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La Balena in prosa: 10 consigli per il vostro Natale

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Si fa presto a dire prosa. Ma la prosa cos’è? è solo la narrativa? o anche la saggistica? forse la prosa è la non poesia? e la poesia in prosa, allora? per non parlare della prosa in prosa… Indifferente a queste dispute scolastiche, la nostra redazione mette insieme una staffilata di consigli di lettura per chi non ama andare a capo troppo spesso. Consigli – ça va sans dire – che soddisfano gusti di ogni sorta, in un pot-pourri di proposte che non sfigurerebbe nelle tanto decantate Classifiche di qualità (anche perché sono tutte uscite del 2024).
La Balena Bianca si prende un paio di settimane di pausa, sospendendo le pubblicazioni. Ci rivediamo nel 2025.


Javier Marías, La metà del mio tempo, trad. M. Nicola, Einaudi 2024 (Niccolò Amelii)

Uscito in Spagna nel 2008, La metà del mio tempo è stato da poco proposto da Einaudi (traduzione di Maria Nicola), divenendo il primo libro pubblicato in Italia di Javier Marías dopo la sua morte, avvenuta due anni fa. Il volume è una raccolta miscellanea di testi di varia natura, origine e provenienza – saggi, prefazioni, articoli di giornali, interviste –, che spaziano dal 1987 al 2008, cuciti tra loro dalla curatrice Inés Blanca nel tentativo di costruire una sorta di biografia “involontaria” del grande scrittore spagnolo. Strappati all’oblio della loro primaria vocazione – quella d’occasione –, le brevi prose qui raccolte e organizzate seguendo un principio latamente tematico intessono via via una fitta ragnatela di memorie minime, parziali, frammentarie, incursioni in un passato che non smette di finire perché rivivificato dal potere della scrittura. A prescindere dal suo interesse documentario – aneddoti, tranches de vie, ricordi d’infanzia –, La metà del mio tempo è un regalo per chi ha amato e continua ad amare la voce inconfondibile di Marías, un’occasione per meravigliarsi ancora di uno stile tanto elegante e prezioso quanto naturale, che sembra lievitare sulla pagina senza alcuno sforzo apparente.


Monica Pareschi, Inverness, Polidoro Editore 2024 (Claudio Bagnasco)

A dieci anni dal suo esordio in narrativa (È di vetro quest’aria, Italic Pequod), Monica Pareschi – tra le nostre migliori traduttrici – torna con un’altra raccolta di racconti, Inverness, uscita nell’ottobre del 2024 per Polidoro.
Sono otto testi dalla scrittura accuratissima, in cui la precisione semantica e il gusto per il dettaglio creano immagini deformate espressionisticamente, sintomo (o declinazione) del rapporto sempre irrisolto che i personaggi hanno tra loro e nei confronti del mondo.
«Considera le unghie della mano destra, poi quelle della mano sinistra. Non c’è più niente da rosicchiare, quel che rimane è affossato nella carne, a provarci c’è da farsi male sul serio. Anche le pellicine intorno sono state tutte accuratamente sollevate e strappate coi denti, a insistere uscirebbe altro sangue. C’è un’ala della casa, in disuso. Non si sono neanche dati la pena di dipingerla quando hanno rifatto la facciata, qualche anno prima, e adesso la mole tozza e incolore risalta incongrua vicino al giallo sfacciato del resto» (p. 27).
Le vicende di Inverness sono attraversate da un disincanto asciutto, in cui manca l’autocommiserazione ma non la consapevolezza del buio che governa le relazioni e, in fondo, le vite.


Claire Keegan, Quando ormai era tardi, trad. M. Pareschi, Einaudi 2024 (Davide Spinelli)

