Come ogni buon manuale di storytelling insegna, in natura le storie non esistono. Esiste solo un flusso continuo di avvenimenti, che deborda orizzontalmente mettendo in collegamento e intrecciando tra loro le traiettorie delle persone, ma anche verticalmente, poiché ogni evento può essere scomposto nelle sue componenti minori in un processo telescopico potenzialmente infinito. È nel confronto con questo magma indistinto di fatti, cause e concause, che il gesto del narratore, che seleziona, perimetra e organizza, appare arbitrario e, in questa sua arbitrarietà, estremamente creativo. Chi racconta sceglie il cosa, ma sceglie anche il come, definisce il punto di vista, lo sguardo attraverso cui narrare e anche l’ordine con cui riportare i fatti, secondo quale criterio disporli e in che modo “pesarli”.
Così fa anche Gigio Bellandi, ex dodicenne di belle speranze della provincia toscana – di Vinci, per la precisione – che, ormai adulto e maturo, decide di raccontare gli avvenimenti di un’estate particolare della sua vita, l’estate del 1972, l’estate in cui la sua infanzia è finita e in cui tutto è definitivamente cambiato. E da queste premesse, rese ben chiare nella prima pagina del racconto – «Per questo i fatti che racconterò mi hanno così sconvolto […]. Per la prima volta il mondo è arrivato a toccare direttamente, senza filtri – e il mondo brucia, è fuoco vivo, e questo io non lo sapevo» (14) – Gigio comincia a raccontare.
Con la storia di questo giovane protagonista, raccolta nel suo ultimo romanzo, Settembre nero(La Nave di Teseo 2024), Sandro Veronesi ci porta nella Versilia degli anni Settanta. Gli stessi luoghi che avevano fatto da sfondo a Venite venite B-52 (1995), romanzo in cui la più “schiumevole” (aggettivo veronesiano) delle province toscane diventava teatro delle avventure tragicomiche di un gruppo di personaggi smarriti al passaggio dal boom economico ai ruggenti anni Ottanta. In Settembre nero i toni si fanno meno accesi, complice la giovane età del protagonista, e più ordinario è il tenore delle vicende che smuovono la piatta quotidianità di una famiglia che, come ogni anno, si reca in villeggiatura, dove il cronotopo estivo impone nuove abitudini, più esaltanti, ma altrettanto vincolanti di quelle invernali.
Siamo a Fiumetto, frazione di Marina di Pietrasanta, dove i Bellandi ogni anno affittano un piccolo appartamento per poter godere dell’abbonamento stagionale in uno degli stabilimenti del litorale. Il padre, stimato avvocato, frequenta il lido anche d’inverno per prendersi cura della sua amata barca a vela, la Tivatù, e sfrutta la propria passione per la vela per andare a trovare illustri colleghi o esponenti della società professionale fiorentina, in un tentativo laterale di scalata sociale. La madre si limita a prendersi cura dei due figli, Gigio e Gilda, portando in giro la propria bellezza di irlandese trapiantata, che suscita in tutti gli uomini il medesimo sguardo di ammirazione e desiderio. La piccola Gilda, che ne ha ereditato il rutilismo, non può rimanere esposta al sole nelle ore più calde del giorno e obbliga così la famiglia a una routine marinara ben poco entusiasmante (in spiaggia la mattina presto, poi lunghissime ore vuote in casa, infine il ritorno al mare quando le persone cominciano a rientrare). E infine Gigio, che attende l’estate come si attende il tempo dell’avventura e che si ritrova invischiato invece in un tempo statico, alleviato solo dalla lettura di «Linus» e dall’attesa delle imminenti Olimpiadi di Monaco, la sua vera passione. Gigio attende anche Astel, coetanea affascinante, figlia di un ricco maggiorente di Fiumetto e di un’elegantissima donna di origini etiopi, che ha passato alla bambina un’intelligenza guizzante ed estroversa.
