Bresso non ha piazze, ha solo rotonde che regolano il traffico nei punti in cui si intersecano le vie che costeggiano i lotti di palazzoni; la città è uno stradone dove si riversano tutti quelli che devono correre a Milano per lavoro o per qualche altro motivo spingersi a Nord: Desio, Seregno, Carate, il Triangolo Lariano.
La vecchia strada romana, voluta pare da Giulio Cesare per collegare Milano a Bellagio e da lì proseguire via lago verso le Alpi e il passo dello Spluga, nasce come deviazione della Comasina, prende il nome dalla Valle di Asso dove è diretta e ogni comune che grazie a lei è cresciuto l’ha battezzata con luoghi e nomi diversi. Appena superato il primo miglio, si tuffa nella più giovane arteria intitolata al Re di Napoli e cognato di Napoleone, per costeggiare il muro di cinta dell’ospedale di Niguarda.
Ne omaggia i Benefattori soltanto per qualche centinaio di metri, visto che dopo l’ingresso monumentale del nosocomio, superati i gruppi scultorei di Arturo Martini e Francesco Messina, diventa via Graziano, imperatore di cui non ricordo assolutamente nulla.
È via Ornato che si apre al Parco Nord con un parcheggio al servizio del capolinea di un tram che proseguiva lungo le rotaie ancora presenti che si allungano tra immondizia e piante infestanti fino al termine di Desio: in questo punto si torna a vedere il Seveso, il torrente che a ogni nubifragio vomita fango e veleni fuori dal suo alveo di cemento e asfalto; in questo punto si colloca il limes meridionale dell’antica Brixium, tra l’insegna di un centro commerciale “il Gigante”, un cantiere abbandonato e un paio di campi da calcio a sette in erba sintetica.
Vittorio Veneto con questo ex feudo di conti del Sacro Romano impero non avrebbe avuto nulla a che fare se non si fosse tenuto l’ultimo scontro armato tra regio esercito e truppe imperiali prima della firma dell’armistizio di Villa Giusti.
Da foglio matricolare, in quei mesi mio nonno risultava fuori dal territorio dichiarato in stato di guerra e “tale in luoghi di cura territoriali” per aver perso un piede nella notte tra il 23 e il 24 agosto del 1918, colpito da una scheggia di bomba a mano nemica mentre “operava all’Isola Caserta (Piave) colla 6^ compagnia del 267^ fanteria” come risulta da dichiarazione del 83^ fanteria Pistoia in data 6-6-935.
La ricostruzione del registro militare è lacunosa e contraddittoria, e soprattutto non si capisce cosa ci facesse in un ospedaletto da campo il 22 agosto, due giorni prima del ferimento. Le date fanno a pugni sui documenti di archivio che sono riuscito a consultare, non saprei se per dolo o colpa. Quello che è sicuro è che dal piede la cancrena gli ha portato via la gamba sinistra fin sopra al ginocchio.
Così come è certo che tra il 1918 e il 1935 Brambilla Carlo di Angelo ha cambiato un paio di case. Il congedo illimitato lo ha raggiunto in via Vittorio Emanuele n. 6, la strada che dalla nostra Valassina-Vittorio Veneto porta alle due ville di delizia dei nobili milanesi, alle vecchie scuole del paese e alla chiesa parrocchiale. La pensione di grande invalido gli ha permesso poi di ottenere facilmente la licenza di privativa e aprire così la rivendita di generi di monopolio lungo l’arteria principale: sali, tabacchi, valori bollati, chinino.
Ho comprato su eBay una vecchia cartolina: a sinistra, all’ombra dei bagolari che sovrastano il muro della villa dei conti Patellani, un operaio in maglia della salute e bretelle guarda in camera, mentre un paio di colleghi si danno da fare con un piccone. Sulla destra il portone di una corte si apre su due file di binari, il fabbricato di due piani si allunga verso una villa con piano nobile, e sopra la prima coppia di tende che si protende verso la strada e ripara dal sole passanti e avventori, in bianco su sfondo nero, spicca l’insegna della Regia Privativa del nonno Carlo.
Quando mia nonna Teresa, sua moglie, è riuscita a ottenere un appezzamento di terreno a prezzo di favore dalla contessa Patellani, hanno costruito casa all’altezza del quinto cippo miliare che con i secoli è diventato un oratorio di campagna, un lazzaretto, un santuario.