Claire Keegan è il prodigio della letteratura irlandese assieme a Sally Rooney. Ha vinto il Rooney Prize per Dove l’acqua è più profonda (Neri Pozza, 2010), l’Edge Hill Prize per Nei campi azzurri (Neri Pozza, 2009); da Un’estate (Einaudi, 2023) è stato tratto e candidato all’Oscar il bellissimo The quiet girl, da Piccole cose come queste (Einaudi, 2021), nella short list del Booker Prize 2021, l’omonima pellicola è stata presentata in apertura della 74° Berlinale e da poco è passata nei cinema italiani.
In Quando ormai era tardi, la vita coniugale di tre donne nella cattolicissima Irlanda del secolo scorso anima le tre short stories della raccolta. I rimandi alla grande letteratura irlandese, come altrove nella sua produzione, sono evidenti, da Seamus Heaney a Joyce. Non solo, dall’Europa continentale, arrivano gli echi politici dei racconti di Čechov e Kafka, o quelli intimisti di Elsa Morante nei (sottostimati!) Racconti dimenticati (Einaudi, 2022). Se però pensiamo ad Antartide, l’ultimo racconto di Quando ormai era tardi, è lampante come in epoca contemporanea, pochissimi abbiano riassunto e alimentato la lezione di Raymond Carver come Keegan. Questo racconto, in particolare, informa un ipotetico dittico con Dì alle donne che usciamo, in Principianti (Einaudi, 2009), forse una delle più belle antologia di racconti della storia della letteratura europea e non.
I racconti di Keegan miscelano l’emancipazione femminile, la violenza sessuale e psicologica, che ambientate al giorno d’oggi ritroviamo per esempio nel bel Questo è il piacere di Mary Gatskill (Einaudi, 2021). Ma ancora, in Keegan trova spazio il tema della scelta morale (de Il processo kafkiano o di Eveline di Joyce), l’ineffabilità irlandese, la polifonia emotiva a là Dostoevskij. La scrittura dell’autrice riflette per assurdo un sentimento comune di chi conosce o ha visitato l’isola d’Irlanda: c’è chi la ama e chi la odia, senza compromessi. Le short stories di Keegan respingono e attraggono, contano in base due, come la sua isola divisa dal 1921, il fuoco è lo stesso ma il punto di vista è ribaltato ripetutamente, campo e controcampo. Alla fascinazione del testo risponde una precisione anatomica dell’evocazione emotiva.


Alessandra Sarchi, Ragazza senza nome, effequ 2024 (Michele Farina)

L’editore effequ ha affidato il quinto episodio della serie “Elettra” a una narratrice ormai esperta come Alessandra Sarchi. In linea con il progetto di collana curato da Olga Campofreda ed Eloisa Morra, il racconto di Sarchi oppone la prospettiva di una Ragazza a quella di un Padre inamovibile e inflessibile, un uomo tutto d’un pezzo, come si usava dire una volta pensando di fare un elogio. Fra autobiografia e anonimato, la figlia-Sarchi trascina la sua adolescenza fra iniziazioni e tentativi di emancipazione in una bassa padana tondelliana, in cui la triste euforia basso-imperiale così tipica degli anni Ottanta viene come freddata da una narrazione greve e scorciata, dove poche figure emblematiche si alternano sulla scena, credibilmente allestita, di una Bildung postmoderna. In Ragazza senza nome sembra che le occasioni possano solo essere perdute, soprattutto quando la manus paterna si stringe intorno alla figlia, inesorabile come un’eclissi, oscurando gli orizzonti di ogni alternativa. Ma, anche qui, come in altri racconti di Sarchi, può bastare una lama di luce per suggerire la possibilità di un’altra vita, o almeno una temporanea via di fuga.


Giuseppe Marcenaro, Sciarada. Vivere con le ombre sulla soglia dell’Ade, Il Saggiatore 2024 (Marcello Sessa)

Prima di morire, Giuseppe Marcenaro ha lasciato ai posteri un libro rivolto al passato, come d’abitudine: un capitolo ulteriore della sua pubblicistica di poligrafo “compendiario”, che commenta reinventandoli testi, immagini e oggetti altri. A differenza di alcuni precedenti, però Sciarada ha un obiettivo preciso, rievocare la presenza-assenza di una determinata persona e della sua – non è esagerato dirlo – “aura”: la figura di Bobi Bazlen. Lo fa con la consueta scrittura barroca a declinazione genovese (che sa di scultura, candelabro, sgabellone di Filippo Parodi), e da «vagolabile prospettiva», sospesa in «un transito dalla realtà all’illusione». Ricorre, nel testo, la «metafora dentro a una metafora» dell’“emulsione”; convinto che tutto sia fenomenico (pure la parola su carta), Marcenaro sbroglia il suo feticismo verso il letterato per eccellenza “scolorito”; Bazlen ha lasciato tracce bio-bibliografiche che eccitano chi lo venera, al punto da spingerlo oltre la ricerca: al collezionismo, al pellegrinaggio, alla devozione. I cuori pulsanti sanno che c’è un predecessore: il protagonista di un romanzo del 1983 ambientato tra Trieste e Londra che, ossessionato dal perché Bazlen non avesse mai scritto, si muove in cerca di risposte e si ritrova zeppo di dubbi su sé stesso e sulla sua attività di scrittura, fino a gridare nel mezzo della notte in una stanza d’albergo, poiché invaso da «immagini e pensieri» di quel rovello su arte e vita. Daniele Del Giudice è ossessionato dalla mancata compiutezza dell’attività bazleniana, mentre Marcenaro spasima di piacere tra i fantasmi e colleziona, di questi inferi, tutti i pezzi con ingordigia.
Entrambi incantano, sia per eleganza di prosa sia per encomiabile passione, e sono ciò nondimeno “conservatori” nell’ostinarsi a non ammettere, in sede estetologica, che quella di Bazlen è un’opera, e che la sua finitudine va ricercata in motivazioni che lui stesso aveva indicato; in una celebre scheda di lettura per L’uomo senza qualità di Robert Musil ammoniva Einaudi: non è tanto un torso a cui manchi un braccio, questo libro, esso è piuttosto un concetto che mai, per natura, è possibile chiudere. Di qui tante sciarade «in quel mondo tra scrittura e chiacchiera che – parla Marcenaro – per insana comodità viene definita letteratura».