È proprio l’arrivo di Astel ad aprire nella quotidianità infantile di Gigio un varco che conduce all’adolescenza, se non proprio all’età adulta, dando avvio a un cambiamento che – alla fine dell’estate – risulterà irreversibile (in una sorta di riscrittura anni Settanta del Giardino dei Finzi-Contini). Gigio scopre, grazie ad Astel, di poter essere brillante e addirittura interessante; anche in virtù del suo bilinguismo, che gli permette di soddisfare la vorace curiosità della ragazza per tutto ciò che è inglese, e soprattutto i testi delle canzoni – Cat Stevens, Led Zeppelin, Procol Harum – che insieme si divertono a tradurre. È così che Gigio fa un’esperienza unica, quella di insegnare qualcosa che conosce per una sorta di sapere innato e che, paradossalmente, impara nel momento stesso in cui la trasmette. Un’esperienza straniante ma che, appunto, apre la porta alla trasformazione.
È questo, appunto, il tenore delle vicende raccontate dall’adulto Gigio Bellandi, che torna indietro con la memoria a quell’estate lontana perché è convinto che attraverso la narrazione, la ricerca di dettagli rimossi o ignorati, possa capire qualcosa di più su di sé. Perché tutto questo racconto ha lo scopo di fare chiarezza, come sempre nei romanzi di Veronesi, che concepisce la narrazione come strumento di confronto e lotta contro il “caos” della vita: ricostruire dettagli e connessioni per cogliere qualcosa che era sfuggito e che invece potrebbe essere decisivo. Ma cosa, esattamente, deve essere spiegato? Cos’è successo di così eclatante in quell’estate, da meritare, a cinquant’anni di distanza, un romanzo intero per ricostruirlo? E qui torniamo a quanto scritto in apertura.
Bellandi è un abile narratore, edotto nell’arte dei cliffhangers, visto che fin dalle primissime pagine aggancia la curiosità di chi legge promettendogli qualcosa di notevole. Veronesi mette al servizio del personaggio la sua prosa disinvolta e imbevuta di Novecento, che mescola l’immediatezza dialettica tipica dei narratori americani con una tenuta sintattica che riporta, piuttosto, al romanzo francese. E così il narratore si dilunga, spiega le premesse, semina sapide anticipazioni, torna indietro, apre parentesi, alterna lo zoom con il campo largo, dettaglia singole giornate e passa a volo d’uccello intere settimane, giocando con tutti gli strumenti narrativi a disposizione, senza ipocrisia e senza reticenze: «E se la storia d’ora in poi subirà un’accelerazione, sappiate che mi sforzerò ancora di rallentarla, di insistere sui dettagli, di recuperare e includere ogni possibile ricordo» (91). Tutto il contrario di quanto ha sempre fatto nei suoi precedenti romanzi, non ultimo Il colibrì (2019), dove il trauma apre la narrazione, che in qualche modo si occupa di ricomporre una crepa apertasi irrimediabilmente.
Anche per questo il lettore si insospettisce: a pagina 212 (di 289) ancora si allude all’«evento» senza però dirne molto, se non per la sua indubitabile entità («Ciò che resta è l’evento che stava per piombarmi addosso – quello resta, brutale e inesorabile proprio come un saccheggio», 212). Già da diversi capitoli le prolessihanno cominciato a scricchiolare, si è intuito che forse il peso della narrazione non è laddove il narratore continuamente lo vuole indirizzare, verso una doppia svolta che da un lato farà crollare il mito sportivo di Gigio – l’attentato terroristico della cellula palestinese “Settembre nero” contro gli atleti israeliani a Monaco, che guasta il sapore delle Olimpiadi viste in televisione, dei record e delle imprese degli eroi collezionati nelle figurine –, dall’altra allontanerà brutalmente e improvvisamente Astel dalla sua vita, per via della misteriosa morte del padre di lei. La detonazione è fragorosa, in un giorno solo smotta la terra sotto i piedi di Gigio Bellandi, facendo crollare ciò che teneva insieme la dimensione privata e la dimensione collettiva, trasformando un’infanzia felice in un’adolescenza quantomeno incognita: «Il resto della giornata orrenda non lo ricordo nemmeno. Giuro. Fu orrenda. Il sangue alle Olimpiadi. Il pomeriggio senza Astel. Il mondo vuoto. Il sole spento. Servì soltanto ad arrivare a sera» (239).
