«Tutti i racconti» riporta la copertina di Ultimi eroi, questo bel tomo di 633 pagine a cura di Giorgio Galetto, Fabio Pierangeli e Linda Terziroli per Il Saggiatore, ma basta una decina di minuti per accorgersi che i racconti veri e propri occupano meno di un quarto delle pagine.

Molto spazio è lasciato ai curatori, a ciò che pensano e addirittura a ciò che provano.

«Con nessun altro scrittore ho avuto un “incontro” così “tangibile”» dichiara Pierangeli nella prefazione, in cui dice di avere immaginato Morselli a cavallo nei suoi boschi e di essersi appoggiato sull’intonaco della sua casetta. «Ho stretto nella mano i suoi fogli», e «ho sentito vicino il suo respiro. Le sue emozioni e le tristezze», prosegue, «dopo aver letto in modo completo il suo teatro inedito ho immaginato un grande palcoscenico dove critici e dirigenti editoriali maligni, invidiosi e miopi, progressivamente smorzavano l’amplificazione della voce a un attore di straordinario talento istrionico». E ancora, «non sono un filologo e scorro le sue carte, quei fogli fragili, per saperne di più, per incontrarlo, per ritrarlo uomo».

Vige in letteratura una regola di buon senso: diffidare da un’esegesi che tenga troppo conto degli aspetti biografici di un autore, così come dei suoi esiti editoriali e delle sue passioni. Trascorsi abbondantemente cinquant’anni dalla morte e dalla pubblicazione postuma, possiamo abbandonare i toni revanscisti e vagamente melodrammatici e cominciare a discutere di Morselli per quello che è stato: un adorabile e geniale dilettante. Un uomo che nel bel mezzo del Novecento, vale a dire fuori tempo massimo, godette dell’otium senza le restrizioni del negotium. Per destino? Forse; per miopia degli editori? Anche; per capriccio suo? Eccome. Pensiamo a quando, alla richiesta di stemperare il bagaglio ideologico di Contro-passato prossimo, rispose con un secco no grazie, piuttosto «lo rimetterei pari pari nel comò». L’intera corrispondenza tra Morselli e il consulente Mondadori Alcide Paolini ci restituisce l’immagine di chi, pur non disponendo di un pubblico che potesse validare la sua autorialità, si sentiva uno scrittore. E si districava senza falsi pudori tra romanzi, racconti, articoli, saggi, perfino soggetti e sceneggiature. Una cultura che, come lui stesso annoterà sul diario il 30 dicembre del 1959, «anche se è dilettantismo, non è mai “turismo” della mente» e ci porta dalle parti di Savinio e di Walser molto più che tra i banchi dei bravi scrittori impegnati, dove si vuole far sedere oggi a forza Morselli. Privo di qualsiasi anxiety of influence apparente, fin da giovane, a partire dagli anni Trenta, sviluppò un onnivorismo mentale destinato a confliggere con il sapere sempre più compartizzato del secondo Novecento. La sua cultura, lo vediamo anche in questa raccolta, si presenta come una varietà inclassificabile di mescolanze e compenetrazioni che, osservate retrospettivamente, appaiono sintesi o pasticci a seconda degli esiti. Brillanti in molti racconti, e del resto non stupisce: «Formalismo o no» annotava a mano sulla quarta di copertina di I Formalisti russi nell’edizione Einaudi del 1968, oggi consultabile insieme agli altri 1900 volumi conservati nella Biblioteca civica di Varese, «secondo me un gran precetto letterario lo ha dato Rousseau, Emilie, II, 437: “sorvolare su ciò che non è puro racconto”» Puro racconto è Ho dirottato sul guardrail, che, tra un «matrimonietto» e uno Šklovskij, mette in scena una tragicommedia della mediocrità, dove il dramma più cupo è il non-dramma della protagonista, più vicina a Monica Vitti che a Madame Bovary («Io non bovaryzzo; strana eccezione (si è borghesi perché si è Madame Bovary, e viceversa), io futilizzo il dogma che dove non c’è dramma, crisi, e accessori, non c’è vita. Osservo e se occorre, critico»). La donna fallisce nel tentativo di ammazzarsi e scuotere così il marito Enrico, definito «l’integrazione-nel-sistema incarnata e vestita in tweed di flanella». L’automobile sbanda e urta il guardrail, ma non esplode, non deflagra, rimane composta nel suo danno minore, salvando l’apparenza di una normalità che si rigenera come una pianta infestante in un mondo «tecnottimista». Solidissimi anche gli esiti di alcuni soggetti, uno su tutti È successo a Linzago Brianza, dove abbiamo dialoghi, storie di ferrovie e desaturazioni tonali degne di un film in bianco e nero. Forse meno centrati gli esiti di alcuni reportages, dove la dovizia di particolari prende il sopravvento sulla curiosità, e alcune narrazioni simboliche che talvolta non riescono a emergere del tutto, come nella seconda parte di Fantasia con moralità, in cui si cerca di dare un significato alla «catena diabolica» di delitti per mano della sanguinaria mano che impugna «il coltello a lama romboide». E però c’è tutto. Stile loico, fraseggio spezzato, nitore lessicale, frasi nominali, aritmomania, elencazioni, anglicismi, espedienti fonosimbolici, onomatopee, reticenze, arte combinatoria, ucronie, tesi storiche contro-fattuali, c’è tutto dell’usus scribendi di Morselli, e in tal senso, l’eterogeneità della raccolta è perfetta per avere una panoramica stilistica dello scrittore. Soprattutto se si è fuori dal fanclub morselliano e si vuole avvicinare la sua scrittura con piglio laico e non agiografico.

