La maggior parte dei film italiani sono ambientati nelle solite due o tre grandi città della penisola. Roma è paragonabile a New York, per quanto sia stata impressa su pellicola. A seguire ci sono Torino, Napoli e anche Milano (che nel suo processo di rebranding, ora vuole prendersi anche un posto nell’immaginario cinematografico). Ma al di là della metropoli meneghina, la provincia lombarda non è mai stata presa troppo in considerazione dai registi. Quel paesaggio plumbeo e piatto muoveva al massimo la sensibilità di autori come Ermanno Olmi. Esiste però un film di Antonio Pietrangeli ambientato nella mia città d’adozione: Brescia. Girato nel 1964, si intitola Il magnifico cornuto, ed è considerato, a torto, un film minore del regista romano (si trova integrale anche su YouTube).

Titoli d’apertura: Piazza Paolo VI

Pietrangeli mi è sempre piaciuto molto, credo sia uno di quei casi di registi compresi solo a metà. Forse perché i suoi film sono all’apparenza delle commedie ben congegnate, ma dentro covano sempre un’efficacissima critica al vuoto esistenziale generato dal boom economico. Nel cast de Il magnifico cornuto compaiono attori di prim’ordine, da Ugo Tognazzi a Claudia Cardinale e troviamo persino un giovanissimo Gian Maria Volonté. La storia, come suggerisce il titolo, parla di tradimenti in un contesto altamente borghese, dove chi tradisce teme di essere tradito a sua volta e sviluppa vere e proprie paranoie. Deliziosi sono alcuni momenti onirici che per bellezza competono con quelli felliniani. Il primo quarto d’ora è una sorta di tour del centro città: vediamo il protagonista, interpretato da Tognazzi, attraversare a piedi piazza Paolo VI – la piazza principale – salutando vari notabili. In questa sequenza si osservano già almeno quattro simboli della città, raccolti nello spazio di un fazzoletto. Da un lato della piazza si stagliano uno a fianco all’altro il Duomo vecchio, di struttura circolare e in stile romanico, e quello nuovo, edificato nel Seicento. Questi due edifici sottolineano già un’anomalia: due chiese che si spartiscono la medesima piazza e la bulimia di presenza cattolica. Proseguendo sulla stessa traiettoria si trova il Broletto, severo edificio in pietra, simbolo del potere temporale nel medioevo, ora sede di vari uffici comunali. Resta poi un ultimo simbolo, quello più rumoroso e moderno. Tognazzi lo raggiunge attraversando l’intera piazza e lo accende facendo rombare il motore. Si tratta di un’auto sportiva, l’idolo bresciano per eccellenza. Tutti conoscono la celebre corsa delle Millemiglia (immortalata anche recentemente da Michael Mann nel mediocre film Ferrari con Adam Driver), ma la corsa spiega solo in parte la mistica attorno ai motori. Qui l’automobile come status symbol non ha mai abbandonato l’immaginario collettivo. Porsche, Ferrari, auto di grossa cilindrata – e più recentemente Tesla – sono l’estensione naturale dei moderni signori di Brescia. Le vedi sfrecciare sulle strade lastricate di via Trieste, cercare improbabili parcheggi in via Spalto San Marco, tirate a lucido e fieramente sprezzanti di qualunque limite di velocità.

Ugo Tognazzi giunge alla casa del presidente del circolo in via Trieste

I loro conducenti sono perlopiù piccoli imprenditori, proprietari di fabbriche che producono oggetti che nessuno sognerà mai, ma che spesso sono essenziali ingranaggi per gigantesche macchine industriali o materiali su cui si è costruita la civiltà: cemento e ferro. La Leonessa d’Italia ha infatti una lunga tradizione legata alla costruzione e alla fucina. Difficile non conoscere qualcuno che in città non sia architetto o abbia un parente geometra e nel dopoguerra, quando c’era da rifare l’Italia, gli operosi bresciani hanno giocato un ruolo essenziale trasformando i rottami ferrosi in tondini. Erano imprenditori della Valle Camonica e della Val Trompia. Me li immagino un po’ come i nani di Tolkien, a lavorare sodo in reami incastonati tra le montagne, operosi e di poche parole. Usciti dalle loro miniere e fonderie, si sono poi diretti in una concessionaria, hanno acquistato un SUV e comprato una casa in via dei Musei, dove ogni mattina muovono il loro bisonte d’acciaio tra strette strade di sanpietrini e memorie del loro retaggio longobardo.