Il Pilastrello, ufficialmente Santuario della Beata Vergine Maria delle Grazie, è schiacciato tra il grattacielo del Magni e la casa del Ligi, un tempo “Club” della ISO Rivolta, ristorante con giardino.
La chiesina custodisce un affresco di fine Trecento di una Madonna con Bambino che il mercoledì Santo 12 aprile 1514 pare abbia sudato e pianto copiose lagrime.
Negli anni Trenta la famiglia di Carlo e Teresa era allietata da un figlio, l’unico. Eugenio si avviava verso i dieci anni, nuotava nelle rogge e nei canali che portavano acqua ai campi: si estendevano per gran parte del territorio di Bresso, che il regime aveva innalzato allo status di comune, affrancandolo da frazione del territorio di Affori e Uniti, assorbito dalla grande Milano.
La città si è presa i campi e ha intombato le acque trasformando la pianura in un Carso di bitume, le macchine sfiorano i muri del Pilastrello percorrendo il tratto iniziale di via Villoresi, che prende il nome dal canale che ha seppellito e da cui si dipana il reticolo di rogge che dava acqua alle coltivazioni di frumento e mais. Nel disegno regolare delle proprietà si allineavano in parata i gelsi, i moroni da cui lo Sforza che ne ha imposto la piantumazione ha preso il soprannome.
All’inizio del dominio dell’ingegner Villoresi si innestano via Santa Chiara e via Archimede che delimitano un parchetto, da sempre zona franca: al tempo in cui frequentavo le elementari John Kennedy poco distanti era frequentato dagli eroinomani, decimati con il passare degli anni, sostituiti dalle compagnie che lo raggiungevano per spegnere i pomeriggi con gli ultimi tiri di cilum. Giacarta da qualche anno è stato affidato ai volontari di quartiere, dopo essere stato intitolato a Lucia, con cui ho trascorso moltissimi momenti felici, che ci ha lasciato un anno dopo mio nonno Eugenio.
Me ne tenevo distante quando andavo a prendere la merenda al panificio di fronte, una pizzetta per cinquecento lire; una volta cresciuto ci andavo a scambiare qualche chiacchiera con gli amici dell’oratorio in libera uscita, quando le versioni di greco e latino mi concedevano un po’ di tempo da buttare. Da quando è recintato e all’ingresso c’è la targa con una delle poesie di Lucia non ci sono più entrato.
Dopo la scuola, la palestra di Luca, il Body Time, che combatte da anni contro la concorrenza delle catene, dopo un paio di appartamenti bordo strada che hanno sostituito il cartolaio dove compravo i fogli protocollo, una pasticceria e un bar, la strada sfocia in piazza Italia.
Piazza Italia è un’aiuola circolare di mattoni di tufo da cui si inchinano sul pavé malmesso cinque lampioni, come tulipani stanchi, imbalsamati in quel limbo che precede la pioggia di petali appassiti. Al centro si erge un ulivo, strappato dai filari pugliesi e piazzato lì in mezzo al rombo di motorini truccati, autobus e utilitarie. Non c’è più traccia di linfa, sostituita da una soluzione di glicerina che dona alla chioma una rigogliosa sicumera. Un monumento trapiantato come generazioni di immigrati del Sud che hanno trovato lavoro, famiglia e la possibilità di tornare al paese per le feste con un nuovo status sociale prima di risalire a Bresso con un pacco da giù carico di primizie e nostalgia.
Per ritrovare i gelsi bisogna allontanarsi dalla muraglia di clinker e vetro dei palazzi di via Gramsci che si affacciano sul campo d’aviazione, inoltrarsi nei vialetti in terra battuta del Parco Nord, verso i suoi laghetti, lasciarsi avvolgere dalla loro ombra e dall’afrore alcolico delle more in decomposizione. Le cornacchie e pochi, coraggiosi passeri piluccano i rimasugli dei frutti e si allontanano solo per il tempo necessario a lasciarvi passare, poi tornano a farsi inebriare dalla polpa corrotta dalla polvere.
Le more di gelso cadono dopo le nevicate di semi dei pioppi, reperti di un mondo contadino soppiantato dalle fabbriche che ho visto scomparire, come le cascine, abbattute per fare spazio a nuove case e supermercati mentre la popolazione è crollata dopo il picco degli anni Settanta, quando un luogo comune da istruzione elementare voleva Bresso città più densamente popolata del mondo.
