Una premessa

Sempre in barba al buonsenso (Agenzia X 2024). Non è solo il titolo della raccolta di racconti con cui Carlo Massimino ha fatto il proprio esordio questa primavera. È anche la sintesi di un atteggiamento nei confronti della letteratura (o della vita) senza il quale è impensabile, oggi (ma anche ieri) esordire con una raccolta di racconti.

“Uno degli esordi italiani più originali e viscerali” secondo Christian Pastore, il primo libro di Massimino ha “parenti illustri”, scrive Luciano Funetta, eppure “è sola al mondo e non somiglia a nessuno”. L’ultima volta che ho letto questa frase, a parlare era Italo Calvino di Felisberto Hernandez, maestro di Cortázar e di Garcia Marquez.

Peggio di una stroncatura, si direbbe, c’è soltanto un enorme attestato di merito come questo. Hic Rhodus, hic salta, dunque? Mah. Certo, come diceva qualcuno, “il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista”. Ma scommetterei che Massimino si saprà portare dietro pure questi elogi; lui che, al suo personaggio-totem, Liberti Valerio, ha saputo affidare – come, al tempo, John Ford a Lee Marvin – la difficile metafora dell’utopia quando comincia a scolorare: “una vita guerresca e rambalda [sic], condotta con sprezzo sempre in barba al buonsenso”, conclusa violentemente come “un funebre atto di fedeltà al passato”, “una volontaria immersione nella sconfitta” (L’uomo che uccise Liberti Valerio).


Un esempio

Quando, nell’autunno del 2020, ho ricevuto quello che sarebbe divenuto il primo testo della raccolta (Una fine miserabile) mi è stato subito chiaro. Milanese, classe 1993 (segnatevelo: cent’anni dopo Carlo Emilio Gadda), mi stava catapultando in una versione… marcescente? Pulp? Cannibale? della stessa città in cui l’Adalgisa, al termine delle peripezie corali di una meneghinità sublime e abietta, lucida il sedere di una statua parlando da sola. C’è da dire che Massimino ci ha messo del gran suo per instillarmela, questa idea.

Vi sto dicendo che se c’è una cosa al mondo di cui sono sicuro, una sola, è che Carlo Emilio Garra detto il Faina non sarebbe mai passato dal Corvetto, per nulla al mondo. Passare da quelle parti, diceva, gli metteva sete. E se c’era una cosa che il Faina proprio non sopportava, quella era la sete.

Non voglio togliere a nessuno la soddisfazione di aggirarsi per queste dieci storie. Ma ci sono alcune scene, nella prima, che mi sembra funzionare come mise an abyme dell’intero libro. È quando la voce narrante – un giornalista in canna sulle tracce della “fine miserabile” del Carlo Emilio – incontra Mary Lou, la sua sposa bambina.

Massimino mescola come distrattamente hard boiled e weird, in un crescendo di allusioni. La fantasiosa Atalanta di “Mazzoleni-Barenghi-Cantalupi-Garra”, dove ciò che conta, insieme alla sorpresa di trovare il “miserabile” tra quelle fila, è la litania radiocronistica d’antan; o, ancora, la vera e propria hall of fame della narrativa italiana del Novecento attraverso la quale chi dice io si addentra nella propria ricerca.

Dino Buzzani detto Il Siciliano, frequentatore del Bar Varnelli; Cesare Pavani aka Lo Squamato, “barista taciturno e di simpatie bordighiste“; il “signor Landolfi“, nano precettore di Mary Lou; e, ovviamente, il grigio figuro con indosso un completo fuori moda e una spilletta rosa con una rosa al centro, “Franco Fortelli“.

Anche se non sono queste – sia detto per inciso – le devozioni più evidenti della scrittura o delle idee di Massimino, tali figure recano un enorme omaggio e, insieme, un cupissimo presagio. In fondo a questo corridoio quasi videoludico sta infatti la “fine miserabile” del titolo; da cui l’enorme e implicito trigger warning: mai confondere la letteratura con la vita.

