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Alta fedeltà: i consigli musicali della Balena Bianca

Forse quello che rende stancante per molti il periodo delle feste è l’assenza di scelta. Non si scelgono i parenti con cui trascorrere interminabili cene e pranzi. Non si sceglie l’ora in cui andare a dormire, schiavi di tombole senza fine o di aneddoti di dubbio gusto di zii ubriachi. Non si sceglie, spesso, nemmeno cosa mangiare, ancora succubi di veti religiosi dalle radici lontane.
È per questo che la redazione della Balena Bianca, in programmatica contro-tendenza, offre consigli musicali che della scelta ampia fanno da sempre il proprio cardine. Dal punk-rock al folk, dal disco-funk al celtic rock al goth.
C’è solo da mettersi comodi e godere del privilegio del libero arbitrio.

[Il disegno in copertina è di Massimo Cotugno]


Osees, SORCS80 (2024) – Mattia Ravasi

Il ventisettesimo album degli americani Osees (precedentemente noti come Thee Oh Sees, Oh Sees, e ulteriori variazioni) sembra uscito da un romanzo di fantascienza psichedelica di Brian Aldiss o Philip K. Dick. Il prodotto di una realtà alternativa, o di un futuro primitivo a un tempo tribale e post-umano. Si tratta di un disco punk/garage rock interamente privo di chitarre, le cui melodie sono bensì costruite tramite sintetizzatori e campionatori percossi brutalmente, e lacerate da frequenti assoli di sax. Se l’idea pare sospesa tra la decostruzione e l’avanguardia, il risultato è tutt’altro che cacofonico: buona parte dell’album è anzi assai accattivante, con un’andatura sbarazzina e trascinante tipicamente new wave. Esplosivo a tratti ed atmosferico altrove, SORCS80 è un’iniezione di adrenalina consigliata sia agli appassionati della band, sia a chi li scopre per la prima volta.


Nick Wheeldon & Friends, Make Art (2024) – Giulia Sarli

A nove mesi dall’uscita del suo album precedente, Waiting For The Piano To Fall, Nick Wheeldon firma un nuovo doppio disco di 16 canzoni, Make Art, in cui il folk cadenzato dal fingerpicking si apre a influenze jazz, soul e rock d’antan. Per ogni nuova uscita Wheeldon, originario di Sheffield ma trasferitosi a Parigi nel 2012, sceglie di cambiare gruppo. Così Make Art, firmato Nick Wheeldon & Friends, vede la collaborazione di Julien Ledru alla chitarra, Thomas Carpentier al violino, Laurent Rigaut al sax e Sébastien Adam al piano. La settima traccia ha titolo “I Found A Home”. Ed è così che ci si sente ascoltando Make Art: accolti in una casa che è facile fare nostra – per i richiami a una tradizione che vede la chitarra acustica nel ruolo di protagonista; per una vocazione all’ascolto lento, in cammino o in macchina per un giro senza meta; per una sua, diffusa, dolcezza. A me il fingerpicking ricorda la pioggia. Se anche a voi piace la pioggia e se siete, come me, persone lente, avete 16 tracce in cui cullarvi durante le vacanze di Natale.


