Esistono tracce della dittatura fascista che ancora oggi riguardano l’arte, l’architettura, l’urbanistica, le iconografie, gli immaginari. E con cui ci ostiniamo a non voler fare i conti nel presente, nonostante i valori violenti e razzisti che esprimono. Mai come oggi allora, e a dispetto della scarsa percezione di necessità che questo tema suscita nel grande pubblico, è importante mettere in luce queste tracce, riflettere su come le impronte del fascismo storico e del colonialismo continuino ad abitare la nostra quotidianità, a modellare gli spazi urbani e gli immaginari, a influenzare i modelli di fisicità e i ruoli di genere. In buona sostanza, a rappresentarci culturalmente. Il tema delle cosiddette “eredità difficili” è ampio e delicato nel suo intrecciare memoria, Storia e narrazione. Ne parliamo con Viviana Gravano, storica dell’arte, curatrice, docente all’Accademia di Belle Arti di Brera, a partire dal suo ultimo libro Di-scordare. Ricerche artistiche sulle eredità del fascismo in Italia (DeriveApprodi, 2024). Sulla scorta della lezione di Enrico Crispolti, cui non a caso è rivolta una dedica in apertura, Gravano muove da una prospettiva militante che interpreta la critica d’arte come attività dal valore politico e civile. Il suo posizionamento è dichiarato e rivendicato nel suo essere agente, senza nessuna ingenua velleità di oggettivismo o imparzialità. La storia dell’arte e la museologia si sono approcciate al periodo fascista interpretando una specie di paradigma assolutorio in cui le analisi critiche hanno scelto di prescindere dal significato simbolico delle opere d’arte per concentrarsi sul valore formale ed estetico delle opere, permettendo così – scrive Gravano – «di eludere l’adesione concettuale, più o meno forzata ma di fatto esistente, degli artisti e delle artiste alla dittatura». E che ha facilitato, certo insieme a molti altri fattori, l’imporsi di una tendenza revisionista. Il saggio allora ci introduce innanzitutto allo stato dell’arte sugli studi che riguardano i processi di costruzione e di performatività della memoria, della memoria del trauma in particolare. Attraversa brevemente l’esperienza tedesca facendone uno spazio di contesto e di rincorsa per un’approfondita immersione nel contesto italiano, cui è invece dedicato un lungo capitolo in cui emerge tutta la capacità tentacolare del passato di continuare a contaminare il presente, e la necessità di immaginare e istituire pratiche di rammemorazione attiva, condivisa, comunitaria come antidoto all’oblio e, forse ancora peggio, all’uso pubblico della storia come strategia politica.
Viviana, di che cosa parliamo quando parliamo di «eredità difficili»?
VG: Quando si tratta di fenomeni che ormai hanno una storicizzazione abbiamo la sensazione che siano relegati al passato, che li si possa studiare come una materia consumata, morta, che appartiene a un altro tempo. Sharon Macdonald, una grande studiosa di memoria, ha formulato la dizione di “difficult heritage”: eredità che seppur fanno riferimento a un passato anche remoto, lasciano ancora tracce importanti nelle comunità, condizionandone la vita. Parliamo del fascismo non per ossessione ma perché quel passato purtroppo ancora produce oggi degli effetti molto importanti per la nostra comunità nazionale e per i paesi che abbiamo colonizzato. L’Italia è un paese che queste tracce non le ha mai affrontate, dal Dopoguerra le ha rimosse e nascoste, in maniera colpevole a mio parere. Il libro è nato da una necessità di provare a svelarle. Ci siamo sempre raccontati (più che giustamente e con grande onore) come il paese della Resistenza, ma non ci siamo mai raccontati come il paese della dittatura e dei perpetuatori. Questa rimozione, dal punto di vista culturale, ha fatto sì che molte delle istanze, delle iconografie, delle immagini, di modalità quotidiane come modi di dire e gesti del fascismo siano stati “innocentizzati”, e oggi risorgano in maniera forte e violenta.
Che ruolo hanno avuto in questo senso l’arte e la museologia?
Un ruolo importante. Mussolini ebbe un atteggiamento verso la cultura molto diverso rispetto a Hitler o ad altri dittatori come Salazar o Franco. Capì subito che l’Italia era un paese con una grande radice culturale, e che inimicarsi gli intellettuali e gli artisti sarebbe stato un errore, l’unica forma di opposizione per certi versi. Tranne rari casi (basti citare Gramsci), ha cercato di inglobare intellettuali e artisti nel fascismo. Alcuni in maniera servile, altri in maniera collaterale. Nel Dopoguerra era difficile trovare artisti e intellettuali non compromessi con il regime. C’è stato una sorta di indulto culturale, oltre a quello “reale” di Togliatti, e sono tutti rientrati ai loro posti senza una minima critica.