Quando, circondato da una “cortina di miseria“, il Nostro sale infine sulla giostra panoramica con Mary Lou dopo il funerale del Faina, il lettore di Massimino riesce finalmente a scorgere in un colpo d’occhio la spazialità che fa da sfondo (ma direi quasi da personaggio) alle 231 pagine del libro.

Non si vedono che “grattacieli e palazzi immensi, una folla minuscola e brulicante [che] si affaccendava per le strade polverose, colonne di fumo nero dai tetti, latrati e piscio fra i vicoli”; davanti a loro appare solo la «miseria», per l’appunto; ossia la «lordura» che riempie le strade della città, il «dolore» che insozza il mondo. È lì che chi dice io si sente “felice, in alto nel sole”; ed è lì, in quel luogo (e a quell’altezza) che, incalzato dalla bimba, ha inizio la sua “fine” (pp. 31-2).

Massimino sembra assistere alle proprie storie dalla stessa altezza, “come in teatro od in agone”, posseduto dalla stessa, seducente Musa miserabile


In barba al buonsenso

Tra Piazzale Corvetto e Via Novara, punx alla ricerca di denaro per sanare i loro debiti idroponici diretti dove termina l’arcobaleno (La pentola d’oro) e nobili genie di picchiatori messi spalle al muro dal grigiore della vita quotidiana (Due montanti della madonna), ladri-impareggiabili-sornioni-rubacuori prossimi all’exploit finale (Breve ma inevitabile encomio di Penny Duchamp) e disperati erotici al guinzaglio per capriccio o fedeltà (Per lei coyote), Massimino ha voluto essenzialmente raccontarci l’ultimo sussulto mitico di un’epica (e di un’epoca) al suo termine.

Cos’altro ci vogliono dire, questi “uligani dangereux” stirati sulla circonvallazione (L’uomo che uccise Liberti Valerio), questi bildungsroman in salsa hardcore tra gigantesse, navi-scuola, amanti dei dolciumi e gangbang con i calciatori della primavera sampdoriana (Intensità), se non che un mondo è inabitabile soltanto se ci si convince che non può accadervi nulla dentro?

Massimino, voglio dire, fa (bene) una cosa che nessuno (o quasi) ha osato fare, negli ultimi anni. Ha dato, cioè, voce e credibilità a un mondo incredibile, nel quale iperviolenza e tenerezza convivono senza stridore, popolato di un’umanità improbabile e verissima, in una città concreta e onirica, che non si può mappare e dove quindi è nuovamente il firmamento a tracciare la carta delle vie accessibili e da battere. 

Nato non soltanto a un secolo dal Carlo Emilio illustre, ma anche l’anno successivo al noto saggio di Francis Fukuyama sulla Fine della storia e l’ultimo uomo, di questa impossibilità di operare nel mondo Massimino ha una coscienza che definirei (in ottemperanza a certe affinità politico-esistenziali) agitata o diffusa.

In un’epoca che tanto poco crede che qualcosa di diverso (e, possibilmente, di migliore) sia possibile, questo esordiente ha scelto, coerentemente, di lavorare con particolare accanimento sulle più desuete e senescenti delle categorie narratologiche: gli spazi e i personaggi, per l’appunto. 


Il libro, il mondo, la storia

È un discorso molto lungo, ma che taglio con l’accetta. Qui, dove “mondo” e “storia” sono infinità spietate, Massimino ha avuto la rara grazia di tornare a raccontare non dalle rovine della lingua o della partecipazione attiva all’esistenza di una collettività, ma dal punto che precede di un istante il suo disfacimento

È, peraltro, da questo luogo (topico ma anche noetico) che Massimino sembra aver maturato l’intenzione di imbracciare la lira e cantare. C’è stato altro da fare, prima, che non scrivere; e, se letto in questa prospettiva, il libro sembra chiederci se possa esserci un dopo.

