Nel suo Bassa fedeltà. Musica lo-fi e fuga dal capitalismo (NERO, 2024), Enrico Monacelli ha tracciato una sorta di personale album critico del lo-fi (da low fidelity), sottogenere dell’indie rock statunitense anni ’80-’90 che affonda le sue radici, almeno, nella psichedelia sixties; ma anche, e più propriamente, uno stile, un’attitudine etico-produttiva caratterizzata dalla ricerca fai-da-te di sonorità deliberatamente povere, grezze, gracchianti; il tutto registrato “senza alcun controllo esterno e con i mezzi più economici possibili”.
Procedendo da Brian Wilson e R. Stevie Moore ad Ariel Pink e Phil Elverum, la tesi di fondo di questo personal essay (uscito originariamente in lingua inglese l’anno scorso, tradotto in italiano da Tommaso Garavaglia) è in sé abbastanza semplice; e cioè che i ronzii, i sibili e i riverberi delle registrazioni lo-fi opererebbero una vera e propria “critica pratica” nei confronti delle produzioni più curate e patinate (hi-fi, appunto) dell’industria mainstream. Una visione minimalista e, per questo, intrinsecamente alternativa del processo di creazione musicale; la dimostrazione di come, per fare un buon disco, possano bastare una chitarra scordata e un registratore portatile da due lire.
Fin qui niente di strano né particolarmente originale; in fondo, l’intera storia del pop per come la conosciamo, specie dal punk in poi, mostra come tutto ciò che suona diverso rispetto allo standard commerciale (più veloce, più ruvido, più immediato: più “nuovo”) abbia sempre un carattere in senso lato rivoluzionario, anche e soprattutto quando registrato “di merda”.
Ma l’ipotesi di Monacelli, in linea con la recente wave di riletture in chiave radicale delle più disparate nicchie della cultura pop, si spinge decisamente più in là, al punto da eleggere l’intera corrente lo-fi (antesignani ed epigoni compresi) a “movimento” in grado di sovvertire le condizioni materiali – e, con esse, economiche e politiche – che presiedono al funzionamento dell’industria musicale, nei modi di un “esodo estetico, politico ed esistenziale” dalle sue logiche produttive. Detto altrimenti: suonare e incidere musica con mezzi artigianali, fuori da ogni vincolo di mercato, come “forma di impegno sociale” che prefigurerebbe “un mondo che deve ancora venire – un vero e proprio mondo postcapitalista”.
In questo (al pari di diversi prodotti afferenti alla wave editoriale di cui sopra) il saggio di Monacelli rivendica senza ambiguità la sua appartenenza a una tradizione critico-culturale che rimonta, in breve, all’esperienza visionaria della CCRU (la famigerata Cybernetic Culture Research Unit fondata da Sadie Plant, Mark Fisher e Nick Land presso la Warwick University alla metà dei ’90); come denota anche la predilezione per tutto un armamentario retorico di matrice cyberpunk o tecno-luddista, in uno stile spesso sovreccitato che lavora, per così dire, a tenere aperta la ferita, risalendo alle origini di una passione totalizzante, verso quell’età di graffi e lividi che è (o dovrebbe essere) l’adolescenza: “Mentre cadevo in questo vortice di visioni nate dalla psichedelia e dalla lotta, l’interzona adolescenziale del lo-fi cominciava a prendere forma”.
Questo ricorso deliberatamente estensivo a una strumentazione ideologico-concettuale in genere applicata a controculture più “acide” e comunitarie (tipo la scena techno/rave e affini) rappresenta il principale motivo di fascino ma anche, a parere di chi scrive, la fondamentale criticità di Bassa fedeltà: che non vuole essere né una rigorosa ricostruzione storica e neppure una analisi musicale in senso stretto; quanto, piuttosto, una personale “genealogia” di sabotatori della produzione sonora nell’età del capitale, di volta in volta presentati alla luce di pagine più e meno note di Marcuse, Deleuze e Guattari, Fisher ecc. (a proposito: una nota bibliografica con i principali titoli citati non avrebbe infastidito). Insomma: “una parata carnevalesca attraversata da numerosi generi e da una schiera eterogenea di artisti, visionari e freak”, siano questi semplici dilettanti alle prime armi o, com’è spesso il caso, raffinati strumentisti in vena di sperimentazioni povere.
Ma appunto, al di là del nocciolo di verità autoevidente che deriva dall’opporre simbolicamente le imperfezioni di un artigianato basso agli standard professionali della produzione alta, l’interpretazione anticapitalista di Monacelli, a contatto con personalità tormentate e poetiche anche molto diverse tra loro, nel suo massimalismo sembra non reggere mai del tutto. Un’impressione che emerge già nel caso di una figura contraddittoria come R. Stevie Moore; nume tutelare lo-fi che in una vera e propria anarchia autoproduttiva sembra riversare su nastro tutto quello che gli passa per la testa, in spregio a qualunque logica di mercato: salvo poi, in più occasioni, non nascondere la propria ambizione di sfondare e fare un sacco di soldi – ambizione in cui, per quanto balzana e frustrata, è difficile riconoscere con Monacelli il profilo di “un tipo di punk più punk di qualsiasi altro punk”. E lo stesso direi, a maggior ragione, di un’icona cristiano-paranoica dell’underground statunitense come Daniel Johnston (oggetto già in vita di un culto appassionato): il cui trauma originario, o perlomeno irrisolto, sta a chiare lettere in “un amore non corrisposto” – delusione sentimentale che Monacelli, “generalizzando la sua tristezza e le sue frustrazioni [di Johnston]”, a più riprese si sforza di tradurre nel sentimento di “insignificanza a cui il capitalismo sottopone tutti”. Il fatto è che dalle canzoncine tenere e inquietanti di Johnston, come da quelle di buona parte dei musicisti trattati in Bassa fedeltà, promana, più che un anelito al sovvertimento del paradigma economico-produttivo dominante, un senso di mancanza, di estraneità: la condanna a una (auto)emarginazione vissuta anche come liberazione. E allora l’immagine di un Johnston nei panni dell’utopista radicale che, chiuso nella sua cameretta, lotta per infrangere il dominio del capitale a suon di falsetti rischia di apparire, almeno al sottoscritto, involontariamente grottesca.