Fontaines D.C., Romance (2024) – Alex Ford

Quando un gruppo di cinque dublinesi a malapena ventenni ha debuttato con un post-punk a percussioni ruvido-ma-lirico nel 2019, con l’album Dogrel, nessuno avrebbe immaginato che, cinque anni e tre dischi dopo, i Fontaines D.C. avrebbero avuto il mondo ai propri piedi, andando in tour con gli Arctic Monkeys e battendosela con Taylor Swift per la testa delle classifiche mondiali, distratti solo dalla difficile scelta tra la mezza dozzina di sicure hit del loro ultimo album da distribuire come singoli. Romance è un piccolo miracolo di album, che riesce a mantenere intatta la diretta e autentica “irlandesità” del gruppo – manifesta sia nell’attenzione a questioni sociali contemporanee che in una sensibilità alle tradizioni poetiche del passato – e al tempo stesso crea (molti) inni pop in grado di parlare a un pubblico globale. “Starbuster”, “Here’s The Thing”, “In The Modern World”, e la gloriosa “Favourite” sono tutte apertamente dirette a un pubblico che i Fontaines D.C. conoscono molto bene: le persone che sono proprio, beh, proprio come erano loro stessi. Nel mezzo, c’è posto per riferimenti a James Joyce (“Horseness Is The Whatness”) e al cinema italiano e giapponese. Ma in fondo sono gli inni a prevalere, nel desiderio di connettersi alla propria generazione e con il trucco, nel farlo, di adattare gli idiomi del pop. La citata “Favourite” fa uso persino dello spirito del celtic rock, mentre “Bug” combina la logica del tormentone col bisogno di parlare a e per un pubblico di coetanei: «Will you apologise / For the remainder of your life?» [Chiederai/chiederete scusa / Per il resto della tua/vostra vita?], chiede il cantante Grian Chatten. Ovviamente no, perché dovremmo? Perché si dovrebbe? Se quello che chiedi alla musica pop è che ti faccia sentire bene senza farti sentire stupido, passa a trovare i Fontaines D.C.


Ulver, Liminal Animals (2024) – Massimiliano Cappello

Si nutrono dei nostri resti, vivono nei pressi delle nostre case, non si possono (tendenzialmente) addomesticare: sono questi, gli “animali liminali” ai quali gli Ulver hanno intitolato l’ultima fatica, uscita lo scorso novembre per House of Mythology? Al termine dell’anno più difficile della loro storia, Liminal Animals è il tredicesimo disco di questi poco liminali “lupi”, fari della sperimentazione musicale da trent’anni a questa parte, capaci di transitare con grazia impareggiabile dal black metal al trip-hop. La band norvegese approfondisce, con quest’ultimo lavoro, sonorità più propriamente disco-funk, già riportate in auge (ai tempi in cui si dedicavano allo scream e al blast-beat – dai Daft Punk). Eppure, nulla c’è di lieve, neanche nei sequencer più spregiudicatamente danzerecci, nelle trame ritmiche più pop. I luoghi dell’immaginario dove queste tracce vengono suonate sono i club di certi film di Lynch (penso a Cuore selvaggio), senza tempo né speranza. «Come uno spettro e la sua ombra crudele», e senza altra intenzione artistica se non «mantenere in vita la belva», gli Ulver sembrano volerci dire che questi animali liminali siamo noi, che non abitiamo i luoghi che vorremmo, che non conduciamo la vita che potremmo, che non ci troviamo nelle situazioni quotidiane che preferiremmo. Non si fa la musica che si deve, ma quella che si può.


Lætitia Sadier, Rooting for Love (2024)Marcello Sessa

Nell’anno corrente, il ritmo incessante delle uscite musicali degne di nota ha riempito gli orecchi dell’ascoltatore, senza però di fatto turarli per eccessi e sclerotizzazioni. Se la mente ricolma pretende un consuntivo, più che a una ratio deve affidarsi alla “luogotenenza” ricoeuriana: che cosa, effettivamente, lascia una testimonianza che ricomprende temporalità passata e futura nel presente? Il punto è che, laddove il referente “archivistico” sia musicale – dunque immateriale – occorre catturare i riverberi: ciò che, di una musica sentita prima, non solo si ricorda ma continua a risuonare, senza che lo si cerchi. Risponde di certo a questo compito di “paradigma metaforologico” (si legga: possente “figura” musicale originaria) l’ultimo lavoro di Lætitia Sadier, Rooting for Love. Quel che nel suo caso potrebbe suonare come una precomprensione ha un nome preciso: Stereolab, il gruppo – anzi meglio il collettivo – che ha animato per più di vent’anni. Il coacervo di soluzioni musicali che tale Nihilist Assault Group ha sviluppato è – e i devoti lo sanno bene – uno stile riconoscibile; tuttavia inimitabile, e niente affatto riducibile a formula. Sadier non dimentica la ciclicità stilistica wölffliniana, e nel nome di una sperimentazione continua insuffla sì, nella sua opera solista, alcuni inobliabili stilemi streolabiani, ma sfuggendo la maniera, lo stylish style. Li compatta con influenze altre e con una sapienza tutta sua: una sapienza matura di cantautrice e musicista che non scorda eppure spinge oltre le sue capacità, all’antico grido inveterato di “there are still things worth fighting for”. Sadier è l’Alsazia e la Lorena del pop-rock sperimentale: un territorio conteso in cui, come rammentava Jean-Marie Straub in uno scritto autobiografico, si deve sempre essere pronti a passare da una cultura all’altra (francese e inglese nel caso di Sadier), a seconda degli improvvisi cambiamenti politici in atto: e, di converso, culturali.