Visconti, Sforza, Arconati, Litta, Arese, Arcimboldi, Borromeo, Simonetta, Mirabello, Casati, Schleiber, Tittoni, Stampa di Soncino Greppi, Carcano, Paleari, Fontana, Colleoni, Clerici, Rigamonti, Conti, Perini, Patellani; per ogni palazzo all’interno delle mura di Milano le famiglie nobili avevano una o più ville gentilizie nelle campagne dell’Alto milanese. Là le corti si trasferivano in villeggiatura per godere del clima più fresco, al limitare dei boschi dove la vista spazia fino alla corolla delle Prealpi su cui si impongono le cime che bucano la caligine estiva.
In fondo a via Centurelli, un tempo Vittorio Emanuele, sono rimaste due ville dei feudatari del paese, i cui nomi ora sono un elenco dei proprietari che nei secoli ci hanno dimorato: villa Patellani De Bortoli Rivolta e villa Conti, Perini.
I Rivolta sono stati gli ultimi proprietari della prima, a sud del parco hanno costruito i capannoni della loro ISO dove hanno cominciato fabbricando frigoriferi e hanno finito costruendo fuoriserie per i divi di Hollywood prima di fallire con la crisi petrolifera degli anni Settanta. A quel punto hanno ceduto i capannoni e venduto la dimora frazionata in decine di appartamenti.
Sono rimasti gli scheletri della fabbrica che nel corso degli anni ha voluto essere museo e circolo culturale ma è riuscita a ospitare soltanto le poste e una volta l’anno i tavolacci della sagra patronale.
Il parco invece è stato in parte donato, e lì da qualche anno in un rigurgito spazio-temporale il 17 gennaio si bruciano pallet, sedie, telai di finestre e altri rifiuti in legno per tenere in vita la tradizione contadina del falò di Sant’Antonio. Le bestie da benedire che arrivano dall’agriturismo dei Ranza si aggirano nei recinti improvvisati a ridosso del cantiere del museo, i bambini si avvicinano impauriti ad accarezzare asini e pecore. Con Adele sulle spalle e Pietro per mano, osservo alzarsi le fiamme alimentate da spruzzi di cherosene.
Non distante da casa nostra c’è un pratone di proprietà della casa farmaceutica Zambon dove ogni anno vedevo alternarsi le pecore dei Ranza alle giostre della sagra della Madonna del Pilastrello.
C’è stato poi un tentativo di adibirlo a spazio concerti, e tra gli altri Allevi ha suonato il pianoforte davanti a qualche centinaio di spettatori, prima che venisse costruito il complesso Oxy.gen disegnato da Michele de Lucchi: “luogo di scienza dedicato al respiro”.
A pochi passi dalla sfera avveniristica sopravvive un gelso che a giugno si riempie di more bianche; ha un fusto ampio, segnato da brecce e cavità, che a un metro da terra si divide in tre branche. Lì Pietro ancora si diverte ad arrampicarsi, ad appendersi, a saltare da una biforcazione all’altra dei rami.
Attraversiamo via Campestre per nasconderci tra le fabbriche spente: la Zambon, le carrozzerie accanto; l’ex Cino del Duca dove si stampavano i rotocalchi, ora occupata dal distributore di coltellini svizzeri; la Novelis, un tempo Angeletti e Ciucani; poi partiamo dal pioppo secolare di via Ariosto, con già le radici coperte da montagne di pappi di peli che si muovono con sbuffi di nevai alpini, per risalire via Madonnina, verso casa dei miei, che è stata casa di Eugenio e Rosa, i miei nonni, e prima ancora di Carlo e Teresa.
Passando accanto al giardino, un tempo campo da bocce e poi autorimessa, mi perdo come sempre nel profumo che piove dai tigli e impregna ogni cosa. La resina che mentre cammino trattiene le suole sull’asfalto è, per me, l’essenza dei giorni che anticipano l’arrivo dell’estate.
I tigli sono una divagazione recente, borghese, una citazione dei boulevard. Ne hanno abbattuto un filare, qualcuno dice perché le chiome coprivano le insegne della Fabbrica dei Sapori, qualcun altro sostiene che fossero malati, fatto sta che non è stato piantato altro, in attesa che vengano portati avanti i lavori della metrotranvia di cui si parla da più di vent’anni, e che ora pare siano iniziati.
