Colore puro di Sheila Heti (il Saggiatore, 2023), traduzione dall’inglese di Pure Colour ad opera di Federica Aceto, è un’opera sul dolore e sulla perdita, sull’amore e sull’esistenza, sul pianeta che abitiamo e la sua prossima distruzione. La protagonista Mira, una giovane donna che lascia il padre per inseguire il proprio sogno di diventare critica d’arte, sperimenta la morte di lui e l’innamoramento per Annie, oscillando tra le spinte opposte di due amori diversissimi e potenti. Si tratta della parabola esistenziale di un personaggio che ingloba il lettore, e alla fine delle pagine pare di aver attraversato insieme a Mira ogni piega del dolore e dell’amore, ogni interstizio del sentimento, di essere arrivati al colore puro delle cose, e ancora sentirlo sfuggire.

Mira ha delle ambizioni terrene, umanissime nella loro essenza, in un mondo in cui i padri spingono a realizzarsi al massimo, riversando nei figli le loro aspirazioni:

«È facile provare amore per i figli. Non c’è niente di più facile sulla Terra. Spesso i padri amano le figlie in modo speciale. È naturale voler riversare tutto il proprio interesse e il proprio orgoglio sui figli. È semplice amare le proprie creature. Ma aver ricevuto così tanto amore e tante attenzioni è un debito che i figli non potranno mai ripagare. È qualcosa di completamente sbilanciato» (p. 197).

La morte interviene nel bel mezzo di un discorso sulla critica d’arte, sulla considerazione di Manet come genio o come impostore, riducendo l’esistenza ad un’interrogazione sul senso della fine. L’entusiasmo giovanile di Mira pare avere una battuta d’arresto di fronte alla morte del padre, tanto che Mira accantona l’arte per un po’, pur continuando ad amarla più profondamente di suo padre stesso. La disperazione è così forte, in una nostalgia che la consuma, che la ragazza sente lo spirito di suo padre impossessarsi di lei: «Lo spirito di suo padre era astuto come una volpe visto il modo in cui si era intrufolato dentro di lei, e come le si muoveva dentro, furtivamente, proprio come una volpe. Ogni tanto le capita di sentirlo ancora che le si muove dentro quatto quatto» (p. 77). L’espansione di quello spirito riprende la tradizione freudiana del rapporto padre-figlia per rovesciarla entro un orizzonte postmoderno:

«Mira aveva sentito il suo spirito eiaculare in lei, come se l’intero universo stesse venendo nel suo corpo e le si spandesse dentro, proprio come fa lo sperma, la stessa sensazione calda e acre» (p. 90);

«Nel letto di suo padre si sentiva finalmente in pace, con suo padre tra le sue braccia. Cosa che lei non avrebbe mai fatto se lui non fosse stato in punto di morte: non si sarebbe messa nello stesso letto, non l’avrebbe riscaldato tra le sue braccia. Tutte le complicazioni della psicologia moderna le avevano impedito di fare una cosa del genere, e addirittura di pensare che desiderasse farla. Suo padre, tutto solo, che non aveva nessun’altra donna, a parte Mira» (p. 96).

Nella morte del padre Mira realizza l’amore totalizzante che lui le aveva riversato addosso, soffocandola. Così, nel dolore, Mira si disumanizza e diventa foglia: «Doveva essersi trasformata mentre la luce del sole splendeva sulla Terra come una palla d’oro, oppure era stata la marea a riportarla sulla riva, sotto un ramo, dove una parte di lei aveva cominciato a sollevarsi fino a intrufolarsi in una foglia dell’albero» (p. 112).

La trasformazione impossibile nel vegetale è il simbolo del passaggio ad una dimensione di puro dolore, di annientamento del sé umano alla ricerca della pace della morte, per sentirsi un tutt’uno con quel padre da cui le ambizioni, da lui stesso inoculate, hanno tenuto Mira lontana. Ma è anche la sperimentazione di una veste non-umana impensata, un’uscita dalla materialità spazio-temporale consueta per inoltrarsi in tempi, spazi e materie diverse. La rinascita alla vita umana è data dall’amore, dall’avvicinamento di Annie, che tuttavia le sfugge senza offrirle la possibilità di un amore duraturo. Cosa resta davvero, allora? Cosa davvero è, nel corso dell’esistenza?

Gli esseri umani vengono suddivisi fin dall’inizio del libro in tre categorie, che ricalcano le strutture favolistiche: uccelli (sognatori e astratti, esteti), pesci (pratici e attenti alla comunità, sociali), orsi (assolutamente devoti alla famiglia). Se Mira è un uccello, Annie è un pesce e le sfugge, mentre il padre è un orso, da cui Mira rifugge. Le tre categorie non possono che osservarsi e criticarsi, sperando ognuna che le altre si comportino in modo uguale al proprio, mentre questo non è mai possibile. Eppure il dolore scombina le carte, le muove per connettere in modi inediti, diversi, le tre categorie, e la vita non è che una sperimentazione dei limiti che l’essere nati da un uovo di uccello, di pesce o di orso comporta. Anche Dio, talora chiamato al plurale “dèi” per l’impossibilità di decidere tra unità e molteplicità, trova un’ampia parte in questa ricerca di senso: Sheila Heti, atea, lo umanizza, lo avvicina agli errori degli uomini e del mondo della prima bozza, lo immagina diverso in quella che sarà la seconda versione, quella migliore, del nostro mondo. La crisi climatica incombe sulla narrazione: i regni tradizionalmente separati – quello umano, vegetale ed animale, ma anche fungino e minerale – si mescolano ad accogliere ciò che potrà essere nel secondo mondo:

