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#Mappe. Trieste, sulla rotta balcanica

Il ragazzo si chiama Bilal.

Viene dal Pakistan, ha attraversato più di cinque confini per arrivare fin qui.

Attraversa il bosco con i rami che gli feriscono la testa e le braccia, man mano che avanza. Quel dolore, però, non è nulla in confronto ai colpi subiti dalle forze dell’ordine in Croazia. Procede in direzione ovest. O almeno, quello che a lui sembra essere l’ovest. Fino alla Croazia, aveva potuto contare sulla bussola di un suo amico. Era davvero suo amico? No, compagno di viaggio. Poi, però, la sua famiglia aveva smesso di pagare il passeur che li aveva guidati fino a lì ed è quindi dovuto trattenersi in Croazia, finché il passeur non avrebbe ricevuto quanto gli spettava. Bilal, però, non si era lasciato cogliere dallo sconforto. Avevano già perso un altro compagno di viaggio giorni prima, in Bulgaria. Lui si era allontanato sentendo il latrato dei cani della polizia e da quel momento non l’avevano più rivisto.

Bilal deve continuare anche senza gli altri, non può fermarsi. Sta cercando di seguire le istruzioni del passeur e spera di arrivare al confine con l’Italia.

Poi, finalmente, ecco spuntare qualcosa di promettente. Qualcosa di diverso da tutto quel verde che fino a quel momento l’aveva circondato. Una strisciolina blu. Il mare.

Bilal è giunto finalmente sull’altopiano del Carso triestino. Guarda dall’alto la città di Trieste che pian piano accende le luci delle strade, sprofondando gradualmente nel buio della notte. Tira un sospiro di sollievo e finalmente sa che l’unica cosa da fare adesso è scendere. Nulla di più.

Fa una sosta, si cambia i vestiti indossando quelli puliti che teneva nello zaino assieme a qualche scorta alimentare, abbandona sull’erba quelli sporchi e si rimette in marcia.

Incrocia i primi sguardi dopo giorni di silenzio e desolazione. Sono sguardi che lo scrutano, indagatori e diffidenti. Si chiede in che condizioni sia il suo viso, se non sia troppo martoriato dai ramoscelli degli alberi. Forse è per quello che lo squadrano, pensa. Alla prima auto che vede, si china per controllare il suo riflesso nello specchietto. No, il suo viso è tutto a posto.

Prende il cellulare e gira il suo primo video in Italia. Che allegria! Appena recupera un po’ di rete, avvicinandosi sempre di più alla città, lo pubblica su Tiktok. Così i suoi amici e la sua famiglia vedranno che sta bene ed è arrivato sano e salvo.

Giunge finalmente in centro e comincia a notare qualche altro pakistano come lui. Alcuni sembrano ormai vivere qui da parecchio tempo. Chiede qualche informazione, dove fare la richiesta d’asilo, dove potersi dirigere per passare la notte, dove mangiare. Gli rispondono che può fare la richiesta la mattina dopo in questura e gli suggeriscono di proseguire intanto verso la stazione dei treni. Lì troverà qualcuno ad aiutarlo, dicono.

Bilal ringrazia e avanza. Trieste è così diversa dalla sua città di provenienza. Le strade sono più pulite, il traffico è meno intenso, ragazze e ragazzi girano assieme, a volte tenendosi perfino per mano.

Afferra di nuovo il cellulare e riprende tutto quell’insieme di colori, suoni e persone. L’Europa!

Arriva alla stazione e davanti si ritrova una piazza gremita di gente.

Nota subito dei suoi connazionali, poi un gruppo di afghani seduti a terra e qualche bengalese. La piazza, però, ospita anche qualcun altro. Sono italiani che si mescolano agli altri, a volte conversando con loro, altre volte rimanendo in disparte. Bilal si convince di essere arrivato là dove avrebbero potuto aiutarlo. Si rivolge al primo pakistano che appare disponibile al dialogo e che gli indica una donna anziana seduta alla panchina e circondata dalla folla. Lì, qualcuno si sta facendo curare i piedi, martoriati dai chilometri e chilometri di marcia estenuante.

Bilal scuote la testa. Lui sta bene, non ha nessuna ferita particolarmente grave da far vedere. Ormai si era abituato al dolore che gli procuravano i lividi delle botte ricevute in Croazia.

–  Allora per dormire puoi stare con noi a Khandwala – gli risponde il suo connazionale.

Bilal non è sicuro di capire bene. Quella parola in pashto è sinonimo di un posto vecchio, sporco, decadente. Lui cerca un campo per l’accoglienza.

– Non puoi avere un campo ancora prima di effettuare la domanda d’asilo. Tu non sei nessuno per lo Stato italiano adesso. A volte non ce l’hai nemmeno dopo aver effettuato la domanda.

Bilal è confuso. Lui aveva sentito che in Italia accoglievano i profughi come lui. Aveva sentito che davano un alloggio, che l’Europa era ricca, che poteva lavorare e inviare i soldi alla famiglia in Pakistan.

Pensa che sia solo questione di pazienza e ascolta il suggerimento del ragazzo. Lo segue verso la stazione e si addentra lungo una strada che affianca i binari da una parte e un lungo palazzo fatiscente dall’altra. Ad un certo punto, girano a sinistra e si fanno spazio tra i fili di ferro tagliati e ripiegati, nel tentativo di creare una fessura per l’accesso a quello che appare come un luogo proibito.

