Il mio primo approccio con la scrittura dell’autrice messicana Amparo Dávila è stato titubante e mi ci sono voluti mesi prima di cimentarmi una seconda volta nella lettura dei suoi racconti. Sarò io una ragazza facilmente impressionabile, ma la raccolta del 2020 L’ospite e altri racconti, tradotti in italiano per Safarà da Giulia Zavagna, mi aveva scombussolata (ero stata quasi tentata di congelare il libro nel freezer come Joy in Friends). Nei mesi che erano passati tra la prima e la seconda lettura, continuavo a chiedermi Cosa avevo letto? Cos’era? Era vero? Mi aveva spaventata l’ambiguità con cui terminava ogni racconto, quel suo costante oscillare tra reale e surreale, e la tendenza dei personaggi a farsi guidare dalla paura. Mi domandavo cosa sarebbe successo se un giorno non si fossero più riuscite a governare le piccole ossessioni quotidiane; se un giorno si fosse smesso di ascoltarsi e si fosse cominciato a costruirsi mattone dopo mattone una felicità totalmente illusoria. Subito dopo aver riletto L’ospite e altri racconti, ho letto Morte nel bosco e altri racconti (raccolta tradotta in italiano sempre da Safarà nel 2023) e ho cominciato a provare pena per quei personaggi condannati a vivere quei se ogni volta che qualcuno decideva di leggere la loro storia.
I racconti toccano tre grandi temi propri dell’essere umano e che mettono radici nell’infanzia dell’autrice: l’amore, la follia e la morte. Come spiegò l’autrice in un’intervista rilasciata nel 1987, gli scrittori scrivono di ciò che conoscono e finiranno sempre per proiettare una parte di loro in ciò che producono. Amparo Dávila nacque nel 1928 a Pinos, in un paesino messicano attraversato dalle carovane che trasportavano i morti e le famiglie in lutto. La sua infanzia fu solitaria. Da bambina affrontò la difficile perdita del fratello minore e passò molto tempo in casa malata, guardando passare le processioni e leggendo i classici della biblioteca del padre. Il primo autore che influenzò il suo modo di vedere la letteratura fu Dante, perché nell’Inferno ritrovò i demoni che la perseguitavano. Si avvicinò per la prima volta alla scrittura per mezzo della poesia ed è verso i vent’anni che cominciò la sua carriera di scrittrice di racconti.
Una particolarità della sua scrittura è che non è ascrivibile a un genere predefinito e questa sua difficile classificabilità potrebbe essere funzionale al senso di ambiguità che pervade le sue storie. Infatti, il perturbante, l’ambiguo, l’ignoto e l’inquietante sono degli elementi che si infilano in ogni sua trama e che irrompono spesso in forma di creature nelle realtà illusoriamente familiari dei protagonisti, per poi mettere in crisi quelle realtà o disfarle. Questo è ciò che accade soprattutto in L’ospite e altri racconti, dove si incontrano personaggi con una quotidianità piuttosto serena, che viene spezzata dall’entrata in campo di esseri dalle fattezze umane e bestiali (è volutamente difficile, se non impossibile, capire se sono umani, animali o esseri soprannaturali). Questi esseri occupano le case dei protagonisti, il loro spazio ‘protetto’ e inevitabilmente chiuso, e spesso la loro presenza viene imposta dalla famiglia. Per esempio, in L’ospite, è il marito a portare un giorno in casa dalla moglie (la protagonista) e dai figli una creatura inquietante, che dorme molto e sembra aggressiva. I racconti di Dàvila possono essere definiti weird nell’accezione data al termine da Mark Fisher.
Il weird è una sorta di perturbazione. Chiama in causa un senso di non-correttezza: un’entità o un oggetto weird è talmente inusuale da generare la sensazione che non dovrebbe esistere, o perlomeno non dovrebbe essere qui. Eppure, se l’entità oppure l’oggetto è effettivamente qui, allora le categorie utilizzate finora per dare senso al mondo non possono essere valide. La cosa weird non è sbagliata, dopotutto: dovranno per forza essere inadeguate le nostre concezioni. (Mark Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, minimum fax, 2018, p. 15)
Quali sono le concezioni di partenza dei personaggi di Dávila? I protagonisti vivono nel contesto sociale dell’autrice. Mancano le coordinate geografiche e temporali precise, ma ci sono indizi, in base a come si muovono le donne e gli uomini nel mondo raccontato, da cui si può capire che, in generale, il ruolo femminile è relegato alla casa e alla famiglia, mentre quello maschile al lavoro e alla vita sociale. Ci si trova di fronte a personaggi che conducono vite apparentemente appaganti, perché in realtà non sono liberi, ma reclusi tra le mura di stereotipi sociali o tra quelle fisiche di una casa. A volte la reclusione si sviluppa in seguito a degli avvenimenti scatenanti, come in Con gli occhi aperti, in cui è presente un lutto da affrontare, motivo per cui la protagonista del racconto riempie casa propria di oggetti del morto, con l’idea di conservarli per i figli. Di notte, però, comincia a sentire qualcuno che gira per il suo appartamento e alla fine del racconto decide di affrontare questa incognita, così, quando sente la presenza entrarle in camera, apre gli occhi.