Ex miniere di ferro in Val Trompia

Con ogni probabilità avranno sventrato un edificio storico per farci un buco in cui incastrare il loro destriero meccanico. Il bresciano, del resto, non sembra particolarmente sensibile alla bellezza del centro e il suo peregrinare è di rado mosso da flânerie o romanticismo. Questa mancanza di sensibilità la fotografa molto bene il film di Pietrangeli nella scena in cui Tognazzi, accompagnando in auto la moglie del commendatore, non si accorge nemmeno delle avances di questa, troppo preso dalle sue beghe burocratiche, “Accidenti, mi sono dimenticato di andare all’ufficio del registro”. Il bresciano non è però un turbocapitalista alla milanese e apprezza il buon tempo passato con gli amici. Lo troverai spesso in piazzale Arnaldo, con l’abito migliore, un levriero o chihuahua appena toelettato al guinzaglio, per fare l’aperitivo in uno dei locali che si susseguono senza soluzione di continuità nella zona dello struscio serale. Consumato il suo terzo/quarto pirlo (lo spritz dei bresciani) ritornerà al suo autocarro blindato per tornare a baita (casa), che il giorno dopo si riapre bottega. 

Piazzale Arnaldo

Ma quando anche l’ultimo bresciano torna a casa, e il centro si spegne, puoi respirare l’atmosfera unica di una città stratificata come una torta. Nel buio risplende la pietra di Botticino di cui sono fatti gli antichi palazzi e le moltissime chiese che affollano pochi chilometri quadrati. Mi immagino le pietre della croce di Desiderio risplendere nel buio, mentre nelle cappelle e negli altari si intravedono i colori lividi e foschi delle tele della scuola lombarda. Savoldo, Romanino, Moretto, i campioni della pittura bresciana raccontano una fede concreta, terrena, fatta di albe fredde e tanta fatica. Sembra incredibile pensare che il principale modello dei tre pittori sia stato quel maestro del colore squillante che è stato Tiziano, presente anch’esso in città con il magnifico polittico Averoldi. È come se la nebbia delle valli e l’umidità della pianura fossero penetrate nelle tele, modificandone i pigmenti e regalandoci il cosiddetto realismo lombardo.

Romanino nella Chiesa di San Giovanni Evangelista

Eppure, nella città dei calvinisti con il Cayenne e le mille chiese, si scopre come sia fermentato un mondo alternativo, nel cuore antico della città. Come una sorta di antidoto all’asfissiante borghesia. Basta infatti spostarsi all’ombra della chiesa di San Faustino, nel quartiere del Carmine, e trovare la meglio gioventù. Qui, tra le antiche strade strette del quartiere medievale, si riversano studenti universitari, fuorisede e tutte le comunità che hanno trovato casa negli anni in una delle città più multietniche d’Italia. Da queste parti il manzo all’olio con polenta si mescola al couscous, al kebab, al mujadarra e a un dedalo di profumi e sapori che riportano Brescia a una dimensione tutta contemporanea, di città più avanti di quelle considerate avanti (sì, Milano, parlo di te).

È nel Carmine che si trova uno dei miei posti del cuore, il cinema Nuovo Eden, un progetto sostenuto dal Comune stesso e che vede realizzato il sogno di ogni cinefilo: un multisala la cui la programmazione è pensata da appassionati di cinema. In un momento di totale depressione delle sale a livello mondiale, è un magnifico gesto di resistenza.

Cinema Nuovo Eden

Ma le scelte in controtendenza non finiscono qui. Un altro cinema ha visto la luce lo scorso anno, sorto sulle ceneri di uno più antico. Si tratta del Cinema Moretto, un’idea di multisala con bar e musica dal vivo, qualcosa che avevo visto solo nei miei anni a Berlino. A proposito di resistenze, va segnalata una libreria indipendente, Nuova Rinascita, un vero e proprio polo culturale, dove ogni settimana ci sono eventi con scrittori sempre gremiti di gente. La libreria sorge proprio all’angolo della più fascista delle piazze bresciane, piazza Vittoria, un’anonima spianata voluta dal Duce e per cui venne sacrificato un intero quartiere medievale.

Piazza Vittoria

Una ferita inferta dalla destra che fa il paio con quella più recente e sanguinosa della strage di Piazza della Loggia. La piazza simbolo della città è finita recentemente sulla copertina della Lonely Planet dedicata alla Lombardia.

Viene ritratta in una sorta di alba, vuota e bagnata, come dopo un acquazzone. Quello brutto e lungo del Covid, che l’ha piegata più di molte altre città, ma che l’ha lasciata ancora più viva e pronta a ripensarsi.