Nel 1993, in un’intervista divenuta celebre, David Foster Wallace definiva gli eccessi del postmodernismo una «baldoria», paragonandoli a una festa tra adolescenti. Usava questo paragone, però, per lamentarsi della deriva del postmodernismo: la festa in questione è andata troppo per le lunghe ed è stata troppo selvaggia; all’euforia del parricidio segue l’inquietudine della responsabilità: «stiamo sperando che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a disagio […] lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e che noi dovremo essere i genitori». Riportate dai Wu Ming nel loro pamphlet-manifesto New Italian Epic (Einaudi 2009), e più recentemente dal critico Alessandro Cinquegrani nel saggio I personaggi non torneranno?, queste parole sono spesso interpretate come il segnale di un’impazienza, di un desiderio: quello di tornare alle storie tradizionali, al classico patto fra narratore e lettore, alla passione per i personaggi. Sono parole che mi sono tornate in mente alla fine della lettura di Autobiogrammatica, il libro di Tommaso Giartosio uscito per minimum fax all’inizio di quest’anno e candidato allo Strega.
Autobiogrammatica è un’autobiografia di Giartosio, scritta assecondando le coordinate concettuali di un’operazione di scavo linguistico-memoriale: non propriamente una grammatica, come il calembour del titolo parrebbe promettere. Tuttavia, è la dimensione linguistica a farla da padrone, con espliciti richiami a un classico della nostra letteratura come Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Nondimeno, in un percorso intellettuale simile alla Recherche, questo libro racconta anche la storia di come Giartosio sia divenuto scrittore – e il fantasma di Proust, che aleggia a lungo su queste pagine, si materializza in effetti proprio nella conclusione del memoir, sostituendo lo spettro ben più scomodo di Pound.
Il capitolo finale, infatti, incentrato sulla pericolosa fascinazione per il poeta fascista, mostra bene come le eccezionali vette formali raggiunte dall’autore dei Cantos possano rovesciarsi, da un momento all’altro, nei peggiori abissi morali del secolo scorso. Tale illuminazione perviene al giovane Tommaso (appena iscritto alla facoltà di Lingue) dopo aver assistito all’apologia del fascismo in un convegno su Pound, affollato di attempati e nostalgici alto-borghesi. Nel suo diario, definisce l’esperienza (citando Eliot) una «tentazione»: il Giartosio narrante parla a tal proposito del «desiderio di essere vittima». Nel saggio Critica della vittima Daniele Giglioli scrive che «la vittima è l’eroe del nostro tempo. […] Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subìto, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto». Giartosio problematizza la questione perché vi si ribella: decide di lasciare Lingue e approdare a Lettere proprio per ripudiare le passioni che lo avevano portato a idolatrare Pound, sottovalutandone la componente fascista. O almeno, questo è quello che Giartosio da adulto crede di scorgere nel sé stesso diciannovenne. Però, prima di giungere a tali conclusioni, ripercorrendo parole che gli ruotano in mente da sempre, l’autore flirta apertamente con il ruolo della vittima, sviscerando ciò che ha subito (il bullismo di «Quello che mena», uno dei due personaggi muti del libro assieme a «Quello che guarda»), ma soprattutto ciò che gli è stato tolto. È qui che entrano in gioco i genitori dell’autore, evocati poco dopo l’inizio del discorso di Giartosio e di fatto mai più scomparsi fino alle ultime pagine.
Autobiogrammatica rivela, per questa via, la sua ambivalenza. A un livello conscio ed esplicito è la storia, attraverso il linguaggio, dell’emancipazione di Giartosio. Un romanzo di formazione, verrebbe da dire, e infatti così lo definiamo: prova ne sono, ad esempio, le sezioni sulle scoperte adolescenziali, o la percettibile ma ben orchestrata sostituzione quasi totale delle figure dei genitori con le figure degli amici liceali negli ultimi capitoli. Giartosio parla della sua crescita facendo di sé stesso il personaggio protagonista; il Bildungsroman condotto attraverso l’espressione linguistica copre tutto lo spettro degli aspetti della crescita umana di Giartosio, dalle passioni intellettuali alla scoperta graduale della propria omosessualità. In ciò Autobiogrammatica si allinea a molta parte della letteratura contemporanea, memorialistica e/o autofinzionale, che rappresenta senza ombra di dubbio uno dei fenomeni più tipici delle scritture del nuovo secolo.