Del resto, a un certo punto è lo stesso Monacelli a domandarsi se l’emarginazione e la solitudine più o meno volontariamente abbracciate da molti musicisti lo-fi, al termine di parabole spesso e volentieri coronate dal fallimento (economico, artistico, umano), possano davvero essere interpretate in termini di rivolta anticapitalista: se è vero che “senza un sincero desiderio di lotta comune, qualsiasi fuga dalla normalità è destinata a essere una ricerca inefficace”.
Ebbene, bisognerà effettivamente interrogarsi su fino a che punto un atteggiamento di evasione o fuga dal mondo (se si preferisce, al limite, un suo boicottaggio passivo) possa realmente dirsi “rivoluzionario”, o almeno contestatario. Siamo sicuri che il gesto del ritiro monastico, del passo indietro rispetto alla società e ai suoi meccanismi costituisca davvero una forma di sabotaggio luddista? E se fosse puro e “semplice” rifiuto, un chiamarsi fuori, un avere preferenza di no (per dirla con il sommo Scrivano)? D’altronde manca, in un saggio di impianto sedicente marxista come Bassa fedeltà, una preliminare riflessione (auto)critica sul significato dei termini di lotta e rivoluzione e sulle loro possibilità di applicazione nel campo musicale/culturale odierno: le suggestioni hauntologiche su futuri perduti e dintorni cominciano ormai, per il troppo uso, a mostrare la corda; così come certi utopismi di maniera sul “nostro desiderio collettivo di una rivoluzione fantastica e meravigliosa” (?) rischiano di suonare, a un orecchio meno complice, assai più estetizzanti e chic (e come tali reazionari) che radical.
L’epilogo del libro, che per cenni affronta il panorama della produzione musicale a bassa fedeltà di inizio XXI secolo, dominata da tecnologie e pratiche di campionamento digitali, mi sembra inciampare nelle medesime debolezze. In queste pagine, Monacelli sostiene come l’analisi del lo-fi portata avanti finora, in quanto sabotaggio in atto del sistema produttivo capitalistico, regga altrettanto bene anche per le tonnellate di musica trap e simili prodotte dagli adolescenti di oggi. Sarà. Ma di nuovo: che un suono sia volutamente “raccapricciante e a tratti insopportabile” (e non c’è dubbio che certa roba menzionata qui lo sia) non significa per forza che punti a fare a pezzi il mercato delle piattaforme – magari, come vuole la sempiterna vulgata della critica dall’interno, “utilizzando […] gli strumenti del padrone per distribuire le proprie opere”. Forse, più che altro, sono le stesse nozioni di underground o diy che nell’attuale scenario musicale sembrano essere diventate obsolete: se davvero chiunque ormai può prodursi – e distribuire – la propria musica spendendo poco o niente, cosa resta di un preteso ethos rivoluzionario, controculturale, alternativo?
E cosa resta della musica lo-fi? Oggi, nell’era dell’autotune, la produzione di suoni a bassa fedeltà è (come Monacelli non può non riconoscere, almeno in parte) soprattutto una scelta di stile rétro, una strizzata d’occhio a come suonavano le registrazioni casalinghe del secolo scorso: un effetto di realtà, sì, ma artificiale e nostalgica. (Il vero sintomo significativo, su cui Fisher ha già detto più o meno tutto, sta infatti nella connotazione fantasmatica o “ultraterrena” che tali sonorità fac-analogiche acquistano in certo weird contemporaneo, come la memoria sbiadita di un’epoca mai vissuta di persona). E allora non c’è niente di male ad accettare che il lo-fi – quello vero, quello suonato con strumenti di fortuna, quello sfigato – oggi sopravviva in forme del tutto residuali: più che una rivoluzione molecolare che dovrebbe guidare l’ascoltatore verso chissà quale avvenire postcapitalista, i frantumi di una sottocultura fragile in partenza, che ha sempre covato in sé, teneramente, come ogni adolescenza malinconica, l’annuncio della propria fine.
È per questo che, in fin dei conti, ho sempre amato i gruppi lo-fi; è per questo che a diciassette anni, con la mia acustica di terza mano e il mio giro di sol traballante, avrei voluto anch’io fare il musicista: per illudermi di poter scappare dal mondo che mi aspettava là fuori, fintanto che ero in tempo; mica per farlo saltare in aria.
Enrico Monacelli, Bassa Fedeltà. Musica lo-fi e fuga dal capitalismo (2023), tr. it. di T. Garavaglia, NERO, Roma 2024, 196 pp., 20,00 €.