Georges Simenon, La porta, trad. L. Frausin Guarino, Adelphi 2024 (Morena Marsilio)

La porta è l’oggetto attorno a cui cresce la tensione in questo romanzo parigino di Simenon. La gelosia di Bernard Foy, mutilato a entrambe le mani per lo scoppio di una mina nel ‘40, si alimenta davanti alla soglia oltre la quale, da qualche tempo, abita Mazeron, un giovane disegnatore poliomelitico: la moglie Nelly svolge, infatti, quotidiane consegne per l’uomo.
La donna ama Bernard senza provare né ribrezzo, né pietà dopo l’incidente: la loro vita coniugale si è cristallizzata in consuetudini care a entrambi e non manca di momenti appassionati. Nonostante ciò, la porta diviene per Bernard il catalizzatore della sua insicurezza: fine auscultatore dei rumori del palazzo, un condominio nei pressi di Place des Vosges, Bernard conta i passi che la moglie fa sulle scale fino ad arrivare all’appartamento di Mazeron, valuta la durata della sosta all’interno della casa, prova a immaginare cosa avvenga tra l’uomo e sua moglie che non gli ha mai nascosto di aver avuto altri prima di lui.
Il punto di forza del romanzo, insomma,  sta nell’insinuarsi, nella quieta continuità di una vita coniugale descritta nella minuta ruotine, di un rovello interiore che darà luogo a un epilogo tragico. È senz’altro questa immersione in contorte autoanalisi e ossessive interpretazioni di segni e indizi a affezionare il lettore al Simenon extra-Maigret: in questo senso La porta non delude.


I

Sara Ahmed, Manuale della femminista guastafeste, Fandango 2024 (Stella Poli)

Sara Ahmed, scrittrice e attivista anglo-australiana, fino alla fine del 2016, insegnava Studi culturali e razziali alla Goldsmith University of London. Decide di dimettersi dopo che il dipartimento di cui fa parte non dà seguito a una serie di denunce rivolte ad alcuni docenti, per molestie sessuali e bullismo. Le viene detto che il suo insistere perché il problema venga guardato, e affrontato, mette a repentaglio la reputazione dell’istituzione intera, il futuro non solo suo, ma di tutti. Nasce lì, la femminista guastafeste, che popola la pagine del libro: nello scegliere – rischiando, e poi perdendo, la carriera e la felicità del proprio lavoro – di stare nella problematicità della situazione, senza minimizzare, senza retrocedere, continuando a reagire perché il problema continua a riproporsi identico: «quando denunci, sei trattata come chi causa un’interruzione […] a volte ti viene detto che la tua felicità dipende dalla misura in cui sei disposta a proteggere la felicità di un’istituzione». Questo manuale invita a rischiare di guastare qualche festa condivisa: a inceppare il sessismo, o il razzismo, negli episodi quotidiani; a fidarsi della scala della propria indignazione; a cercare una costellazione di guastafeste precedenti; a non affezionarsi alle proprie idee o categorie, perché le verità guastafeste si decostruiscono spesso e volentieri; a godersela, infine, ballando in questa rivoluzione, perché, guastandole, tanto si impara sulle feste, pure.


