James, l’ultimo romanzo dell’assai prolifico Percival Everett, autore di oltre trenta libri tra romanzi, raccolte di racconti e antologie di poesia, si inserisce nel filone di quelle opere che entrano in conversazione, e per certi versi riscrivono, i grandi classici del canone letterario, spesso riproponendone le vicende dal punto di vista di un personaggio ignorato o svantaggiato nell’opera originaria. Un filone, questo, assai popolare, che conta ormai sia opere divenute a loro volta classici – prima su tutte Il grande mare dei Sargassi di Jean Rhys, riscrittura di Jane Eyre focalizzata sulla figura della “pazza in soffitta,” la prima moglie di Mr Rochester – sia romanzi che hanno ottenuto un enorme successo di vendite e di pubblico, come Circe e La canzone di Achille di Madeleine Miller.

Il fascino del genere è di facile comprensione. Esso offre infatti a un tempo la familiarità di storie note (almeno nei tratti principali) a ogni lettore, e la carica irriverente e ribelle di un approccio che ribalta le convenzioni, approcciando i lavori cardine del canone con un occhio schietto e privo di remore: vedasi ad esempio l’approccio femminista e post-coloniale del Mare dei Sargassi di Rhys, in cui Mr Rochester non è l’eroe tenebroso del romanzo di Charlotte Brontë, ma un padrone coloniale frustrato da una terra e da una moglie che non capisce, e che finisce per disprezzare e abusare. Questi stessi aspetti del genere comportano però anche criticità e problematiche intrinseche. Possono le “riscritture” dirsi indipendenti dall’opera prima? Costituiscono narrativa di stampo originale, o sono inevitabilmente condannate al rango di appendice e glossa, se non addirittura di “fan fiction?”

James, tradotto in italiano da Andrea Silvestri per La nave di Teseo, si propone come una rivisitazione de Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, colonna portante del canone letterario americano e romanzo definito da Everett stesso come “il primo romanzo ‘moderno’”. Protagonista dell’opera è James, lo schiavo fuggiasco che si unisce ad Huck nella loro discesa lungo il Mississippi, e la cui dignità e maturità umana e intellettuale è ristorata fin dal titolo del romanzo, che ne ristabilisce il nome proprio rispetto al nomignolo infantilizzante, Jim, con cui è puntualmente chiamato dai suoi padroni bianchi.

Il Jim di Mark Twain, sebbene personaggio profondamente umano e a tratti sagace, è infatti principalmente un sempliciotto, impulsivo e credulone, caratteristiche rappresentate nel modo più chiaro dall’idioma con cui si esprime: un inglese storpiato e sgrammaticato, tipico del modo di comunicare degli schiavi neri – almeno per come lo rappresenta Twain.

Fin da subito James riconosce e ribalta questi aspetti dell’opera prima. James si finge un sempliciotto perché questo è, per lui, il modo più sicuro di apparire innocuo dinnanzi ai personaggi bianchi, ed evitare i loro sospetti o la loro ira. Un passaggio di grande tensione nella prima parte dell’opera si dipana proprio da un momento in cui, dopo aver abbassato la guardia, James e un altro schiavo vengono uditi da un bianco di passaggio mentre ridono liberamente, suscitando la rabbia sospettosa di chi vede sedizione e inganno in ogni nero. A più riprese nel romanzo ciò che più disturba la popolazione bianca, ancora più dell’idea che un uomo nero possa guardare o toccare una donna bianca, è l’idea che gli schiavi afro-americani possano condividere il loro stesso linguaggio, e, per estensione, la vita interiore che esso denota e genera: l’idea stessa mette infatti a repentaglio le falsità su cui si basa il sistema schiavistico, come l’inferiorità e inumanità dei soggetti oppressi.