Il trauma brucia tanto rapidamente da portare immediatamente all’epilogo, che sintetizza in una ventina di pagine i cambiamenti e le trasformazioni prodotti negli anni a venire da quel bolo evenemenziale concentratosi nell’estate del 1972.
Ma cosa resta, allora, di questo racconto, di questa storia imbandita, accuratamente preparata e poi brevissimamente chiusa? Cosa resta? Non certo la capacità di intercettare con una storia personale una dimensione pubblica, storica. E lo dimostra chiaramente il titolo, che trasferisce il referente del “Settembre nero” dalla sfera politica a quella tutta privata della vita di Gigio Bellandi: è del “suo” settembre nero che si parla qui. E in questa storia l’attentato di Monaco, i terroristi palestinesi rappresentano solo l’insorgenza di una Storia collettiva che conta meno per le implicazioni politiche (quelle di una lotta di resistenza transnazionale di cui oggi ci sarebbe grande bisogno) che per come ha definito l’immaginario di una generazione, al pari dei mangiadischi, delle vedette sportive o dei gruppi musicali.
Ecco, forse il perno del racconto è da rintracciare proprio qui, nell’immaginario che questo romanzo intende rievocare. La storia di Gigio Bellandi è infarcita di riferimenti alla cultura degli anni Settanta, ai suoi feticci mediali – le riviste, gli album di figurine, le radio – ed è a questi attributi, che sono ben più che elementi di scenografia, che Veronesi sembra affidare il compito di persuadere il lettore, di tenerlo avvinto a un racconto che continua a rimandare e che quando rivela, termina subito. Più dell’Epilogo (quello vero, che prova a tradurre in una metafora un po’ scontata l’idea che da quel trauma, in fondo, sia nata per Gigio una vita nuova e non meno felice di come si sarebbe potuta sviluppare se avesse seguito dei binari regolari), quando chiudiamo il libro ci rimangono impresse le scene di Astel e Gigio che ballano, roteando, al ritmo delle canzoni di cui hanno finalmente compreso il significato; le imprese di Eddy Merckx al Tour de France che Gigio segue alla radio insieme allo zio Giotti. Contrassegni di un’epoca che sta per finire, insieme all’innocenza del protagonista. Lo straniamento provocato dalla cerimonia delle Olimpiadi vista in televisione, per la prima volta in technicolor, è – questo sì – l’anticipazione di uno stravolgimento delle abitudini che farà piazza pulita del mondo di prima.
«Lascio fare il lavoro ai punti esclamativi, perché i colori nello schermo quel pomeriggio erano proprio esclamazioni, di meraviglia e anche di rabbia, almeno per me, perché esser ridotti a doversi meravigliare nel vedere i colori solo perché la televisione in bianco e nero ce li aveva sempre sottratti pareva assurdo» (187).
È quindi, in definitiva, la nostalgia la materia che tiene assieme questo Settembre nero, romanzo in cui Veronesi, che si è sempre distinto per la capacità di stare nel suo tempo, di leggerlo anche in anticipo, si scopre attempato, bisognoso di cercare nel passato le certezze o gli stimoli che con Il colibrì aveva saputo audacemente indirizzare nel futuro (il titolo del suo vecchio romanzo La forza del passato risuona oggi di un nuovo significato). Forse un segno di senescenza. O forse – speriamo –. semplicemente un libro non riuscito.
Sandro Veronesi, Settembre nero, La Nave di Teseo, Milano 2024, 304 pp. 20,00€