Anche qui, l’immagine centrale è incastonata in un racconto, La pentola d’oro. Quella, cioè, del debito più greve e materiale (“mezzo chilo di fumo”) saldato da tre punk male in arnese con la più incredibile delle trovate (la leggendaria pentola d’oro al termine dell’arcobaleno). Ma a che prezzo? forse meno alto, certo più insidioso o avvilente, Albino, Polonio e Il Coglione vanno incontro – non dissimilmente dai picchiatori di Due montanti della madonnaal cupo termine dell’utopia, presentendo che la loro pazza storia e anzi il loro intero mondo (come accade anche nell’Encomio di Penny Duchamp) sono giunti ormai all’ultimo giro di valzer:

Polonio toglie la pentola dal raggio d’arcobaleno, questo muore, cessa all’improvviso. Per un istante smette di piovere, ma giusto qualche secondo, prima che le nubi si riaddensino, più cupe e grevi di prima, e con loro una violenta tempesta si affaccia sul bosco. I tre si riparano sotto a un albero, e ne approfittano per esaminare il contenuto. La pentola è in rame, di dimensioni da risotto, e ha un coperchio col manico. Quando Polonio lo solleva, quasi sviene. I tre, divorandolo con lo sguardo, trovano dentro proprio ciò che si aspettavano: un luccichio sfavillante di centinaia e centinaia di monete d’oro da duecento lire.

Polonio – il nome di uno dei tre punk – può ricordare l’Amleto shakespeariano. È invece, e pressoché esplicitamente, un omaggio alle Scimmie di José Revueltas (1969). Oltre alla galleria di devozioni espliciti, tra queste pagine l’autore ha spesso strizzato l’occhio ai solutori più che abili, invitandoli a percorrere una specie di gincana che da Lenin passa per Polanski e arriva a De André o Pazienza.

Ma attenzione: la caccia ai suoi riferimenti non si risolve in un’estasi post- o iper-moderna. Non è, in altre parole, il segnale di un “sistema passante“, un nobile intrattenimento. E si rivela ben presto, come qualcuno una volta ha saputo dire meglio di quanto io non possa, il latrato di una mancanza.

La Milano di Massimino è forse il punto più alto di questa mancanza. Una città in bianco e nero, da lutto ambrosiano, e insieme multiforme, da fantasia sudamericana (e fino a qui, diremmo, Gadda). Ma c’è una dimensione ulteriore, che è quella della Francia ariostesca, della langa fenogliana. È, voglio dire, il luogo insieme orizzontale e verticale, labirintico e disteso all’infinito come prateria d’asfalto, in cui ogni gesto torna raccontabile benché falsificato da principio. Anzi, perché falsificato da principio.

Il faro estetico di queste storie, del resto, è quello di un tempo perduto senza veli di malinconia o tristezza, dove della lira (la moneta, questa volta) vige ancora il conio, e occorre chiedere ai passanti indicazioni per raggiungere, che so, la casa di una Gigantessa nei campi dietro Chiesa Rossa.


In conclusione

Sempre in barba al buonsenso porta in dono la “mercatanzia” più rara; ossia l’esuberanza, un filtro che restituisce a tinte fulgide e sgargianti quanto prima era soltanto tetro. La città è ancora la nostra, questi volti li riconosciamo. Popolano le chanson de geste minute di ogni età, tanto più universali quanto più sono particolari e irripetibili. Dove la vita è forse meno semplice, ma finalmente resa ai suoi colori dall’incanto di una lingua “semplice” nel senso celatiano, e soprattutto affabulante.

Eppure Massimino, in questa sua mitopoiesi, instilla tuttavia anche un’impazienza. Non accontentatevi di questa ricomposizione letteraria, sembra dire, se la materialità dei vostri giorni non ne reca traccia. Mettetevi, piuttosto, a ricercarla. Se possibile, fatelo insieme.


C. Massimino, Sempre in barba al buonsenso, illustrazioni di M. Mosca, Agenzia X 2024, 238 pp., €12.


in copertina: foto di Catherine Kay Greenup su Unsplash.