Le elezioni nei piccoli paesi sono un rituale che va oltre il semplice “diritto e dovere” del cittadino. Sono le ronde notturne, gli incontri nei luoghi più impensabili, i bar che si fanno sedi di liste civiche e gente che cammina sottobraccio sussurrando cose lontano da occhi indiscreti. È la corsa disperata per cercare i “riempilista” che non beccano nemmeno un voto ma servono lo stesso, alla comunità e soprattutto al candidato. Sono i ragazzi che ritornano per votare e quelli che restano per candidarsi; sono le persone che “mai voteranno quella lista” e, invece, fanno il contrario. Siamo «noi che viviamo […] un muro contro l’assedio di ciò che non vogliamo accettare» (p. 258), eppure «siamo uomini del mondo e conosciamo la vita» e proprio per questo abbiamo «l’ambizione di amministrarla» (p. 3).
Tutto questo Antonio Galetta lo sa bene e lo racconta con ferma lucidità adottando la voce di un noi narrante che avviluppa e trascina il lettore con un efficace climax fino alle ultime ore della chiusura della campagna elettorale.
Pietà, pubblicato il 24 settembre 2024 da Einaudi per la collana Unici, è l’istantanea dinamica di qualsiasi piccolo paese alle soglie di una tornata elettorale, di ogni singolo posto in cui «non si vota il partito, ma la persona» (p.176), perché nei paesi si crede nel singolo, nel salvatore, ma spesso ci si affida al gruppo. Un romanzo corale che mostra un mondo e un linguaggio alternativo, in cui anche ciò che è noto viene rappresentato sotto un’altra luce e, soprattutto, attraverso un punto di vista oggettivo e “atipico”. Galetta, in sostanza, scrive un romanzo originale e attuale senza ricorrere a espedienti narrativi che guardano più alla forma che al contenuto, non facendosi espressione, così, di quello che Cassola definiva «il conformismo degli anticonformisti»[1].
“Una storia semplice”, per dirlo con le parole di Sciascia: in un piccolo paese del Sud Italia è tempo di campagna elettorale e l’aria è più elettrica che mai. La routine scandita dalla lentezza e dalla prevedibilità, che solo la piccola provincia può avere, si trasforma in un palcoscenico in cui tutti sono attori e spettatori, protagonisti di una storia che da individuale si trasforma in universale.
Pietà racconta un Potere che non si vede ma che si conosce fin troppo bene: sono note le modalità in cui esercita il suo controllo sulle libertà altrui; sono noti gli strumenti a sua disposizione; sono note anche le pedine che utilizza sulla complessa scacchiera. Ciò che non è noto, invece, è la quantità di potere che ciascuno individuo eserciterà e a discapito di chi. Ecco allora “spiegato” il titolo stesso del romanzo: un’invocazione nei confronti dei personaggi; del resto, fin dalle prime pagine si avverte un senso di compassione e di consapevolezza. Ognuno agisce per una “giusta” causa e quindi il lettore non può fare altro che provare pietà verso la condizione umana raccontata per mezzo di un’allegoria moderna come quella della campagna elettorale.
La vicenda è raccontata da una voce narrante declinata alla prima persona plurale, claustrofobica ma allo stesso tempo rassicurante, che potrebbe essere associata alla riflessione che Knausgärd fa in Min Kamp. Sjette bok quando analizza alcuni versi di Paul Celan.
Si può essere qualcosa in relazione al niente. Ma non si può essere qualcuno in relazione a nessuno: si può essere qualcuno soltanto in relazione ad altri[2].
“Noi” o “loro” è l’eterno conflitto che accompagna il lettore per tutta la narrazione: lo aliena, lo confonde, lo intimorisce e, a volte, sembra togliergli la consapevolezza di trovarsi di fronte a una finzione letteraria. Lettore o elettore? Verrebbe da domandarsi, perché tutti i candidati che intrallazzano qua e là con lo spicciolo Potere locale hanno dei validi temi su cui fondare la loro campagna elettorale e su cui basare il proprio tornaconto personale.
Nel nostro paese, tutto ciò che uno fa, lo fa in nome di se stesso oppure della propria famiglia, o al massimo della propria azienda o del proprio partito. Ma questo è il problema del nostro tempo (p.156).
A prescindere dai vari schieramenti in campo, si percepisce come il fulcro della narrazione sia un hic et nunc in cui il noi narrante non solo si mostra informato sui fatti, ma anche sulla psicologia dei personaggi. È un narratore onnisciente che però non prende posizione; un occhio vigile che, pur conoscendo nei minimi particolari la vicenda e la sua risoluzione, non mostra alcun tipo di sbilanciamento. Al contrario: dondola il lettore tra un rigo e l’altro fino a fargli provare empatia verso tutti i personaggi, come spesso accade nei romanzi in cui non ci sono i buoni e nemmeno i cattivi.
Un’idea buona, attenzione, ma una sola. Più la ripeti e più la fai meglio; meno si capisce e meglio è. La cosa più sbagliata è prendersi delle responsabilità, e la peggiore in assoluto è dichiarare delle ambizioni (p.233).