All’interno, la situazione è più grave di quanto Bilal si aspettasse. L’edificio si estende su due grandi navate, divise da grosse colonne portanti. In entrambi gli ampi corridoi, un numero indefinito di tende occupa lo spazio umido e malsano, tentando di ovviare alle pozze d’acqua presenti sul suolo formato da fanghiglia. Alcuni vestiti sono appesi a delle corde, nel tentativo di asciugarsi. Un paio di sacchi a pelo sono accostati a delle barriere di cartone con l’obiettivo di tenere lontani topi e chissà quali altri piccoli animali. Piccoli oggetti sono sparsi ovunque, dai rasoi per la barba alle confezioni di biscotti ormai vuote.

Dopo il lungo e travagliato viaggio dal Pakistan all’Italia, ormai Bilal non si scandalizza più di nulla, ma credeva che in Europa le cose sarebbero state diverse. Lui e il ragazzo, però, non si fermano là. Proseguono fuori dalle due navate e attraversano un giardino, dirigendosi verso il secondo blocco che forma il Silos di Trieste.

Guardando in alto, scorge delle persone saltellare da una rovina all’altra del palazzo, scomparendo a intermittenza dietro pareti consumate e finestre rotte.

Quello che si presenta come un luogo abbandonato, in realtà è abitato da decine e decine di migranti e Bilal se ne accorge pian piano.

Entrano nel secondo blocco del Silos e lì si fermano presso un gruppetto di tende e sacchi a pelo.

– Puoi stare qui con noi – gli dice il ragazzo, tendendogli una coperta – Non abbiamo una tenda per te, ma domani sera forse le volontarie te ne daranno una, se sei fortunato.

Bilal spalanca gli occhi. E a che cosa gli servirebbe una tenda il giorno dopo? È solo una postazione provvisoria, no? Domani farà richiesta d’asilo e poi verrà accolto nel campo. Non gli serve la tenda.

Un altro ragazzo punjabi, originario della sua stessa provincia in Pakistan, si avvicina a loro e si presenta, stringendogli la mano. Poi aggiunge qualcosa:

– Non so se domani potremo tornare qui a dormire. Dicono che passerà la polizia e farà sgomberare il Silos. Ce ne dovremo andare pure da qui.

– E dove dormiremo?

– In piazza, dove se no?

Bilal segue la conversazione ammutolito, stringendosi nelle spalle. La polizia? Quindi è illegale che dormano lì dentro? Lui non vuole essere un criminale, vuole solo lavorare e avere un posto dove dormire.

Bilal trascorre la notte più lunga della sua vita. Accetta un tiepido piatto di riso e pollo offertogli dai due ragazzi punjabi, beve del tè e si corica sulla coperta impolverata. Le zanzare gli ronzano attorno alla testa impedendogli di dormire. Ogni tanto apre gli occhi e scorge l’ombra di qualche ratto che passa in lontananza, per poi avvicinarsi sempre di più, fino a sfiorargli i piedi nudi. L’umidità è alle stelle e la coperta non basta a proteggerlo dal borino fresco notturno. Pensa a casa, pensa alla famiglia e agli amici, nonché alla felicità che aveva provato appena varcato il confine italiano. Si chiede che ne sarà di lui, ma ha ancora speranza. È nuovo, ancora non sa nulla di ciò che nessuno a Trieste vuole sapere.

Si addormenta tra un pensiero e l’altro e la mattina dopo, come previsto, i poliziotti irrompono nell’apparente tranquillità del Silos. Chi sapeva già e non voleva farsi tracciare è già partito col primo treno per Venezia. Altri si allontanano di soppiatto, sentendo alcune voci italiane gravi. Bilal rimane ad aspettare assieme ai suoi due nuovi compagni d’avventura. Appena i poliziotti si avvicinano, si fa identificare e fa richiesta d’asilo. Lo mandano in questura per avviare la procedura per la protezione internazionale.

Bilal recupera il suo zainetto e lascia la coperta a terra, desideroso di non doverla più rivedere. Esce da Khandwala e nella piazza di fronte alla stazione vede la polizia che raduna gruppi di migranti, tenendoli sotto controllo.

Bilal non capisce. Cosa succederà a tutti loro? E lui dove andrà? Non vuole mai più tornare a dormire in quel posto putrido. È preoccupato, il paese che aveva tanto sognato di raggiungere lo sta abbandonando. Un brivido d’inquietudine gli attraversa il corpo dalla testa ai piedi.

In quel momento, il suo cellulare squilla. Qualcuno lo chiama. È sua madre. Gli chiede come va, se sta bene, se ha raggiunto finalmente l’Italia e se ha passato una notte tranquilla.

A Bilal esce una lacrima, ma se la asciuga prima che possa essere visibile. Sorride e annuisce con la testa. Si guarda intorno e mostra a sua madre i palazzi eleganti del Borgo Teresiano al di là del trambusto della piazza. Continua ad annuire e a forzare un sorriso.

– Va tutto bene, mamma. Sono in Italia, sto bene e sono felice.