Il bello di Pontiggia è che si può aprirne i libri quasi a caso per trovarne una frase, un aforisma, un guizzo logico da portare a mente, e un rigore, nell’approccio alla scrittura, raramente ravvisabili altrove. Nel corso di una carriera quarantennale divisa fra una produzione più propriamente creativa di saggi, romanzi e racconti e una, per così dire, di servizio, ma non meno formativa, in qualità di consulente editoriale, Pontiggia infatti ha sempre puntato a costruire testi che fossero immediatamente significanti «ad apertura di pagina».[1] Se, come sosteneva, il compito di uno scrittore è quello di scrivere bene, e tale impegno va mantenuto sempre («anche quando scrivo una lettera, o per i giornali, sono tentato di mantenere un impegno letterario, punto a una tenuta stilistica…»),[2] non sorprenderà allora ritrovare il tono e i tratti più distintivi della sua voce nei testi sapientemente raccolti da Daniela Marcheschi nel volume «Un libro che divorerei». Pareri di lettura (Venezia, Palingenia, 2024). Il libro raccoglie 186 schede editoriali redatte da Pontiggia per Adelphi e Mondadori e scelte fra un campionario di oltre quattromila documenti. Le carte sono accessibili in undici fascicoli all’Archivio Pontiggia della BEIC-Biblioteca Europea di Informazione e Cultura di Milano, e testimoniano il lavoro svolto dall’autore in trent’anni di attività, dal 1971 al 2001. Si tratta di schede di lunghezza variabile, dalle poche righe alla pagina e mezza, ma in genere brevissime, attraverso cui Pontiggia riusciva a compendiare con sagacia ed eleganza il valore di un’opera, e a suggerirne la potenziale commerciabilità e pertinenza alle rispettive collane (due su tutte – la Piccola Biblioteca Adelphi e la collana dello Specchio di Mondadori).
Sotto la lente critica di Pontiggia finiscono gli autori (soprattutto novecenteschi) più disparati, dai massimi ai semi-sconosciuti, e naturalmente i generi più vari, dalla narrativa al saggio alla poesia. Pontiggia è particolarmente attento allo stile e alla veridicità dei testi, oltre che acuto nel valutare opere straniere. Apprezza i micro-racconti “percussivi” di Daniil Charms, poi pubblicati da Adelphi col titolo Casi nel 1990 e «la brevitas geniale e grandiosa» dell’autore (p. 73). Dell’irlandese Flann O’Brien legge nell’agosto del 1990 The Third Policemen, «libro di valore straordinario» dal «realismo nero, catramoso» (p. 160), che uscirà per Adelphi due anni dopo. Sostiene, anche se invano, l’acquisizione di My Early Life di Winston Churchill per Mondadori («libro avvincente per lo stile», p. 74). È favorevole a La mente estatica di Elvio Fachinelli («testo discontinuo, parziale, frammentario: però vitale, coraggioso, inventivo […]. Un testo da fare», p. 95). E “libro da fare” è clausola ricorrente in queste schede, a testimonianza, anche sul piano lessicale, degli intendimenti del Pontiggia-lettore che non dimentica l’aspetto produttivo, operativo, del lavoro editoriale.
Al di là del valore documentario, il volume è affascinante perché vi ritroviamo alcune delle predilezioni e dei nuclei estetici che hanno animato la ricerca letteraria dell’autore, come quando commenta La scacchiera davanti allo specchio di Bontempelli, testo «conosciuto nel mondo degli scacchi», di cui Pontiggia era appassionato: «è un testo di fascinazioni sottili e di allusività sapienziali trasposte nel linguaggio comunicativo di un racconto per ragazzi» (p. 41). Ma le pagine di questi pareri di lettura sono puntellate anche da artifici retorici e clausole gnomiche a cui i lettori di Pontiggia sono avvezzi. In Mystique di Joë Bousquet, Pontiggia trova «un linguaggio affabile e uno stile imperioso: parla come se avesse l’autorità ed effettivamente ce l’ha». È colpito in negativo, invece, da La casa del silenzio di Orhan Pamuk, che legge in francese, per la «didascalicità enfatica. Si capisce dove vuole arrivare e dove invariabilmente arriva. Gli manca la vera sorpresa, che non è poco per un narratore» (p. 165).Gianna Manzini in Lettera all’editore tradisce invece «una idea banale di stile, un narcisismo ascetico e visionario che persegue la bravura più che la verità», ha «il gusto di dire tutto e sfortunatamente ci riesce» (p. 137). Di tutt’altro avviso il parere su Le Bal di Irène Némirovsky: «Lo si legge con una rapidità inversamente proporzionale alla sua durata nella mente» (p. 158).
