automated Poem About Counting Steps Before Going To Bed To Avoid Serious Accidents The Next Day 4. Automated Poem About Needing To Stay On Pre​-​Established Numbers While Tuning Your Tv 5. Automated Poem About Always Putting Away Your Contact Lenses In The Same Order 6. Automated Poem About Always Entering Or Exiting A Room With Only One Particular Foot 7. Automated Poem About Always Flicking The Lights On Or Off Using The Same Finger 8. Automated Poem About Checking Numerical Codes And Adding Numbers Until You Decide It’s Satisfactory