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Crescere su Marte. Su “La generazione ansiosa” di Jonathan Haidt

Jonathan Haidt è uno psicologo sociale che insegna alla Stern School of Business della New York University. La sua ricerca si concentra sugli aspetti psicologici del comportamento morale. Quest’ultimo è un campo d’indagine che riguarda quel che gli individui ritengono utile e di valore, e cosa essi fanno per vivere all’altezza dei propri orientamenti morali, ovvero di quel che gli individui ritengono utile e di valore, e di cosa essi fanno per vivere all’altezza dei propri orientamenti morali.

La generazione ansiosa del suo libro più recente, The Anxious Generation: How the Great Rewiring of Childhood is Causing an Epidemic of Mental Illness (Penguin, New York, 2024) – in italiano per Rizzoli con il titolo La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli – è quella di chi si è affacciato all’adolescenza nei primi anni 10 del ventunesimo secolo (la cosiddetta generazione Z). In quegli anni, i social si sono imposti come imprescindibile e privilegiato veicolo del rapporto con gli altri, plasmando sul proprio codice comunicativo la mente dei giovani utenti, il modo in cui essi fanno esperienza del mondo e degli affetti – ecco il great rewiring a cui fa riferimento il sottotitolo dell’edizione inglese del libro, dalla cui versione ebook citiamo nel seguito di questo articolo.

Essere bambini e poi adolescenti negli anni dei social, sostiene Haidt, è come «crescere su Marte» (pp. 1-16), ovvero in un mondo non solo completamente diverso da quello a cui si era abituati, ma anche pericolosamente incline a flirtare con l’irrealtà, e con ideali tossici di comportamento e bellezza. È vero che l’industria tech – a partire dalla TV negli anni 50 – ha sempre cambiato la vita tanto degli adulti quanto dei bambini. Già nel 1965, ad esempio, Antonio Pietrangeli aveva diretto Stefania Sandrelli in un film, Io la conoscevo bene, che in maniera riflessiva e quasi meta-cinematografica si soffermava sui possibili pericoli rappresentati dai role models veicolati dal cinema e dalla pubblicità.

Tuttavia, come scrive Haidt, è stato solo con l’introduzione e la diffusione – a cavallo degli anni 10 del secolo attuale – dell’iPhone e delle funzioni hyper-viralizing dei social (si pensi ai bottoni per i like, i retweet e lo share), che si sono sollevate le paratie innanzi all’incontrollato fluire «nelle orecchie e negli occhi dei ragazzi» d’ogni tipo di addictive content (p. 3). Quest’ultimo ha per di più «sostituito il gioco fisico e la socializzazione di persona», permettendo alle tech companies di «riprogrammare l’infanzia e modificare lo sviluppo dei singoli individui in proporzioni che fino a un po’ di tempo fa erano quasi inimmaginabili» (ibidem). Come ha osservato il neurobiologo Vittorio Gallese, «l’accresciuta esposizione a dei contenuti digitali ha modificato la qualità delle nostre esperienze percettive» («Digital Visions: The Experience of Self and Others in the Age of the Digital Revolution», International Review of Psychiatry, online first, 2024, p. 2). Infatti, da un lato, come ha sottolineato Gilbert Simondon, i media digitali tendono ad andare ben oltre la funzione originaria dei dispositivi di mediazione della realtà, quella di adattarci meglio all’ambiente circostante (Gilbert Simondon, Du mode d’existence des objets techniques,Aubier, Paris, 2001). Dall’altro lato, come appare sempre più evidente, i media digitali sono inclini a diventare lo strumento esclusivo d’interazione quotidiana con il mondo. La combinazione di queste due circostanze, osserva ancora Gallese, facilita «la progressiva cancellazione della linea che separa la realtà fisica dalla sua rappresentazione digitale» («Digital Visions», p. 3). Le tecnologie di riconoscimento facciale come Facebook Deep Face, ad esempio, usano una rete neurale a nove strati, e sono predisposte a essere usate dall’industria pubblicitaria, la quale ha già inaugurato una propria ontologia fake, per così dire, sostituendo i modelli umani con dei Deepfake – dei media sintetici generati da algoritmi del deep learning come Generative Adversarial Networks (GANs). Questi algoritmi non si limitano a riprodurre dei dati noti ma ne producono (generano) dei nuovi. La particolarità degli algoritmi GANs risiede nel fatto che essi, in fase di addestramento, inducono l’Intelligenza Artificiale a non saper più distinguere tra dati reali e dati fake. In tal modo, l’output della IA è progressivamente sempre meno plausibile, benché appaia corrispondente a realtà. 