Con uno stile sempre giocato sul filo della retorica classica, a cui attinge a piene mani, Pontiggia rende in poche parole giudizi sobri e calzanti. Il carteggio Cecchi-Praz «diventa il ritratto di un’amicizia impossibile e di una avversione reale» (p. 69), con un suo tipico movimento per antitesi, speculare e ad inversione. Altrove troviamo il gusto per il paradosso: di Letizia Cella e del suo La voglia di Pietro, poi pubblicato da Mondadori nel 1988, nota che «le qualità sono innegabili, anche se le ambizioni eccessive: mirando più vicino, potrebbe arrivare più lontano» (p. 71), dove rinveniamo in sottotraccia l’idea, espressa anche in L’isola volante, che in letteratura, come nella vita, sia sempre «meglio una parzialità possibile che una totalità irreale».[3] Al contrario, Pontiggia invia a Marco Forti un parere favorevole alla pubblicazione di Pasque di Zanzotto nel 1973, perché il poeta «ha saputo progressivamente circoscrivere la sua poesia all’area di ciò che lo riguarda personalmente e così l’ha allargata» (p. 254).
Nel redigere questi pareri di lettura, Pontiggia indulge nel consueto taglio aforistico che definisce la sua scrittura letteraria. Su Sergio Quinzio, Radici ebraiche del moderno, esplicita qualche riserva: «A lettura finita non direi che la tesi del titolo esca rafforzata dalla dimostrazione. Forse il destino di ogni dimostrazione è solo quello di rivelare i propri limiti» (p. 173). Notevole è l’aforisma fra parentesi quando scheda The Summing Up di W. Somerset Maugham e pensa ai suoi classici («il migliore omaggio non è la reverenza, ma la familiarità, come se si trattasse di nostri contemporanei», p. 144), se consideriamo che il documento è del giugno 1994 e I contemporanei del futuro uscirà nel 1998. Queste schede illuminano nuovi percorsi anche per la critica e invitano a rintracciare nelle letture editoriali di Pontiggia gli spunti e le suggestioni che l’autore potrebbe aver avuto presente nel comporre e dare alle stampe le proprie opere.
Pontiggia è inesorabile quando i testi tradiscono affettazione o uno scollamento linguistico dalla realtà. Se per Adelphi promuove Il rogo di Berlino di Helga Schneider, convinto, nonostante l’italiano da correggere, dalla «durezza implacabile» e dalla «verità del testo» (p. 196), respinge invece per Mondadori la raccolta Poesie di Vinicio Salati, per il suo stile epigonale e stucchevole: «è un esempio di come un uomo riesca, con le buone letture, a fraintendere le esperienze abbastanza intense che pare stia vivendo». Ma al di là del giudizio, è interessante anche qui la clausola finale della scheda, che rimanda a un concetto chiave della concezione estetica di Pontiggia: «siamo troppo lontani dalla poesia, se per poesia intendiamo qualcosa che ci riguarda» (p. 186). La letteratura ha veramente senso ed esprime le sue potenzialità conoscitive solo quando entra in connessione con i lettori e offre un punto di vista altro su quello che li riguarda. È un «vivace fallimento» Retrivacos di Franco Scaglia, che apparterrebbe «all’unico genere letterario che non sia buono: il genere noioso. Eppure è freneticamente pieno di fatti…» (p. 189) – una convinzione che Pontiggia riprende da Valéry e Forster e che inserirà in un altro passaggio de L’isola volante – ad ulteriore testimonianza della circolazione di interessi, esperienze, persuasioni maturate dal lavoro diretto con i testi altrui e trasferite sui propri, fino a diventare parte integrante della poetica d’autore. Ancora, su Roberto Vigevani e Il principio della piramide: «L’eccessivo indugio su un testo rende alla fine miope l’autore (e il lettore). È un’esperienza che ho già fatto su di me (come autore) e che ripeto qui (come lettore)» (p. 235). Il testo sarà comunque pubblicato sotto lo pseudonimo di Ruve Masada per Adelphi.
Non che il parere di Pontiggia, infatti, fosse sempre dirimente: del Seminario sulla gioventù di Aldo Busi, valutato nell’ottobre 1982, scrive che «ci sono troppi narcisismi, sia pure di segno negativo, troppo autobiografismo, non dico letterale, ma nel senso di una adesione troppo diretta alle esperienze raccontate», per cui, nonostante «le qualità del narratore […] non c’è un romanzo riuscito» (p. 51). Il romanzo uscirà nel 1984 per Adelphi. Traspare qui uno dei principi secondo i quali Pontiggia promuove l’esperienza a significato letterario: la distanza (temporale, mentale, eventualmente minima), un diaframma fra la vita e la rappresentazione). Nati due volte non sarebbe mai stato scritto senza quello scarto rispetto alla vicenda autobiografica che ha consentito all’autore di concepirne l’incipit e la messa a fuoco narrativa. Del resto, Pontiggia si è ripetutamente dichiarato avverso alle scritture che tentano di riprodurre la realtà in modo mimetico, o che prestano il fianco, a suo dire, a uno dei fraintendimenti più grandi della scrittura letteraria («resto dell’idea che sia fuorviante concepire lo scrivere come “trascrivere”»).[4] Più favorevole, pertanto, il suo parere su Sodomie in corpo 11 dello stesso Busi («ha trovato la misura giusta», p. 52), schedato nel maggio 1987 e pubblicato da Mondadori nell’88.