Silvia Cassioli, Wilma, il Saggiatore 2024 (Giacomo Raccis)

Tra il 1953 e il 1957 il caso Wilma Montesi ha catalizzato l’attenzione degli italiani (o forse li ha abilmente distratti). Il caso del secolo, secondo alcuni; anche se oggi raramente lo si ricorda. Pagine e pagine sono state scritte nel tempo: le carte dei processi, innanzitutto, e poi cronache, articoli scandalistici, autobiografie improvvisate, e anche romanzi (non ultimo il 54 dei Wu Ming). A più di settant’anni di distanza, Silvia Cassioli ha deciso di raccontare nuovamente questa storia e di farlo ricorrendo proprio a quelle pagine in un monumentale montaggio di dichiarazioni, testimonianze, citazioni impensabili, stralci di articoli abilmente orchestrati da una voce narrante tanto discreta quanto maliziosa nello svelare paradossi e contraddizioni di una ricerca della verità destinata invariabilmente a fallire.
«Il processo obbediva alla legge della moltiplicazione del caos»: ogni tentativo di far luce sul misterioso ritrovamento, sulla spiaggia di Torvaianica, del cadavere di una giovane donna della Roma popolare naufraga tra imperizie, esibizionismi, depistaggi più o meno consapevoli. Dopo Il capro (2022), Cassioli torna a confrontarsi con la storia recente del nostro paese e lo fa cercando ancora una volta nella coralità la chiave per restituire, attraverso il prisma di un caso di cronaca, quella miscela di ambizioni, abitudini, sospetti e fantasie che va sotto il nome di immaginario collettivo. Un libro per lettori pazienti e curiosi, disponibili a farsi sfidare da una narrazione fluviale, divagante e ricorsiva, capace di appassionare proprio laddove sembra aver appaltato tutto a una voce fredda e distaccata, quella dei documenti ormai archiviati. Ma è proprio lì che l’ironia narrativa di Cassioli sa mostrare la propria perizia.


Wu Ming 1, Gli uomini pesce, Einaudi 2024 (Simone Giorgio)

Il nutrito filone della nostra letteratura dedicato al Po si arricchisce di un nuovo romanzo, Gli uomini pesce di Wu Ming 1: la narrazione ad ampio raggio di quest’opera si addensa attorno a tre nuclei temporali (la Seconda guerra mondiale, gli anni Sessanta-Settanta, il 2022) e a una figura, Ilario Nevi, immaginario partigiano, regista e pioniere delle lotte ecologiste, la cui morte dà lo spunto alla nipote Antonia per ricostruirne la vita e i segreti. In particolare, si racconta del viaggio alla ricerca dei misteriosi uomini-pesce che figurano fin dal titolo. Come già accadeva in Ufo 78, la storia si affolla di cenni non solo storici – in cui il confine tra ciò che è realmente esistito e ciò che è inventato è sempre labilissimo –, ma anche di riferimenti a un immaginario da leggenda urbana o, ancor meglio, da folclore contemporaneo, che si mescolano a ciò che ha appena smesso di essere attualità (Gli uomini pesce è, mi sembra, uno dei primi romanzi italiani a trattare della pandemia di Covid-19 e delle sue conseguenze). Esattamente come in Ufo 78 e in generale come nella letteratura dei Wu Ming, quest’alterità fantastica e al tempo stesso storica è il sintomo di una perenne ricerca di fuga e ribellione: attraverso la vita di Ilario Nevi, infatti, assistiamo alla sostanziale continuità del grigiore dell’oppressione del fascismo, della Prima Repubblica, e infine dell’industrializzazione pesante – e delle conseguenze di quest’ultima sull’ambiente padano. Questa ricerca è espressa in una storia multiforme e ciclopica, in cui Ilario Nevi funge da centro ma che si apre a una varietà polifonica gradevole ed esaltante, sottolineando di continuo il messaggio-chiave: anche se la storia passata (la guerra, il fascismo) è terribilmente insanguinata e anche se il presente (la catastrofe climatica e le secche del Po) sembra inquietante e minaccioso, non si deve smettere di immaginare il futuro con speranza.


Daniele Vitali, Il fenomeno lingua. Manuale informale di linguistica su italiano, dialetti e lingue europee, goWare 2024 (Roberto Batisti)

