Ho conosciuto il cinema di Radu Jude per caso. Anni fa, ho scritto sulla rappresentazione cinematografica del Revenge Porn e, conseguentemente, mi sono imbattuto in Sesso sfortunato o follie porno, girato dal cineasta rumeno nel 2021. La storia ruota attorno a una professoressa di storia in un liceo di Bucarest, alla quale è rubato virtualmente un sex-tape realizzato con il marito. Per questa ragione, i genitori degli studenti ne chiedono la sospensione dall’incarico: una “brava” professoressa non può lasciarsi andare a dirty talk o mettersi a doggy style fingendo di essere una gattina.

Nel film presentato l’anno scorso al Festival di Locarno e ora in sala in Italia, dal titolo a dir poco evocativo, Non aspettarti troppo dalla fine del mondo, la lotta di classe, il confronto sociologico – alias la conferenza genitori-professori – non hanno abbassato i toni. Anzi, hanno aumentato i giri del motore, in combinazione a una messa in scena stordente a livello visivo, iridescente a livello tematico. La trama segue la peregrinazione di Angela (Ilinca Manolache) per la capitale rumena alla ricerca di un protagonista per uno spot dedicato alla sicurezza sul lavoro commissionato da una grande multinazionale. Avviluppato alla vicenda di Angela, Jude mischia le sequenze di Angela merge mai departe di Lucian Bratu, lungometraggio che ritrae un’altra donna, alter ego della protagonista, che fa la taxista nella Bucarest comunista.

Il risultato? Uno delle istantanee più convincenti ed efficaci riguardo le dinamiche di potere nella società contemporanea, tra le fila di un interminabile armamentario di spunti e intuizioni visionarie; contemporaneamente panegirico e critica feroce di un sogno: il marxismo.

Bucarest città martire

La Romania, come molti paesi dell’est Europa, schiacciati tra il Vecchio continente e l’Impero russo, è un paese giovanissimo, in cui l’identità sociale e culturale è tanto tenace quanto frammentata, composita. Un buon esempio è la lingua, il rumeno, una delle più importanti della famiglia romanza (come l’italiano o il francese), che però, come molti idiomi slavi (russo, bulgaro ecc), ha conservato i casi, quelli del latino, nominativo, accusativo… . In epistemologia si direbbe che è un by-product, la sintesi di storie opposte e/o complementari: quella del dittatore Ion Antonescu, a cui è dedicato il film di Jude del 2018 I Do Not Care If We Go Down in History as Barbarians; quella comunista che, post seconda guerra mondiale, ha controllato il paese fino al 1989; quella social-democratica scaturita della caduta del muro di Berlino. Il gioco di Rude, tra l’oggi, la vicenda di Angela, e il passato, quella della taxista, è un riferimento evidente a questa tensione duplice – Bucarest città martire c’è scritto su uno dei cartelli che danno il benvenuto ai turisti.

Credo, tuttavia, che il film non vada scomposto ulteriormente. Con Non aspettarti troppo dalla fine del mondo, l’esercizio analitico di chi guarda, che sia il critico o uno spettatore interessato, non fa differenza, va sospeso. La pellicola va presa nella sua complessità, nell’omogeneità che scaturisce dall’eterogeneità dei mezzi messi in scena. Jude usa di tutto: il contrasto cromatico, cioè il bianco-nero con Angela e i colori pastello con la tassista -; la Bucarest caotica di oggi versus la Bucarest ordinata e tranquilla del comunismo; la rappresentazione deformante dei filtri di Instagram/TikTok versus il brutalismo dei palazzi sovietici; l’opposizione morale, cioè la volgarità di Angela e le citazioni coltissime di cui brulica il film, da Baudelaire a Don DeLillo; la dicotomia tra stasi e dinamica: Angela che sfreccia nel traffico e i rallenty, i fermi immagine che costellano la narrazione visiva del film. Per ultimo, la distinzione etica, che racconta la madre di Ovidius, il ragazzo che sarà selezionato per lo spot pubblicitario, ad Angela: gli uomini sono di due tipi, buoni o cattivi.