Questi documenti rimangono godibili anche quando Pontiggia è più incerto o parla di autori sconosciuti ai più. Piacevolmente sconcertato da Il punto nullo dell’artista Anna Valeria Borsari, libro sulla sabbia e sul fare castelli di sabbia che «segue un modello di enciclopedismo medievale», Pontiggia confessa «una deplorevole simpatia» non priva di retropensieri: «provo una irresistibile tentazione a proporla per la ‘Piccola’, ma mi aspetto Roberto al varco» (il riferimento è a Calasso). Di Giulio Cattaneo, biografo di Gadda (Il gran lombardo, Garzanti, 1973), Pontiggia legge per Adelphi La biblioteca domestica:«il tema esercita su di me una seduzione erotica cui mi è difficile resistere e non mi sento sicuro nel giudizio». Conoscendone la bibliomania, argomento su cui è tornato a più riprese in vari suoi scritti, c’è da pensare che non esagerasse. E per ragioni analoghe Pontiggia avrebbe ripubblicato pure l’«universo maniacale» delle Varie avvertenze utili e necessarie agli amatori de’ buoni libri disposte per via d’alfabeto dell’editore settecentesco Gaetano Volpi. Il testo di Cattaneo verrà pubblicato in realtà da Longanesi nel 1983, mentre quello di Volpi uscirà per Sellerio nel 1988, con il titolo Del furore d’aver libri.
Su Touching the Rock di John M. Hull, memoir che trasforma «una condizione di minorazione» nel «privilegio di capire», Pontiggia dà un parere positivo nel 1991, ma il libro vedrà la luce in traduzione italiana per Adelphi solo nel 2019. Non ci stupiamo però nel leggere l’apprezzamento dell’autore per un libro sulla cecità e sui limiti e le risorse della nostra visione, che «coinvolge il lettore proprio perché non fa alcun appello a una solidarietà patetica, ma lo rinvia continuamente alla sua vita, mentre gli fa vivere la propria» (p. 108): una definizione che avrebbe potuto funzionare come strillo di copertina per Nati due volte – e chissà se Pontiggia non avesse preso ispirazione proprio da Hull nel comporre il suo ultimo romanzo.
Ad impreziosire «Un libro che divorerei», oltre alla cura per i dettagli e alla grammatura e rilegatura della carta, anche alcune scansioni delle schede dattiloscritte, come quella su Perché leggere i classici di Calvino («questa raccolta dedicata ai suoi classici» che «di classico ha già il nitore e la sostanza») o sulle poesie di Vision in Spring di Faulkner («L’interesse è grande, ma il poeta è di gran lunga inferiore al prosatore», e tuttavia «per l’Almanacco sarebbe una presenza di fortissima attrazione»). Il volume offre poi anche una selezione di brevi stralci da stroncature di cui non è stato ritenuto opportuno specificare i destinatari, trattandosi di opere mai pubblicate, un campione delle lettere di rifiuto editoriale inviate da Pontiggia o suggerite a colleghi, nonché un breve saggio della curatrice Marcheschi, che giustamente rimarca l’importanza della raccolta. Le note conclusive danno conto del percorso editoriale delle proposte recensite.
Un libro per addetti ai lavori? Certo, ma non solo. Il volume si affianca a recenti e analoghe curatele come quelle di Riccardo Deiana e Federico Masci (Franco Fortini, Pareri editoriali per Einaudi, Macerata, Quodlibet, 2023) o Salvatore Silvano Nigro (Giorgio Manganelli, Estrosità rigorose di un consulente editoriale, Milano, Adelphi, 2016), ma si offre, in virtù della piacevolezza dello stile, anche come stimolante lettura per il pubblico affezionato a Pontiggia, così come a chi lo volesse scoprire.
Questa pubblicazione apre la collana Le Fondamenta della neonata casa editrice Palingenia di Venezia, a cui auguriamo ogni fortuna.
[1] Come spiega in un articolo, con riferimento alla nuova edizione de L’arte della fuga nel 1990. G. Pontiggia, «Niente è intoccabile. E così sia», in Corriere della sera, 13 maggio 1990.
[2] Da un’intervista di S. Giacomoni, La Repubblica, 10 maggio 2003.
[3] G. Pontiggia, “Inferno e paradiso della biblioteca antiquaria”, in L’isola volante, Milano, Mondadori, 2002 (1996), p. 24.
[4] Si veda la terza lezione in G. Pontiggia, Per scrivere bene imparate a nuotare. Trentasette lezioni di scrittura, Milano, Mondadori, 2020.
Giuseppe Pontiggia, «Un libro che divorerei». Pareri di lettura, a cura di D. Marcheschi, Palingenia, Venezia 2024, 319 pp. 30,00€