Guido Morselli si è sparato nella notte tra il 31 luglio e il primo agosto 1973, e questo è un fatto importante, che ci rende orfani di chissà quali altri capolavori avrebbe potuto scrivere oltre a Dissipatio H.G., ma nel nostro dibattito culturale è come se morisse tutti i giorni, e l’ultima volta è sempre ieri. Siamo così ossessionati dalla morte di Guido Morselli da rischiare di farne la più potente chiave di lettura, eppure non ci sono testimonianze che provino in maniera inequivocabile una lunga premeditazione del suicidio. Per quanto ne sappiamo, molto di ciò che leggiamo lo ha scritto nella piena convinzione di svegliarsi l’indomani, metodico, magro e scapolo, come da programmi. La ragazza dall’occhio nero forse, dormiva, forse aveva gli occhi azzurri. Stando ai più, l’autore avrebbe sviluppato negli anni una sorta di poetica del doppio fortemente biografica, fino all’estremo esorcismo della scrittura di Dissipatio H.G. Può sembrare bizzarro, ma se caccia deve essere sulle tracce di Morselli, i cani abbaiano proprio lì, ai piedi della «frigida» del racconto Sono sana di pagina 39.

La prima informazione che abbiamo di lei è il «villino di periferia», chissà se rosa, dove la donna vive in un isolamento che funge da «alienazione strutturale» al mondo di simboli e significanti che si è costruita per difendersi da una realtà, là fuori, percepita come spregevole, banale, impersonale. «Altro» da sé. Similmente ad altri personaggi e, azzardiamo, all’autore stesso, la protagonista sembra trarre piacere dal proprio isolamento, dalla propria frigidità affettiva e dalla mancata partecipazione alle dinamiche sociali. Un distacco che le permette di mantenere una posizione di forza, dove il desiderio non si realizza mai del tutto, restando sempre sospeso, intrappolato in una spirale di cinismo, disillusione e intellettualismo.

Eppure, in questa dimensione apparentemente controllata, scorgiamo un desiderio perennemente segnato dall’assenza e dalla ricerca dell’irraggiungibile. I gatti sui quali replica i test della NASA e i mancati orgasmi con Walther sono come l’objet petit a di Lacan, oggetti sfuggenti che guidano e nutrono il desiderio della donna, senza mai poterlo soddisfare. Lo dichiara lei stessa: «qualcosa c’è, di strano, nel mio attaccamento a Tommy e Pard e Set e Job, e ai diversi loro predecessori giacenti sotto quel così verde ligustro di siepe», dice, riconoscendo uno «strano ambivalente sentimento, le cui fasi coincidono (ma questo, viceversa, è logico, è naturale) con talune fasi intime». Quei gatti seppelliti e subito rimpiazzati rappresentano non solo la fine del desiderio, ma l’elemento scatenante del desiderio. Questa jouissance negativa non ha nulla di travagliato, «sono frigida, diciamo pure la parola, e, fino a un certo punto, elettivamente» e nemmeno poggia su chissà quale solita trappola di Eros e Thanatos, «ciò che mi paralizza, non è ripugnanza, s’intende, non è rifiuto a essere strumentalizzata, al contrario, è lo stupore di non riconoscere più l’individuo (…) La maschera dell’uomo in foia non è brutale, secondo me è peggio. È impersonale». Piano e pacifico, Sir.

Altro che «prefigurare il romanzo-inchiesta Brave borghesi», come recita l’introduzione, questo breve racconto riconferma l’igienismo mentale, prima ancora che sessuale, insito nella scrittura di Morselli, che sconfessa l’assunto di Coletti che voleva come tratto caratteristico dell’io novecentesco la «tendenza a cercarsi e definirsi nel sesso» riversando «la propria perduta ipertrofia sulla più fisica e carnale manifestazione del sé». E che peccato non trovare in questa raccolta i frammenti di Uonna, la storia di un individuo per metà uomo e per metà donna, un ermafrodito, un asessuato. Avrebbe dovuto essere un lavoro romanzesco imponente, di estrema difficoltà, a giudicare dagli appunti rinvenuti (sul retro di un calendario) intorno a questa persona dalla voce incantevole, dal timbro vellutato e metallico insieme, Fénimore, che ammalia chiunque intorno a sé e affronta vagabondaggi del corpo e dell’anima, capricci del destino, complicazioni e colpi di scena con un obiettivo chiaro, fondare un partito del superamento del sesso. Una sorta di precursore della società asessuale verso cui ci stiamo avvicinando. Quante Fénimore solcano le passerelle di Milano, Parigi e New York oggi? Quante loro interviste e dichiarazioni sui giornali? Quante violente discussioni si innestano tra la vecchia guardia e l’ala cosiddetta progressista intorno alle Fénimore presenti e future? Sarebbe stato interessante, oltre che utile, incrociare la frigida di Sono sana con Fénimore e magari «la Tuti», con cui il protagonista di Dissipatio H.G. ebbe il suo primo amplesso, vissuto «con voglia e senza abbandono». Scomparsi tutti, la Tuti diventa oggetto di curiosità e ricerca, al punto che egli decide di andare a trovarla in, vedi un po’, «Via del Monastero», da dove gli aveva spedito la sua ultima cartolina. Episodio marginale, per alcuni perfino trascurabile, se non fosse che «Tuti» si presta benissimo a lenizione e sineddoche per «tutti».

Già, dove sono tutti?

G. Morselli, Gli ultimi eroi. Tutti i racconti, Milano, il Saggiatore, 2024, 640 pp., € 29.