D’altra parte, però, Giartosio desidera un ordine, ricerca una finitezza: lo dice nelle ultime pagine, quando ha ormai fissato il suo alfabeto personale. L’emancipazione intellettuale, emotiva, sessuale di Giartosio passa da questa assunzione di responsabilità, più che dalla conquista di una libertà sfrenata: «non stare più a chiederti cos’è una A; chiediti cos’è un nome. Con la A e le altre lettere puoi comporre le parole, ma con un nome puoi chiamare una persona. Magari viene» (p. 432). La dicotomia fra le lettere, simboli della dimensione giocosa del linguaggio, e il mistero dei nomi, giocosi anch’essi ma anche seri e definitori, è una delle colonne portanti di Autobiogrammatica; trovo però significativo che – fra tutti gli usi dei nomi – Giartosio abbia scelto quello che designa l’azione del chiamare qualcuno, perché l’operazione compiuta nella sezione centrale del libro, dedicata ai genitori, è appunto un richiamo. Per tornare all’immagine di Wallace: la festa deve finire, i genitori devono tornare.
Uno dei temi più ancestrali e commoventi della letteratura è quello del dialogo coi morti. Giartosio sfrutta bene queste precise tonalità emotive, ma il suo obiettivo è un altro. Non vuole illusoriamente ricostruire la lingua del padre e la lingua della madre. Vuole verificare il potere che quei due linguaggi hanno esercitato e continuano ad esercitare su di lui: i genitori non torneranno più, noi dovremo essere i genitori. È su questo piano che Giartosio ingaggia un lungo e sotterraneo corpo a corpo con l’ideologia della vittima, riuscendo a superarla: non ignora i lati della sua biografia che potrebbero posizionarlo nel campo delle vittime, ma sceglie di non presentarsi come tale. Così, anche se fra le righe, Autobiogrammatica – un libro a prima vista fortemente individuale e privato – acquisisce un valore etico che lo rende un oggetto nuovo nella letteratura degli ultimi tempi.
Ad ogni modo, poiché – come diceva Calvino, autore amato da Giartosio e spesso citato nel libro – scrivere è sempre nascondere qualcosa, queste dinamiche sono spesso sotterrate da pagine e pagine di giochi di parole, etimologie false ma accattivanti o illuminanti, calembour, tic linguistici, puns. La pelle del libro, la sua interfaccia primaria è costituita principalmente dalla ricchezza davvero sbalorditiva dell’inventiva linguistica di Giartosio, che qui adopera tutti i suoi mezzi espressivi. Si direbbe un libro astratto, e invece trabocca di immagini memorabili: la mente come una soffitta in cui conservare le parole è quella che torna più spesso, ma questa figuratività fa da sponda ad altre trovate. Ad esempio, sono davvero riuscite le righe con cui Giartosio descrive gli animali che scorrazzano nella soffitta mentale in questione, aprendo il capitolo riguardante la sua antica passione, appunto, per gli animali.
A tal proposito, non si può non menzionare il fatto che Autobiogrammatica, pur incentrato così fortemente sul linguaggio, è in realtà corredato da varie immagini: riproduzioni di copertine o testi, pagine di diario, illustrazioni, tutte in dialogo serrato e diretto con il testo. È un altro dei tanti confronti di questo libro: quello fra letteratura e illustrazione, una delle strade che hanno tentato l’autore negli anni di cui racconta.
Nelle ultimissime pagine, Giartosio racconta di come – esclusa la possibilità di studiare lingue orientali all’università – la cultura cinese sia tornata a fargli visita, attraverso la passione per l’I Ching. Si tratta di una celebre raccolta di detti e aforismi, associati a degli esagrammi. Nel consultarlo, si lancia una moneta sei volte componendo il simbolo, e si legge la profezia corrispondente. Lo scrittore nota giustamente come questa usanza cinese non abbia particolari similitudini con l’oroscopo occidentale, perché essa presenta una situazione ma anche il suo possibile cambiamento. Obbedisce, cioè, a una concezione del tempo diversa, in cui il futuro rimane imperscrutabile: l’I Ching è più che altro una guida morale. Questa nebulosità temporale è forse l’aspetto più apertamente autoindulgente di Autobiogrammatica che, pur mettendo in scena errori e insicurezze, procede spedito verso la meta finale: Tommaso che si iscrive a Lettere moderne e diventa – dopo questo lungo apprendistato – uno scrittore. In un altro memoir, uscito pochi mesi prima di questo libro, La chiave di Berlino di Vincenzo Latronico, troviamo invece una sorta di dichiarazione di colpevolezza da parte di chi scrive: «nella scrittura autobiografica […] l’io che racconta è sempre, in qualche misura, costruito. […] L’arco [narrativo] lo vediamo dopo (o crediamo di vederlo, illudendoci), e questa coscienza finisce per colorare ogni sguardo retrospettivo: nella selezione di ciò che si racconta, nel modo in cui lo si fa». Non per questo si deve credere che Giartosio guardi al suo passato ingenuamente: l’autore sceglie di credere alla sua teleologia, per conferire alle sue scelte un valore morale, esistenziale e persino politico.
T. Giartosio, Autobiogrammatica, Roma, minimum fax, 2024, 440 pp., 11,99€
(in copertina: foto di Bernd Dittrich su Unsplash)