Jude lavora come un mediano di mischia, raccorda, cerca, ingrandisce, con lo zoom, come quando lo spinge al massimo fino a pixellare l’immagine e mimare una ricorsa all’atomo, alla scomposizione infinitesimale che porta (l’abbiamo detto) alla non-comprensione: il fenomeno va considerato nel suo insieme. Si susseguono, allora, gli attacchi al regime di Nicolae Ceaușescu, il capo di stato rumeno che prese il potere dopo il colpo di stato del dicembre 1947, al quale Rude aveva già dedicato la sua pellicola del 2021 Tipografic majuscul. Parallelamente, il regista impatta l’ipocrisia con cui le grandi multinazionali affrontano il tema della sicurezza sul lavoro, o, ancora, come quest’ultime sfruttino economicamente i dipendenti (Angela, che più volte si addormenta in macchina ferma ai semafori) e si prendano gioco di loro. Va in scena un teatro dell’assurdo: Ovidius – di cognome fa sta, che in rumeno vuol dire sedere; Ovidio sedere dunque – recita per la campagna di prevenzione, nonostante abbia citato l’azienda per danni, che, secondo lui, è responsabile dell’incidente che lo costringe in carrozzina. 

Processo e castigo

I processi che Jude rappresenta, sia in Sesso sfortunato o follie porno, sia in Non aspettarti troppo dalla fine del mondo, sono kafkiani: incompleti e ingiusti. Come ne Il processo, i protagonisti scoprono di aver già perso, di essere in balia di altri, come lo è la stessa Angela: vittima del traffico, della coprolalia che sfrutta su TikTok e che a sua volta riceve dagli autisti lungo la strada; martire di quel darwinismo sociale che come scrive Capra effluisce dal cinema di Rude. Insomma, meglio chiarirlo, non aspettiamoci molto dalla fine del mondo, ma al contempo, mentre siamo ancora vivi dobbiamo asserire che non siamo ancora pronti a morire.

La sensazione, per capirci, è quella che prova Raskol’nikov, il protagonista di Delitto e castigo, quando poco dopo aver ammazzato a suon di scure l’usuraia (e la sorella), è in trappola, non può scappare, e alla fine ci riesce solo per puro caso. Ecco: in questa società, sopravvive chi fagocita l’altro, chi sfrutta un errore altrui. Lo chiede, in funzione prolettica, anche Angela alla signora Goethe (altro nome parlante), rappresentante della multinazionale arrivata a Bucarest: quando le macchine saranno guidate dall’Intelligenza Artificiale, nel caso in cui quest’ultima fosse costretta a decidere se prendere sotto un passante o far schiantare l’auto contro il muro e conseguentemente uccidere chi vi è a bordo, cosa sceglierebbe?

Ugualmente, incastrati lo siamo anche noi spettatori, nello sfibrante piano-sequenza finale, in cui assistiamo ai numerosi ciak dello spot pubblicitario. Se da lato la diegesi perde d’intensità, dall’altro, i quaranta minuti finali rappresentano il lampo di genio di Jude: imprigionarci, co-stringerci, castigarci, seppellirci – la sequenza sospensiva, apoplettica, di croci cristiane ortodosse sopra le tombe di chi è morto a causa di un incidente stradale nella metropoli rumena.

Jude, con il solito lavoro di editing mostruoso, confeziona uno dei film più entusiasmanti del 2024 (del 2023 in realtà, ma in Italia arriviamo almeno un anno dopo). Ha portato in scena il caos degli stimoli distali che esperiamo, nell’ennesima contrapposizione del film, tra la lentezza (del taxi) di ieri, e l’iper-produttività contemporanea, in ogni ambito, industriale, culturale, emotivo-relazionale. È necessario, dunque, prendere le distanze da ciò, correre all’indietro: una delle sequenze più belle del film, è la riproposizione della fulminante carrellata all’indietro della pellicola di Bratu, che si allontana dall’amato che, crollato il muro, deve tornare in Bulgaria.

La corsa a ritroso di Non aspettarti troppo dalla fine del mondo rallenta sì lo scrolling compulsivo di TikTok, ma non ne banalizza l’intensità. TikTok resta uno dei mezzi espressivi del nostro tempo e la sua metà-rappresentazione nel film è azzeccatissima: il reale e l’irreale si confrontano, il passaggio è velocissimo, dalla realtà alla para-realtà. Come Gianni Celati (in Il transito delle parole, Quodlibet, 2022) diceva che la lingua di Joyce era una stralingua, analogamente, il cinema di Jude è uno stracinema, fatto di guizzi e intercapedini, in cui decanta ciò che di umano ancora sopravvive.