Com’erano le mostre del Dopoguerra sull’arte prodotta durante la dittatura fascista?
Gran parte di queste hanno “defascistizzato” il fascismo, parlando di quell’arte come se non fosse davvero un’arte di regime, e proponendo l’idea che il fascismo non aveva prodotto una vera cultura fascista, che è un falso storico totale. Ci sono delle dichiarazioni chiarissime dei novecentisti italiani, scrivono che fanno un’arte fascista e che ha un valore simbolico. Possiamo non condividere quei valori portatori di una filosofia violenta e razzista, ma questo non vuol dire che non fosse una filosofia e che non fosse arte: anzi, hanno proposto la propaganda del regime con grande audacia e capacità. Fino agli anni Ottanta, ed escluso Fabio Mauri, gli artisti non hanno mai parlato di quel tempo. Quindi nell’immaginario – e l’arte è tra i più grandi produttori di immaginari – c’è un’idea del fascismo poco chiara. Anche dell’estrema violenza del colonialismo italiano non si sa nulla.
Nel libro definisci la memoria come «luogo dell’immaginario collettivo». Che tipo di memoria si è prodotta (o non si è prodotta) allora rispetto quel tempo?
Una memoria falsata direi. Un esempio. Abbiamo avuto tante stragi nazifasciste dopo l’8 settembre, in cui i fascisti hanno avuto un ruolo fondamentale. Per queste stragi non sono mai stati fatti dei processi perché non si sono mai trovati i documenti. Poi un giorno un solerte impiegato del Ministero degli Interni trova questo armadio con gli sportelli rivolti verso la parete [il cosiddetto Armadio della vergogna rinvenuto nel 1994, ndr] con tutti i documenti dettagliati di tutte le stragi di civili del periodo 1943-1945. Penso che questo armadio sia la metafora di come ci siamo posti: abbiamo chiuso tutto con gli sportelli verso il muro, e quindi quella memoria è rimasta là. Tutti sapevamo che quelle cose c’erano state, ma nessuno poteva dimostrarle. Abbiamo messo in atto una rimozione in cui le cose però hanno continuato a camminare, come un fiume carsico sottoterra.
Che poi finisce per riemergere.
Un esempio “banale”: il saluto romano. Guarda caso, hanno adottato quel gesto tutti i movimenti che hanno cominciato ad avere una valenza violenta, e spesso fortemente misogina, con un modello di mascolinità machista e tossica. Non è che poi tutti i ragazzi che lo fanno sono fascisti, ma adottano quel gesto perché non è stato mai criticizzato per il valore che ha avuto. C’è un artista che si chiama Giovanni Morbin che ha lavorato su quel gesto e ci fa capire perché un gesto non è solo un gesto ma ha un valore simbolico e iconografico fondamentale.
In che modo queste “sopravvivenze” riguardano anche i corpi e la persistenza di una concezione fortemente codificata dei ruoli di genere? Penso a una certa idea di fisicità maschile, al “posizionamento” del femminile nella dimensione privata a pubblica.
Qualsiasi forma di potere, specie se autarchico, si impone sui corpi in maniera determinante. Non a caso tutte le dittature moderne dell’inizio del XX secolo hanno disegnato un modello fisico, specie per le figure maschili, che serviva allo stesso tempo a creare un immaginario machista e a stabilire regole di comportamento funzionali al regime. Non a caso le famose attività ginniche imposte ai Balilla erano definite chiaramente come la premessa alla formazione militare degli uomini; essere ottimi ginnasti, atleti, serviva a fortificare quei corpi che sarebbero poi serviti nelle battaglie per la patria. Non a caso invece l’educazione ginnica femminile mirava alla atleticità, ma con l’orizzonte della grazia e della femminilità stereotipica. Mussolini stesso incarna alla perfezione quel modello maschile e scolpisce il suo corpo, testa compresa, e la sua gestualità, perché indichi forza, potenza, violenza e perentorietà. In tutte le occasioni pubbliche non a caso fa lunghissime pause tra un enunciato e un altro e prende pose che ormai tutti/e conosciamo: mascella volitiva, mento verso l’alto, gambe larghe e mani sui fianchi. Una mostra molto interessante, una tra le pochissime nel dopoguerra, curata dallo storico dell’arte Giorgio Di Genova nel 1997, dal titolo L’uomo della provvidenza. Iconografia del duce (1923-1945), raccontava in modo esemplare come la ritrattistica dedicata al duce fosse un modo per disegnare non solo lui ma il nuovo “italiano,” naturalmente fascista. Quando oggi ci chiediamo, a mio parere troppo poco spesso e con poca profondità, come mai il modello maschile italiano produce tanta violenza di genere, ci dovremmo rispondere che intere generazioni sono state allevate nella mascolinità tossica, che è una delle eredità “invisibili” che il fascismo ci ha lasciato.