Più che una riflessione sembra un passo tratto dal vademecum della società dei consumi fondata sull’individualismo assoluto. Il piccolo paese in cui Galetta ambienta la vicenda è la rappresentazione universale di una condizione critica, è la nazione intera mostrata su scala ridotta. Ci sono i tratti di quella italianità che «sale come l’ago di mercurio»[3] e che oggi più che mai vede i risultati della plasmazione antropologica iniziata negli anni del boom economico e già osservata e denunciata alla metà degli anni Settanta da Pasolini. Il piccolo paese è un bivacco di avvoltoi che si azzuffano per spartirsi quel che resta di una carcassa ormai spolpata e ciò è mostrato attraverso il “nuovo che avanza”: un giovane candidato utopista con idee moderne, rivelatosi ben presto nient’altro che il trentenne che erano i sessantenni di oggi. Questo ragazzo, fondatore di Casa dolce casa, la lista creata per «fare il bene dei figli non ancora nati» (p.14), è la rappresentazione massima dell’arrivismo che diventa tale quando la forza e la valenza delle proprie ideologie si scontrano con la realtà:
[…] ha come la certezza che presto o tardi rimarrà solo, e allora, per un attimo, gli sembra di essere un megalomane arrogante, e uno che sconta le proprie illusioni sulla pelle degli altri e in realtà non ha voglia di sacrificare niente per nessuno, e neppure di sentirsi a disagio per motivi che non ha scelto lui (p.192).
Il giovane candidato e la «donna che ci tradirà» sono le due facce di un Potere a cui le persone non sono ancora pronte o, forse, non accora sottomesse. Entrambi cavalcano la rabbia e la disperazione della gente: una lo fa parlando alla pancia dei cittadini attraverso una politica reazionaria; l’altro, invece, mostrandosi pionieristico e sognatore, si fa beffe di ogni cosa, certo che la sua visione del mondo sia la sola possibile, legittimato dalla sua giovinezza, come se questa condizione fosse a prescindere sinonimo di qualità e originalità. A lato di questi due opposti che, per forza di cose, si attraggono, ci sono gli schieramenti “tradizionali”, capaci di adattarsi e reinventarsi a seconda del contesto, che riempiono la scena da sempre, di cui tutti sono stanchi, ma che poi puntualmente vengono votati. È il Potere pasoliniano, quello con la p maiuscola, quello che non si riconosce più nel Vaticano, nei Potenti democristiani e tantomeno nelle Forze armate. Un Potere che esercita la smania “cosmica” di attuare fino in fondo lo sviluppo: produrre e consumare[4]. Un Potere che non puoi sconfiggere perché non vuoi combatterlo: è rassicurante, un “noi” che ti attanaglia dolcemente e che ti pone contro il resto, contro “loro”.
Appare evidente, allora, come la dicotomia “noi-loro” in realtà non esista affatto perché “loro” sono soltanto un altro “noi” posto dall’altra parte, un po’ come avviene in Canzonenoznac di Roberto Vecchioni in cui, i due leader politici, si sospettano a vicenda, mostrando però «alla rinfusa due volti di una stessa accusa».
Il contrasto si mostra anche sul piano dell’ambientazione che influenza la psiche dei personaggi. “Città – paese” è oggi tema attuale e spesso abusato; mostrare il margine come centro è attività sempre più gettonata tra romanzieri; anche Galetta affronta la questione ma la “riduce” a un piccolo dramma borghese e individuale. «Cosa vuol dire tornare in un posto, e cosa vuol dire restare?» (p.200). Le elezioni sono il “pretesto” per mostrare dall’alto il piccolo paese e ignorare che alle sue porte divampa un grande incendio che tutti credono di avere sotto controllo. Il paese, il bar, la vita lenta… eppure quando sei in città ti manca il paese e quando sei in paese ti manca la città; trovare una giusta collocazione è oggi assai complicato e i personaggi di questo romanzo lo sanno bene: cittadini del mondo, eppure fuori posto in ogni luogo.
Galetta mostra con semplicità ciò che realmente è un paese, rappresentando davvero quella che Guccini descrive come «la grazia o il tedio a morte del vivere in provincia». E allora le elezioni, nel romanzo come nella realtà, non sono solo un avvenimento: sono un appiglio all’ultima voglia di salvare e di salvarsi, l’ultimo scatto di ipocrisia possibile o il disperato tentativo di approntare davvero un cambiamento per il bene collettivo, per i bambini che dovranno nascere e che andranno via e per quelli che invece sono tornati. Pietà, dunque, anche verso le disgrazie collettive che servono ad ammortizzare e ad accettare quelle individuali. Pietà anche verso “l’oplitica” (p.148) e tutte le sue forme perché «c’è di tutto, in una vita umana» e quindi:
Si alzi in piedi chi ha la pietà per lanciare uno sguardo grandangolare sul mondo, pensarsi come parte di qualcosa, qualunque cosa che sia più grande di se stesso. Non come un grande battaglione che lotta contro altri battaglioni schierati (p.255).
Forse un messaggio di speranza, forse un invito; oppure, più semplicemente, una constatazione: uno sguardo sui nostri tempi raccontati attraverso le piccole e “insignificanti” elezioni di un piccolo paese di una remota provincia del Sud Italia, in cui è possibile trovare un forte riscontro sullo stato generale dell’attuale società, priva di punti di riferimento, spaesata, bombardata di informazioni e che, nonostante tutto, mostra ancora una scintilla e non cede all’arrendevolezza.
[1] C. Cassola, Il romanzo moderno, Rizzoli, Bologna, 1981, p.196.
[2] Knausgärd K. O. Fine, Feltrinelli, Milano, 2022, p.508.
[3] Sciascia L. Il giorno della civetta, Adelphi, Milano, 1993, p.57.
[4] Pasolini P.P. Scritti corsari, Garzanti, Milano, 2015, pp.45-50.
Antonio Galetta, Pietà, Einaudi, Torino 2024, 272 pp. 18,00€