Le carenze in ambito normativo, evidenziate tra gli altri da Luciano Floridi, soprattutto per quanto riguarda l’Europa, stanno facendo la loro parte (Luciano Floridi, «The End of an Era: From Self-Regulation to Hard Law for the Digital Industry», Philosophy & Technology, 34, 2021, pp. 619-622). Come scrive Haidt, non vi sono restrizioni reali all’accesso ai social: «se un bambino spunta una casella confermando così che ha ottenuto il permesso dei genitori, può prendere il volo per Marte» (p. 2). Colpevoli, secondo lo psicologo americano, sono soprattutto le società che gestiscono le nuove piattaforme, dal momento che mostrano d’avere investito gran parte delle proprie risorse nella ricerca tecnologica e in quella finalizzata all’engagement degli utenti, ma ben poco negli studi «sull’impatto di certi prodotti sulla salute mentale dei bambini e degli adolescenti, evitando di condividere con i ricercatori i dati a questo riguardo in loro possesso» (p. 3). Si pensi, ad esempio, alla risposta di Meta alle rivelazioni di Frances Haugen concernenti Facebook, il 5 ottobre 2021 di fronte al Senato americano. E si veda anche la replica di Haidt alla dichiarazione di Mark Zuckerberg, secondo la quale Instagram ha in generale un influsso positivo sulla salute mentale (Lex Fridman Podcast #291).    

La modificazione del senso della realtà, resa possibile dalle tecnologie dei social, porta con sé un’ansia diffusa, che secondo Haidt è legata a quattro caratteristiche della nuova socialità virtuale (pp. 8-9). In primo luogo, le interazioni e le relazioni che avvengono online sono disincarnate, nel senso che avere un corpo, letteralmente, non è richiesto; infatti, si usa solo il linguaggio – incluso il linguaggio per immagini – e gli interlocutori, come già accade, possono essere delle Intelligenze Artificiali. In secondo luogo, a eccezione delle video-chiamate, che sono sincrone, la nuova comunicazione è soprattutto asincrona, si svolge per lo più tramite post scritti, e crea archi temporali vuoti – di attesa – che vengono riempiti da stress e altri post compulsivi. In terzo luogo, comunicare via social è un rivolgersi da uno a molti, anzi, a un numero sproporzionatamente alto di altri individui, più di quanti una relazione di persona possa gestire. Questo fatto altera il senso di responsabilità, assieme all’evidenza del nesso tra un’azione e le sue conseguenze. Infine, Haidt evoca l’abbassamento della soglia per l’entrata nelle comunità online e l’uscita da esse, sicché gli utenti, una volta bloccati, escono rapidamente da un gruppo, entrano in un altro, e infragiliscono i concetti stessi di relazione e comunità.

Tutto ciò, sottolinea Haidt, ha un costo emotivo per gli adulti, figuriamoci per chi entra nella pubertà e, invece di trovare un mondo solido come riferimento, ha l’esplorazione di Marte – per altro ignoto anche agli adulti – come guida.

I dati raccolti da Haidt sono talmente numerosi che sembrano confermare il rapporto causa-effetto, e non una semplice correlazione statistica, tra la diffusione delle nuove tecnologie social e il malessere dei giovani. Ad esempio, secondo la U.S. National Survey on Drug Use and Health, dal 2010 al 2020 gli episodi di depressione maggiore tra i teenagers americani sono aumentati del 145% per le ragazze, e del 161% per i ragazzi. Secondo l’American College Health Association, invece, tra gli studenti di college i casi di ansia sono aumentati del 134% dal 2010, quelli di depressione del 106%, quelli di anoressia del 100%, quelli di disturbo dell’attenzione del 72%, quelli di schizofrenia del 67%, e quelli di disturbo bipolare del 57%. Si tenga presente che nel decennio preso in considerazione, l’American College Health Association registra un incremento del 33% nell’uso di e nella dipendenza da sostanze, mentre nello stesso decennio è stata incomparabilmente più rapida e massiccia, nelle famiglie americane, l’adozione di social e smartphone. Questa considerazione, se confrontata con i dati sopra riportati relativi alla salute mentale, ci può dire qualcosa di significativo circa la natura assuefacente, addictive appunto, di certa tecnologia.

Il dato ancor più significativo riguardante l’«insorgenza del dolore» (pp. 18-45) in un’intera generazione, è però quello relativo alla distribuzione per fasce d’età dell’ansia, la patologia per eccellenza delle relazioni disincarnate e volatili, delle minacce meramente percepite che si contrabbandano per reali, dei tempi d’attesa apparentemente eterni, dell’esposizione di sé allo sguardo infinitamente moltiplicabile degli altri. La U. S. National Survey on Drug Use and Health mostra infatti che dal 2010 al 2020 i giovani tra i 18 e i 25 anni hanno visto crescere del 139% i report sui casi di ansia, mentre tra gli ultracinquantenni c’è stata addirittura una diminuzione dell’8%.