Persino l’idioma utilizzato dagli schiavi del romanzo non è altro che un grande travestimento, un modo di porsi che James insegna ai bambini nati schiavi presso la sua stessa piantagione: paradossalmente, non è la lingua dei padroni quella che James insegna ai più piccoli (i personaggi neri, tra di loro, parlano infatti un inglese ben più pulito di quello dialettale e sghembo, con marcata inflessione del sud, con cui si esprimono i bianchi); ma è la lingua che i padroni si aspettano di udir parlare dagli schiavi, considerati bestiali e ignoranti. Un altro modo per camuffarsi e mimetizzarsi, per non rivelare agli oppressori ciò che davvero si cela dietro i propri pensieri, e al contempo poter comunicare liberamente, senza dare nell’occhio. In un momento chiave del romanzo, un personaggio afro-americano dalla pelle chiara, capace di “passare” per bianco, si rivela a James proprio tramite la sua capacità di parlare a comando l’idioma degli schiavi.

Questo paradosso linguistico è fondamentale al romanzo, estremamente conscio del modo in cui linguaggio e personalità siano fusi in modo inestricabile, sia in chi si esprime che nella mente di chi ascolta. Huck si sentirà infatti profondamente confuso e tradito quando scoprirà che James si è sempre espresso con lui con un linguaggio artificioso, una vera e propria maschera verbale. È un aspetto, questo della lingua di James, la cui complessità è diluita nella traduzione italiana – costretta a confrontarsi con l’eterno dilemma di come tradurre un dialetto o un idioma popolare in una lingua straniera. Un dilemma reso ancora più problematico dal fatto che l’idioma proposto, qui, è quello di una popolazione oppressa, martoriata e sfruttata, difficilmente trasportabile in una diversa cultura in un modo che possa essere insieme accurato e rispettoso.

Questa attenzione all’artificiosità dell’identità in generale, e di quella degli schiavi americani in particolare, è evidentissima in un passaggio fondamentale del romanzo, in cui James si unisce brevemente a un minstrel show, uno spettacolo di musica in cui artisti bianchi si esibiscono in blackface, ossia con la pelle dipinta di nero, ed eseguono canti tipici delle piantagioni del sud, appropriandosi della cultura nera e mettendola al contempo in ridicolo in maniera esagerata e caricaturale. Il romanzo, in questi capitoli, assume i toni assurdi di un’opera di Swift o Sterne: James, uno schiavo nero, si ritrova costretto a fingersi un bianco che si finge nero, e addirittura a danzare la cakewalk, un ballo inventato dai neri proprio per prendersi beffa dei balli bianchi. Un cortocircuito che mette in luce la natura costrutta di concetti come cultura e razza, perfino in termini biologici, o almeno fisiologici: James, di carnagione chiara, è costretto a colorarsi il viso per sembrare sufficientemente “nero.” Un’artificiosità tanto ridicola quanto fatale. Confrontato con l’innocenza di Huck, che si chiede spesso come mai lui sia uno schiavo, James risponde a più riprese che lo è poiché è visto come tale. L’idea infantile e crudele che il possesso costituisca i nove decimi della legge è ripetuta spesso nel corso del romanzo, e acquisisce significati atroci in un mondo dove buona parte dei personaggi sono visti a loro volta come possedimenti.

Questa arguzia e complessità argomentative sono parte integrante dell’opera, e del modo in cui James, narratore oltre che protagonista, concepisce il mondo opprimente e ingiusto in cui è costretto a vivere. James è conscio, per esempio, di come il sistema economico globale veda gli schiavi sì come fonte di lavoro, ma ancor più come risorsa economica, come nodo in una vasta e ferrea rete di commercio e ricchezza, e gli è dunque chiaro che, se anche gli schiavi venissero liberati, la loro identità in quanto parte di questa rete non verrebbe fondamentalmente intaccata. «Non sarete più schiavi, ma non sarete liberi», dice a James Cunegonda, personaggio del Candido di Voltaire, in uno dei tanti passaggi onirici in cui l’opera dialoga con i grandi pensatori dell’illuminismo settecentesco, e con le loro posizioni sul tema della schiavitù. Non è dunque una sorpresa che James appaia disinteressato alle grandi questioni che animano la sua epoca e che restano, in ultima analisi, questioni che appartengono ai suoi oppressori bianchi. La guerra tra Nord e Sud che si profila sull’orizzonte del romanzo lo lascia freddo. Avendo convissuto quotidianamente con la paura e la morte, quale speranza di cambiamento genuino può arrivare dagli stessi bianchi che opprimono e uccidono i suoi cari, spesso punendoli per crimini puramente immaginari? Quello in cui James può sperare, piuttosto, sono traguardi immediati, concreti: sopravvivere un altro giorno; fuggire dai suoi inseguitori; e, soprattutto, liberare la sua famiglia dal giogo della schiavitù.