The Cure, Songs of a Lost World (2024) – Alessandro del Guado

I Cure hanno giocato un ruolo fondamentale nella cristallizzazione del goth, emergendo quando il punk esalava i suoi ultimi respiri con Bauhaus, Siouxsie e Banshees, e preparando il terreno per decenni di disaffezione simbolica. La cultura pop ricostruita sui tropi del Romanticismo – ambivalente, ironica, calata in un immaginario di morte e decadimento – si è dimostrata particolarmente resiliente nei circa quarant’anni a seguire, generando una subcultura autonoma che si è infine slegata dalla musica da cui era stata prodotta. Ora, con il loro primo album dopo 16 anni di silenzio – e dopo incredibili 46 anni dal debutto – i Cure, riuniti intorno all’unico superstite, il cantante e scrittore Robert Smith, offrono un delizioso esempio di quel che siamo arrivati ad aspettarci dalla pop music post-postmoderna: un punto di riferimento storico torna per offrire un epitaffio trionfante al fenomeno che aveva contribuito a creare. L’album è intriso dell’immaginario associato al goth: intro strumentali introspettive, elegiache e malinconiche che spesso durano più dei brevi interludi vocali; percussioni che echeggiano sopra distese di bassi picchiettanti; e una morte mai troppo lontana dal focus lirico di Smith. Frammenti melodici di vecchie canzoni appaiono momentaneamente per poi svanire nel mezzo delle nebbie soniche; e ogni canzone, come Smith assicura più di una volta, è destinata a essere l’ultima. Eppure qualcosa è cambiato. C’è a malapena traccia del kinetic pop che una volta forniva un contrappunto al lato più oscuro dei Cure; e lo stile vocale di Smith, un tempo a metà tra genuina angoscia e ironia performativa, ora in qualche modo stabilisce una connessione emozionale diretta. Sia il kinetic pop che l’ironia ora appartengono a un altro mondo, del tutto perduto: l’album sarebbe dovuto uscire nel 2019 e, nel periodo a seguire, Smith ha perso il fratello Richard, a cui la straordinaria “I Can Never Say Goodbye” è dedicata. Come in “Alone” e “And Nothing Is Forever” in apertura, l’ossimoro di una giovinezza che sguazza in una mortalità ancora distante fa posto all’immediatezza della perdita. Ogni cliché del lessico goth scambia una singola dimensione per un’altra. I vecchi Goth non muoiono mai… arrivano solo a capire che la morte, in realtà, è reale.


Godspeed You! Black Emperor, No Title as of 13 February 2024 28.340 dead (2024) – Marco Longo

Come suggerisce il non titolo del loro nuovo disco – il drammatico bollettino delle vittime a Gaza alla data di registrazione – la musica dei GY!BE evoca i paesaggi apocalittici dei nostri tempi attraverso lunghe suite nelle quali le chitarre tuonano (“Babys in Thundercloud”) e i timpani scandiscono marce funebri (“Pale spectator takes photographs”). Similmente ai dischi precedenti, da queste rovine sonore filtra ancora un po’ di luce e calore umano come perfettamente sintetizzato nell’unico comunicato stampa rilasciato dal collettivo al momento della pubblicazione: «ogni giorno un nuovo crimine di guerra, ogni giorno un fiore che sboccia. (…) Resisti. Ama». A noi spettatori non resta che perderci in queste lande, tra momenti quasi da Western post atomici (“Raindrops cast in lead”) ad altri in cui veniamo risucchiati dai vortici della vita (“Grey rubble – green shoots”) prima di fiorire un’altra volta.