I principali sintomi del dolore tipico dell’«infanzia cresciuta con lo smartphone» (p. 113), anch’essi con un riscontro quantitativo, sono quattro: a) diminuzione della vita sociale vera e riduzione delle amicizie reali, aggravate dalle restrizioni dovute alla pandemia di COVID nel 2020 (pp. 121-124); b) privazione del sonno, fino a meno di sette ore a notte (pp. 124-127); c) frammentazione dell’attenzione, secondo una linea di continuità che ha saldato il texting al posting (pp. 127-131); d) dipendenza dall’approvazione altrui, secondo un meccanismo compulsivo di validazione sociale che opera circolarmente tra likes, posts e sharing (pp. 131-138). 

Questi quattro sintomi, assieme al carattere disincarnato dell’interazione via social, sono ciò che contribuisce allo staccarsi da terra della generazione Z, e al suo fare esperienza d’un alterato e sfuggente senso della realtà. È così che avviene l’approdo su Marte, presso lidi che di reale hanno di sicuro i profitti delle tech companies che li colonizzano: isolati e insonni, incapaci di seguire un filo logico e paurosi.

Haidt non si limita a stilare una diagnosi sulla base dei sintomi evidenti. Egli esorta anche i governi e le grandi aziende da un lato, e le scuole e i genitori dall’altro, a svolgere – ciascuno secondo le proprie competenze – una «azione collettiva» (p. 225) finalizzata a promuovere la salute dell’infanzia.

I governi, a tutti i livelli (federale e statale o locale) dovrebbero capovolgere la tendenza – molto chiara negli Stati Uniti – alla overprotection dei bambini nel mondo reale (con conseguente incremento di ansie e fobie) e alla loro underprotection nel mondo online. A tale scopo, Haidt sostiene che dovrebbe diventare esecutiva ovunque una legge promulgata in Gran Bretagna, la quale esige che le tech companies trattino i minori in maniera davvero diversa dagli adulti, con un reale di più non facilmente aggirabile (come oggi) di attenzione e cura. Haidt aggiunge, inoltre, che l’età della maturità per l’utilizzo di internet dovrebbe essere 16 anni, non 13. Le aziende, quindi, dovrebbero introdurre migliori metodi di verifica dell’età degli utenti, in modo che computer e smartphone dei minori non accedano a siti destinati a chi è adulto. Inoltre, per correggere la tendenza alla overprotection nel mondo reale, lo stato e il governo locale dovrebbero mettere i genitori nelle condizioni di non temere l’arresto o l’intervento del Children Protection Service (CPS) per aver permesso ai propri figli dei momenti di gioco non supervisionato in spazi pubblici. Lo stato e i governi locali dovrebbero anche incoraggiare più ore di gioco e ricreazione nelle scuole, assieme a dei programmi di formazione professionale, che secondo Haidt hanno mostrato di aiutare gli adolescenti, soprattutto maschi, nella transizione alla età adulta.

Per quel che riguarda le scuole, Haidt raccomanda che esse, durante l’intera giornata di lezione, siano phone-free, e che vi siano degli spazi e degli interi programmi dedicati esclusivamente al gioco, includendo dei veri parchi-gioco nelle scuole e nel calendario delle attività. I genitori, da parte loro, possono contribuire a riportare i figli sulla Terra, incoraggiandoli a interessarsi al mondo reale tramite il campingall’aria aperta, il gioco libero, l’uso d’un telefono basic fino ai 16 anni, il coinvolgimento in attività manuali e lavori part-time che servano da preparazione alla vita professionale da adulti.

Come si può notare, i consigli dello psicologo americano sono dettagliati ed estremamente pratici, e sembrano mettere in evidenza delle carenze e delle distorsioni educative – la iperprotettività (overprotection), il declino del gioco all’aria aperta – che non sono di per sé una novità introdotta dagli smartphone. D’altra parte, Haidt stesso dedica un’intera sezione del suo libro (pp. 46-112) alla preistoria di quello che sta accadendo ora nelle famiglie americane, e ne individua i prodromi nello stile di vita delle società a capitalismo avanzato della fine degli anni 80 e degli inizi degli anni 90. Pensiamo, ad esempio, a quello che scriveva Don DeLillo già nel 1985, nel romanzo Rumore Bianco. Nel romanzo, lo scenario attuale è prefiguratodal dialogo a tratti surreale tra Jack Gladney e il giovane Heinrich: posso dire che ora sta piovendo, sostiene il ragazzo, non perché guardo fuori dalla finestra e constato un fatto, ma perché lo dice la radio e ne ho conferma comparando tra loro diversi programmi trasmessi via etere (Don DeLillo, Rumore bianco, Einaudi, Torino, 2014, pp. 29-31). In The Anxious Generation, in un certo senso, Haidt incoraggia i genitori ad aprire la finestra e a lasciare che i figli si bagnino con la pioggia, ovvero a invertire la rotta d’un viaggio verso Marte iniziato in realtà molto tempo fa, e giunto oggi oltre la soglia critica.