Uno degli elementi che hanno in comune tutte le storie è proprio la reclusione, perché è ciò che permette l’illusione di serenità e stabilità, il terreno fertile per lo sviluppo della creatura, che, mettendo piede in casa, si nutre delle paure dei protagonisti (di solito sono solo i protagonisti a notare qualcosa di sinistro in questi esseri). Questo concetto implica una situazione di incomunicabilità, che è un altro elemento comune alle storie. Le creature prendono vita propria logorando quella dell’ospitante e questo, preso dalla paura e dal disgusto, non fa nulla per ribaltare la situazione, anche se, in apparenza, potrebbe farlo. Soprattutto nella raccolta L’ospite e altri racconti manca molto il dialogo, il confronto, sia fra le persone del quotidiano sia con le creature. In Moisés e Gaspar, le creature soffrono la perdita del loro precedente padrone. Il protagonista pensa che queste entità forse nemmeno hanno capito cosa è successo, le vede deluse quando è lui a tornare a casa e non il fratello e le vede piangere in silenzio con grosse lacrime, ma non farà mai niente per accertarsene e non proverà nemmeno a confortarle o a creare un legame che non sia di dipendenza. In fondo, potrebbero essere solo dei cani. In L’ultima estate, la protagonista non si confida con il marito riguardo alla sua paura di un’altra gravidanza e dopo l’aborto preferisce suicidarsi, pur di non affrontare quegli esseri che sembra stiano per raggiungere la sua porta.
Se il weird c’è, allora le concezioni di partenza non possono essere valide. Qui, tuttavia, l’ambiguità regna sovrana. Le creature esistono veramente? La loro minaccia è reale? Quanto l’equilibrio mentale del protagonista è stato intaccato dalle frustrazioni della sua vita? In Morte nel bosco e altri racconti, poi, la linea di confine tra sanità e follia è ancora più sottile che in L’ospite e altri racconti, perché in quest’ultima raccolta sono molto presenti le fantomatiche creature, mentre nella raccolta seguente molto meno e i protagonisti sono portati ai limiti della paranoia; le loro paure li guidano verso l’ignoto. Un esempio lampante è Un biglietto per un posto qualsiasi, in cui un uomo appena tornato a casa viene avvisato dalla domestica che un signore con un abito scuro è venuto a cercarlo. Il protagonista comincia a immaginarsi chi potrebbe essere e fantastica su un dottore venuto a dirgli che la madre è morta, poi su un altro che lo avvisa che la madre è fuggita dal sanatorio e infine su un detective venuto per arrestarlo. Ogni possibilità porta – secondo lui – conseguenze devastanti e così, quando il signore torna, preferisce uscire dalla finestra, recarsi in stazione, prendere il primo biglietto chissà per dove e non fare più ritorno, credendo così di essersi salvato. Chi era in realtà questo signore? Il lettore non lo saprà mai.
Louise Bourgeois diceva che un artista può mostrare cose che le altre persone sono terrorizzate dall’esprimere e Amparo Dávila nei suoi racconti gioca con questo assunto. Indaga l’orrore che ognuno porta dentro di sé e che spesso finge di non avere per paura di scoprire quanto è profondo, quanto è pieno o quanto è vuoto. È così spaventoso da affrontare e superare l’orrore del mondo e quando lo si scorge si preferisce fingere di non averlo visto, anche se ormai non si può più tornare indietro. Le creature sono una trasposizione materiale di quel buio, di quell’oscurità che, se schiacciata da illusioni, rischia di esplodere? Le creature sono l’esplosione?
Nel racconto Frammento di un diario, c’è una frase che incarna perfettamente il weird di Dávila: «Il quotidiano esercizio del dolore dà a chi lo pratica lo sguardo di un cane abbandonato, il colorito di un fantasma» (L’ospite e altri racconti, p. 16). Salta subito all’occhio la natura ambigua delle creature che distruggono ciò che è il familiare. In secondo luogo, si nota dove sono presenti le creature: nel quotidiano. Infine, chi sono: chi soffre, chi pratica giornalmente il dolore. Sono significativi anche i termini esercizio e praticare. La storia, infatti, narra di un uomo che si definisce apprendista del dolore e tenta di suddividerlo per gradi di intensità. La sofferenza può essere una condizione familiare e confortante e per questo a volte può essere ricercata e indotta. Le creature sono il riflesso del dolore del protagonista, un messaggio d’allarme che accede al mondo reale per avvisare che la realtà così illusoriamente serena nasconde problemi di fondo, che, se non risolti, porteranno all’isolamento, alla sofferenza e alla follia. Le creature e le paranoie nascono dall’allontanamento dei protagonisti dalla propria oscurità, da se stessi, dall’ignoto e dalla paura. Ed è in questo distacco, che il buio può assumere caratteri bestiali, sconfinando nella nostra realtà.
A. Dávila, L’ospite e altri racconti, tr. it. di Giulia Zavagna, Pordenone, Safarà, 2020, 144 pp., € 16,50.
A. Dávila, Morte nel bosco e altri racconti, tr. it. di Giulia Zavagna, Pordenone, Safarà, 2023, 288 pp., € 19,50.