Bright Eyes, Five Dices, All Threes (2024) – Michele Turazzi

Non mi è semplice parlare del nuovo album dei Bright Eyes, come non lo è mai parlare di qualcosa che ci accompagna da sempre, che fa parte della nostra formazione e che ci ha seguiti negli anni. La one man band – ora un po’ meno “one man” di un tempo – di Conor Oberst, con il suo sound malinconico, a tratti disperato, il suo folk personale e ricercato, è stata una pietra fondante dell’indie di inizio Duemila; e il fatto che Oberst all’epoca era letteralmente un ragazzino, poco più grande di me, contributiva a creare una fascinazione profonda. Un predestinato, si diceva. E in effetti, fino alla doppia uscita del 2005 I’m Wide Awake, It’s Morning + Digital Ash in a Digital Urn le aspettative sono state ampiamente ripagate. Seguono un paio di passaggi a vuoto, l’abbandono del cappello Bright Eyes, innumerevoli collaborazioni, molte di peso, e almeno un’altra emanazione di livello con i Better Oblivion Community Center, insieme all’allora sulla rampa di lancio Phoebe Bridgers (folk purissimo, con un’affascinante tocco rétro). Poi, inaspettato, in piena pandemia arriva la notizia del ritorno dei Bright Eyes. Ed è un ritorno in grande stile: abbandonate le tinte più oscure, Oberst torna a divertirsi mischiando generi e influenze, aggiungendo archi e orchestra alla sua voce graffiante. Down In The Weeds, Where The World Once Was non sarà stato il disco più originale del 2020, ma di certo era un gran disco. Five Dices, All Threes è la degna continuazione di questo nuovo percorso degli anni Venti: l’ex enfant prodige è diventato grande, ha superato i quaranta, non è più il momento di urlare al mondo la propria sofferenza post-adolescenziale (grazie al cielo, nemmeno per me): ma l’inventiva, la lucidità, la capacità di emozionare sono sempre qui. Ascoltate “All Threes” (con Cat Power) o “Hate” per crederci.


Paolo Benvegnù, È inutile parlare d’amore + Piccoli fragilissimi film – Reloaded (2024)Michele Farina

È proprio vero che per qualcuno i sessanta sono i nuovi quaranta: è quello che ho pensato dopo l’ultima data milanese di Paolo Benvegnù (classe 1965), dove l’ex leader degli Scisma si è presentato in splendida forma e pieno di smalto – anche dal punto di vista vocale –, ieratico come un profeta dell’Antico Testamento. Dopo il progetto Delle inutili premonizioni, che lo aveva tenuto impegnato nel biennio 2021-2022, e un disco (Dell’odio dell’innocenza, 2020) non all’altezza dei precedenti, Benvegnù è tornato con un nuovo album, È inutile parlare d’amore (vincitore della targa Tenco come migliore album in assoluto), che sembra recuperare le atmosfere, il tiro e la qualità della scrittura di un capolavoro come Hermann (2011); si apprezzano molto per la naturale complementarità con il sound complessivo del disco anche i featuring con Brunori Sas (L’oceano) e Neri Marcorè (27/12). Come se non bastasse a battezzare un 2024 già molto positivo, Benvegnù ha graziato i suoi fan con una versione speciale di Piccoli fragilissimi film, realizzata in occasione del ventennale del disco, dove ogni canzone è cantata insieme a un artista diverso. I featuring, tutti importanti ma non tutti ugualmente efficaci, ci ricordano, se ancora ce ne fosse bisogno, perché Paolo Benvegnù da vent’anni a questa parte è uno dei migliori autori di canzoni in lingua italiana in circolazione.