James è un romanzo al contempo immediato ed estremamente complesso, realistico ed assurdo, divertente e devastante. È in questa ambivalenza, in questo rifiuto dell’unità dei toni di stampo classico, che il lavoro di Everett rimanda in modo più chiaro all’opera di Twain, divisa anch’essa tra leggerezza e orrore. La trama di James procede veloce, con tempi brevissimi dedicati a contestualizzare le situazioni in cui si trovano i personaggi: James e Huck non fanno in tempo a finire nei guai che, nel giro di poche pagine, ne sono già usciti, e sono già vittime di una situazione ancora peggiore. È un romanzo dal ritmo agile – forse troppo – e, soprattutto nella sua conclusione, si ha la sensazione che le difficoltà della trama siano state risolte giusto grazie a un paio di ottimi colpi di fortuna. Al contempo, questa facilità narrativa non è certo accompagnata a una leggerezza tematica, che va ben oltre l’orrore della sua ambientazione storica ma si rifà alle grandi questioni storiche e filosofiche con cui James decide di giostrarsi. La libertà di un popolo in schiavitù può essere concessa dall’alto, da coloro che lo tengono sotto il proprio giogo? La violenza è sempre violenza quando è impiegata per salvare la propria vita dagli abusi dei propri oppressori? Si può fare distinzione tra padroni (e, per estensione, tra bianchi) “buoni” o “cattivi” quando tutti, direttamente o meno, traggono beneficio dalla macchina oppressiva della schiavitù?

Ci si potrebbe poi chiedere, dinnanzi a così tante questioni, quanto verosimile sia che James, uno schiavo autodidatta in grado al massimo di rubare qualche lettura occasionale dalla biblioteca dei suoi padroni, sia in possesso di un intelletto così fine e astuto, capace di giostrarsi tra le complessità storiche della sua epoca. Il romanzo stesso sollecita la domanda: confrontato con altre narrative di schiavi evasi, James è scettico della verisimilitudine di alcuni di esse, e dei retaggi nobili a cui questi schiavi dicono di essere appartenuti nel loro passato africano. È una domanda interessante ma in ultima analisi sterile, tanto quanto chiedersi se siano poi verosimili i tanti e rocamboleschi colpi di scena che contraddistinguono il viaggio di Huck e James lungo il Mississippi, in Twain come in Everett. James infatti si esprime sì per sé stesso, ma, attraverso il paradosso della narrativa – che dai materiali più intrinsecamente “personali” di un essere umano (pensieri, emozioni, ed esperienza) riesce ad estrarre temi e collegamenti universali – diventa condotto per le riflessioni, la miseria e il dolore di un intero popolo.

Simbolo chiave di questo paradosso è la matita con cui James scrive i propri appunti e mette in ordine i propri pensieri. Nel corso dell’opera, questa matita è descritta come il suo bene più prezioso: la custodisce come un tesoro, con grande sorpresa degli altri personaggi. Non è però un tesoro che James ha ottenuto per sé stesso. È piuttosto il prodotto di un favore fattogli da un altro schiavo, Young George, che la ruba al proprio padrone per regalarla a lui. Un favore che Young George pagherà molto caro, ma che consentirà anche a James di narrare la storia che Everett mette tra le nostre mani. James è quindi indubbiamente un romanzo di stampo psicologico, intimo: la storia di un uomo nato in condizioni di mostruosa difficoltà e costretto ad affrontare situazioni tragiche e rocambolesche. È però, inevitabilmente, anche la storia di tutti coloro con cui la sua vita e la sua mente si scontrano: la sua famiglia e gli altri schiavi, più o meno fortunati di lui; i suoi oppressori, con i loro crimini e le loro gentilezze; i grandi pensatori che hanno plasmato il mondo in cui vive. James è dunque un grande dialogo, non solo con Mark Twain ma con le tante identità, tanto artificiose quanto fatali, di un’America incapace di fare i conti col proprio passato.


Percival Everett, James, traduzione di Andrea Silvestri, Milano, La nave di Teseo 2024, € 20, 336 pp.