Eppure si sente ripetere che il fascismo è morto, che appartiene al passato, che i conti con quel periodo sono fatti: qualsiasi recrudescenza di quella cultura è derubricata a occasionale, come non facesse parte di una tendenza che attraversa la contemporaneità.
Dire che in Italia il fascismo sia morto è davvero difficile, con tutti i gruppi che si rifanno in maniera molto esplicita a quel tempo. La questione non è cosa è stato il fascismo, ma cosa è adesso. Cosa si porta dietro quella storia. C’è uno studioso che si chiama Luciano Cheles, ha scritto un libro che mi è piaciuto moltissimo, si intitola Iconografia della destra. La propaganda figurativa da Almirante a Meloni. Lui ha preso tutta l’iconografia dal Movimento Sociale Italiano a Fratelli d’Italia e ne ha trovato le fonti nel regime. Ed è così: tutte le fonti iconografiche, discorsive, gli headline, gli slogan, addirittura le posture fisiche dei personaggi della destra italiana dagli anni Cinquanta a oggi sono ispirate a quel tempo.
Anche l’urbanistica e l’architettura pubblica avrebbero di che raccontare. La città di Bergamo, per esempio, continua a celebrare Antonio Locatelli, personaggio che la storiografia riconosce come criminale di guerra. Tuttavia sul portale turistico della città (e su quello dei beni culturali della regione Lombardia) è definito ancora “eroe cittadino”, il suo nome intitola vie, scuole, un ospedale, la sezione cittadina del CAI. C’è il Palazzo della Libertà (ex “Casa del Fascio”) con la dedica a caratteri cubitali sulla facciata e l’enorme affresco celebrativo all’interno. Un busto di Locatelli troneggia nella Torre dei Caduti, a lui è dedicato un monumento in posizione nevralgica all’ingresso di Città Alta. In una lettera alla madre, scriveva dei civili etiopi bombardati: «saranno sgominati, sterminati e se vorranno resistere correranno il rischio di morire di fame. Sai che non possono muovere un autocarro senza che noi lo sappiamo e lo bombardiamo? Insomma un divertimento unico…».
Il discorso sull’architettura riguarda ancor più da vicino ciò che chiamiamo “eredità difficile”, ovvero la quotidianità, tutto ciò che ci fa dire «vabbè ma cosa cambia se passo sotto un monumento fascista oggi, chi se ne importa». Anche per questo non possiamo dire che il fascismo è morto: si è continuamente riprodotto. Mussolini diceva che a lui sarebbero sopravvissute la sua capacità di comunicazione e l’architettura. Ed è quello che è accaduto. Viviamo in ambienti ancora segnati dall’architettura fascista, e continuiamo a usare modelli comunicativi che vengono da quel tempo. Ormai malcelati, perché sono emersi in maniera drammatica.
Certe cose sono difficili da nascondere ma più facili da ignorare, evidentemente.
In università faccio spesso vedere un’immagine della ex cancelliera Merkel che propone la candidatura di Berlino per le Olimpiadi 2024 con un ritratto di Hitler che fa il saluto sullo sfondo: i ragazzi naturalmente colgono l’assurdità della cosa, il mio fotomontaggio. Poi passo alla fotografia dell’ex presidente Renzi che propone la candidatura dell’Italia, con alle spalle il grande affresco che celebra Mussolini e il fascismo [Apoteosi del fascismo, di Luigi Montanarini, ndr] nella sala d’onore del CONI, luogo di rappresentanza dell’Italia per lo sport a livello mondiale. E questa volta la fotografia è vera. E allora chiedo ai ragazzi: perché questa immagine non suscita lo stesso sdegno che suscita Hitler alle spalle di Merkel?
Che fare, quindi? Quando si parla di rimozione, spostamento o risignificazione c’è sempre chi parla di una presunta “cancellazione” della storia e del passato, ed è una posizione che mi pare maggioritaria.
È un tema che aleggia molto intorno al mio libro. Molti, anche della cosiddetta area progressista, si oppongono all’idea del “cancellare”. Io non parlo mai di cancellare nel mio libro. Il tema non è cancellare, l’Italia ha già cancellato fin troppo. Penso però che ci siano alcuni oggetti nel nostro paesaggio che hanno una rappresentatività dello Stato che è imbarazzante.
Per esempio?