In un’epoca in cui la lingua è uno dei più devastati campi di battaglia politico-ideologici, senza che necessariamente i combattenti vantino nozioni base di linguistica nel proprio arsenale, c’è più che mai bisogno d’una saggistica divulgativa ma non corriva né pamphlettistica, che dia gli strumenti critici per orientarsi nella mischia, senza con ciò abdicare a una missione militante. Un prezioso esempio ce lo offre Daniele Vitali, da tempo traduttore UE a Bruxelles, ma soprattutto uno dei massimi esperti odierni in dialettologia italiana: studioso (extra-accademico: e dispiace per l’accademia) prolifico e serissimo (monumentale la sua opera in progress sui dialetti emiliani e romagnoli), quanto instancabile promotore delle concrete attività a tutela delle lingue e culture locali. I pregi dell’autore rifulgono in questo manuale agile ma sostanzioso, che in meno di 300 pagine guida il lettore in una serie di approfondimenti mirati che non presumono alcuna conoscenza specialistica ma da cui anche un esperto può sicuramente imparare. Il libro si divide in tre sezioni dedicate rispettivamente all’italiano, ai dialetti d’Italia, e alle “altre” lingue d’Europa, quest’ultima conclusa da alcuni Ritratti linguistici, medaglioni storico-descrittivi dedicati alle grandi lingue di cultura del continente (inglese, francese, tedesco, spagnolo, russo), ma anche a un idioma “minore” incredibilmente interessante come il romeno, nonché all’esperanto, regina delle lingue artificiali.
Nella prima sezione, che raccoglie interventi scritti nel 2023, è più evidente l’attenzione alle polemiche attuali, dallo schwa agli anglicismi al femminile dei nomi professionali; su tutti questi temi scottanti, riguardo a cui il dibattito quotidiano sa toccare abissi di brutalità e d’approssimazione da ambo le parti, le posizioni di Vitali si segnalano per esser non solo, com’è ovvio, scientificamente fondate, ma improntate a un progressismo concreto e di buon senso. Così, ad esempio, le sue conclusioni sul linguaggio inclusivo non saranno l’ultima parola sulla vexata quaestio, ma meritano ascolto. Vitali spiega senza moralismi né sicumera professorale le ragioni tecniche per cui una soluzione come lo schwa non può davvero funzionare, ma non disconosce affatto l’importanza del problema: se «una società inclusiva parla necessariamente un linguaggio inclusivo», non è con operazioni ortopediche sulla morfo-fonologia che si può tendere in quella direzione, ma casomai lavorando «sul lessico. Non su quello degli altri, però: sul proprio, dando così il buon esempio», fatto salvo che «quando a furia di battaglie per la parità vera si sarà resa più giusta la società, allora anche il linguaggio si farà meno violento e sessista».
Se nella seconda sezione Vitali si muove con destrezza nel suo specialismo, producendo sintesi illuminanti sui dialetti dell’Emilia-Romagna, sulle minoranze linguistiche italiane, ma anche su un tema classico come la distinzione fra “lingua” e “dialetto”, l’argomento della terza sezione offre di nuovo a questo europeista militante il destro per saporose stoccate in cui traluce la verve schietta del polemista social. Il tono simpaticamente surreal-colloquiale delle invettive (Stalin è «il criminale megalobaffuto»; il tedesco di Hitler è «sgradevole e minaccioso come il linguaggio dei serpenti di Harry Potter») è, per chi ha fatto ormai l’abitudine a un saggismo blasé e tartufesco, tonificante, così come il franco rifiuto del provincialismo italiano (coi suoi «polpettoni nazional-popolari con preti, portinai e carabinieri» e i suoi politici per cui coniugare i verbi è un «duro cimento»), ma anche della miseria di tutti i nazionalismi. Così, nella pagina dedicata alla lingua ucraina o nel ritratto del russo, Vitali prende una posizione che più netta non si potrebbe sull’immonda invasione putiniana, ma distinguendo bene la condanna dei regimi illiberali dal rispetto per i popoli e dall’amore per le loro lingue e letterature. E la celebrazione della lingua russa e della grande cultura di cui è stata veicolo (l’autore conosce benissimo entrambe) s’intreccia alla polemica contro le autocrazie (comprese le loro politiche linguistiche oppressive) e le guerre fratricide. È pienamente coerente che il libro si chiuda con il ritratto-apologia dell’esperanto, prodotto d’un idealismo universalista e pacifista a cui vanno le evidenti simpatie dell’autore. In conclusione, il “manuale informale” di Vitali non tenta, a dispetto del titolo, una definizione generale del “fenomeno lingua”, tema per filosofi del linguaggio o quantomeno per linguisti a forte vocazione teoretica (“glottòsofi”, direbbe l’emerito fonetista Luciano Canepàri, con cui Vitali ha più volte collaborato). Più umilmente ma forse più utilmente, seguendo la sua vocazione pragmatica, l’autore ci fa invece conoscere, del più distintivo e interessante fenomeno umano, alcune delle infinite e spesso misconosciute sfaccettature


L’immagine di copertina è stata realizzata dal nostro Massimo Cotugno