«Un giorno quel lago avrebbe inondato l’intera città per via dello scioglimento dei ghiacciai del mare, e l’intera città sarebbe andata distrutta, come qualunque persona lei avesse mai considerato sua amica, come quel pezzo di tronco, come questa foglia, come chiunque» (p. 112).

Ma più la vita di Mira continua, e con essa il libro, più la narrazione affermativa lascia il posto ai quesiti, sempre più insistenti, e maggiore spazio prendono gli spazi bianchi nelle pagine. Colore puro cerca l’essenza della vita, ma questa sfugge perché non è data all’essere umano, così come la struttura e la parola del libro sfuggono i formalismi e le briglie definitorie. Sheila Heti è non a caso considerata una delle voci più influenti delle cosiddette «Nuove Avanguardie letterarie»: Colore puro non è, infatti, né un romanzo né un saggio, come le precedenti opere di Heti, edite in traduzione da Sellerio – La persona ideale, come dovrebbe essere? (2010) e Maternità (2019). Se queste focalizzavano l’attenzione della scrittrice sul mondo umano, in particolar modo sul femminile, Colore puro si espande al tutto, allarga il respiro, divenendo un’utopia mistica e, insieme, una distopia realistica che non appartiene a nessun genere.

Il libro, suddiviso in nove capitoli, pare costruirsi contemporaneamente nel corso della scrittura e della lettura, come se i momenti ritratti nelle partizioni proposte avanzassero secondo i ritmi diversi del tempo della vita: molto lunghi i primi tre, corrispondenti al tempo della giovinezza, del dolore della perdita, dell’amore maturo; più veloci gli altri, i momenti della disillusione, dell’adattamento, delle domande. Le domande martellano la narrazione, che si frange man mano da una terza persona autobiografica ad una doppia voce in prima persona, in un dialogo che avviene tra i diversi sé che ci compongono. Sullo sfondo, la vicenda avviene in un mondo che è considerato la prima bozza di qualcosa che dovrà essere diverso, migliore di questo, in cui non ci saranno padri e gli dèi non abbandoneranno l’uomo al dolore per studiarlo. Una speranza dolorosa, ma commossa, tanto che nella lettura pare attraversare le stesse membra di chi legge. Vi è un passo in cui la scrittrice evoca l’entanglement di matrice quantistica:

«L’entanglement però io non riesco a immaginarlo. Sai cosa dice il principio dell’entanglement? No. Che due particelle hanno una determinata relazione fra di loro e che… eh sì. Anche a distanza. E se una delle due cambia, cambia anche l’altra. Istantaneamente. Come è possibile?» (p. 121).

Eppure, proprio la scrittura di Heti pare accogliere le scoperte rivoluzionarie della fisica quantistica, sperimentarle e renderle esperibili al lettore attraverso la sua materia. Non parlo soltanto della connessione di spirito tra padre e figlia, o tra Mira ed Annie: anche ciò che non è apparentemente logico (il nascere da uova di uccelli e pesci, e ancor più da uova di orsi) trova una sua logica, perché è il cambiamento e, insieme, la non visibile catena che lega il tutto a renderlo possibile. Si pensi agli dèi, che si annidano negli umani per studiarli e raccogliere informazioni per poterli ricreare migliori: anche a questo crediamo, mentre leggiamo, non secondo una fede, ma come a una tradizione familiare che è inscritta nell’essere umano di questa bozza imperfetta di mondo. Un mondo che, sconvolto dal dolore immane del singolo, e tuttavia estraneo alla piccolezza umana, mescola micro- e macrocosmi. Una favola sul dolore che assume la struttura fiabesca del lieto fine nella sua conclusione, in cui l’utopia sul prossimo mondo diviene utopia sull’amore tra gli umani, che la morte non esaurisce, ma espande in un eterno ritorno del bene:

«Mi racconti la storia di un uccello di nome Mira che aveva un’amica che era un bellissimo pesce, e nella storia ci sei anche tu, e sei un orso, e vivono tutti insieme per sempre? Certo, ma te la racconto domani sera. D’accordo, ti voglio bene. Ti voglio bene anch’io. Ti voglio bene! Adesso dormi però. Ti voglio bene. Ti voglio bene anch’io. Ti voglio bene! Potresti lasciare la porta aperta giusto un pochino? Ehi, dove stai andando? Da nessuna parte, non preoccuparti, sono di sotto, se mi cerchi» (p. 238).


Sheila Heti, Colore puro, traduzione di Federica Aceto, Milano, il Saggiatore 2023, € 18, 240 pp.