L’obelisco con scritto “Mussolini Dux” all’ingresso del Foro Italico, il luogo dove noi ospitiamo gli atleti di tutto il mondo, atleti neri, ebrei, dai paesi che sono stati vittime della nostra colonizzazione: entrano tutti nel luogo che dovrebbe essere dell’interculturalità, dove si dovrebbe trovare un’unione attraverso lo sport. Trovano invece un obelisco che celebra un dittatore. Oppure l’affresco nella sala d’onore del palazzo del CONI cui accennavo, sempre al Foro Italico. O ancora, il dipinto di Sironi nell’aula magna dell’Università di Roma, lo stesso di fronte al quale professori ebrei e oppositori politici venivano prima cacciati dall’università e poi deportati nei campi di sterminio.
L’equivoco di fondo è forse considerare i paesaggi urbani come spazi storiografici, quando si predispongono, in realtà, come spazi in cui si articolano delle narrazioni. Il tema non è quindi “cancellare la storia” ma intervenire, in qualche modo, su una narrazione. Quali pratiche si possono mettere in atto che non siano “calate dall’alto” ma espressione di un’agency collettiva, comunitaria, che parte dal basso?
Il processo che a me interessa moltissimo è la “risemantizzazione”, e in questo senso mi interessa più la narrazione che la Storia. Prima di tutto perché penso che la Storia siano le storie, tante e non una. E che la narrazione sia qualcosa che, in qualche modo, può essere sempre rivisitata e ridiscussa. Non per forza poi eliminiamo tutto, in alcuni casi anche, perché penso sia proprio un dovere morale. In generale quello che possiamo fare è prima di tutto affidare questi luoghi complessi agli artisti e alle artiste contemporanee: attraverso la consultazione con le persone, le comunità e gli enti che conservano la memoria dei luoghi possono trovare delle soluzioni.
Il caso del Museo-monumento al deportato politico e razziale è emblematico in questo senso…
Gli strumenti per ridiscutere e contestualizzare luoghi e monumenti sono tanti, c’è una letteratura amplissima ormai. Lo dimostrano la Germania e Berlino, la Spagna con Franco, l’Argentina, la Colombia. Tanti adottano tecniche artistiche per risignificare i luoghi con un portato estremamente violento. In Italia non c’è la volontà di farlo, perché nel farlo ci dobbiamo dire che siamo stati un paese con una dittatura: per risemantizzare dobbiamo dare a quel tempo il peso che davvero ha avuto.
Cosa ci dice tutto questo di fronte alla “fame” di egemonia culturale dell’attuale governo, al suo risolversi in una specie di “presa di possesso” delle istituzioni culturali del Paese, scuola pubblica inclusa?
Vorrei dire, permettimi in maniera un po’ arrogante, che la situazione attuale conferma quello che dice il mio libro, e ben prima di me molti/e studiosi/e, in primis Ruth Ben-Ghiat: esiste una cultura fascista. Questa cultura propone valori retrivi, conservatori all’ennesima potenza, spesso addirittura anticostituzionali, ma questo non nega il fatto che esista e che abbia una sua coerenza e una sua efficacia. Fenomeni politici diversi, sempre ascrivibili all’area neo-fascista, come la Lega Nord ad esempio, non hanno investito in un immaginario culturale, o per meglio dire hanno proposto una cultura “della strada”, cioè assunti massimalisti, come ad esempio il razzismo. Ma il loro leader, Salvini, ha quasi fatto un vanto di una certa ignoranza, un po’ come ha fatto Trump negli USA, per attrarre le masse purtroppo ancora poco istruite e aggiornate, che possono così identificarsi. Ma la nuova vera destra italiana, erede diretta del fascismo, che è rappresentata da Fratelli d’Italia, investe in cultura, occupa in maniera massiccia i luoghi della cultura. Il governo sta cambiando tutti i vertici di tutte le istituzioni culturali in Italia, dalle direzioni dei musei nazionali alle commissioni ministeriali per le arti performative, alle commissioni per le sovvenzioni annuali agli/alle artisti/e. Anche per imporre una visione chiara, nitida, che è quella di un “ritorno all’ordine” della cultura. Chi viene messo in questi luoghi apicali di gestione e direzione spesso non è affatto impreparato/a o incapace: impone una visione retriva, impostata su valori molto pericolosi, ma non per questo meno “colti”. So che è difficile capire la differenza, ma c’è ed è essenziale. Come per il fascismo a suo tempo, la cultura è stata uno dei modi essenziali per imporre la propria visione del mondo. Insomma, per fare una battuta, mentre Salvini ballava in maniera sguaiata al Papeete, la Meloni propone Ministri della Cultura apparentemente solo imbarazzanti ma che invece sul piano operativo parlano, teorizzano e agiscono con grande autorevolezza. Che ci piaccia o no, che siamo o no d’accordo con le loro visioni “passatiste”, sanno usare la cultura maneggiandola come un’arma che conoscono bene.
Viviana Gravano, Di-scordare. Ricerche artistiche sulle eredità del fascismo in Italia, Derive Approdi, Roma 2024, 368 pp. 23,00€