Come percolato dei filò che intrattenevano generazioni di contadini nelle sere, al caldo delle stalle d’inverno o nel fresco delle aie in estate, rimangono i pettegolezzi che coinvolgono i cambiamenti che dovrebbero rivoluzionare l’assetto di una città che da anni agonizza in cerca di un’identità.
Ogni tanto si muove qualche comitato di quartiere per preservare lo status quo: contro una vasca di laminazione che dovrebbe risolvere il problema delle piene del Seveso; contro la metrotranvia che così come è stata studiata non serve più a nulla, quando sarebbe più utile prolungare una delle due linee della metropolitana milanese che lambiscono il territorio bressese ma di fatto non lo uniscono alla grande metropoli, dal cui centro è lontana poco più di cinque miglia.
Supero i cantieri che bloccano il passaggio davanti al punto in cui, rispetto alla cartolina di prima, sono cresciuti due palazzi che ospitano una banca e un’enoteca prezzolata frequentata dai nuovi ricchi che posteggiano le fuoriserie in doppia fila tra le transenne. A Pietro e a Adele mostro il palo accanto al quale ogni mattina aspettavo il trenino che mi portava a scuola a Desio, al collegio Arcivescovile Pio XI.
Eravamo un pugno di ragazzini pendolari a fare quel tragitto tra fischi agli incroci, stracci dismessi di campagna e saliscendi di operai e segretarie che si spostavano tra gli opifici della Bassa Brianza che già respiravano aria di crisi in quegli anni di processi alla politica, bombe di mafia e grandi interessi economici stranieri nei confronti delle nostre industrie. Quei discorsi mi arrivavano mentre ripassavo la lezione di storia, o giocavo a carte con gli altri studenti, tra uno sfottò calcistico e l’altro. A Desio il tram incrociava le bisarche che uscivano dalle linee di produzione della Autobianchi, cariche di Panda o di Y10.
C’era già la Panda? chiede Pietro.
Annuisco a fatica, con Adele che inizia a pesare sulle spalle mentre il dolore dal collo si trasmette alla testa, dove piani temporali si confondono elidendo prima, durante e poi.
Ora in groppa ho la mia piccola, fino a poco tempo fa al suo posto c’era Pietro a tenermi compagnia, a passare il tempo insieme passeggiando lungo le traverse di via Vittorio Veneto che portano al Campo Volo. Arrampicati tra le mie fronde, i miei figli osservano partire e arrivare i piccoli aerei da turismo con livree anonime o sgargianti. Con lo sguardo li seguono perdersi oltre le nuvole e poi riafferrano il rumore che preannuncia l’atterraggio di un elicottero giallo, una delle eliambulanze che si appoggiano tra gli hangar della vecchia base Aldebaran.
Affacciato dai finestroni della club house, in camicia bianca da cameriere, sudato, a fine turno vedevo spegnersi il sole con in sottofondo la tromba che suonava il silenzio tra le camerate degli avieri. Ci mettiamo a sedere a uno dei tavolini non più riservati ai soli soci e ordiniamo da bere, un caffè e due succhi di frutta.
È una bella giornata, fuori gli aerei continuano a decollare e dentro io continuo a rimuginare e raccontare del perché c’è questo mini-aeroporto, proprio qui. Degli aerei della Breda aeronautica costruiti su licenza Caproni durante il primo conflitto mondiale, dello squadrone caccia in stanza negli anni dell’ultima guerra, dispiegato a difesa di Milano.
Quello che Pietro chiamava “il castello dell’Orco” è un rifugio anti-scheggia per difendersi durante gli attacchi aerei. Il nonno Eugenio, dopo la Liberazione, insieme ai compagni della 119 brigata S.A.P. ha presidiato hangar e pista fino all’arrivo degli inglesi.
Forse anche per quella convivenza ravvicinata nei primi anni della Liberazione mio nonno odiava gli inglesi. Non li ha mai potuti soffrire, salvo ricredersi quando insieme in Inghilterra ci abbiamo passato le vacanze e ha iniziato a bere il tè con il latte e a sognare le enclosures che confinano i pascoli di un verde mai uguale, soggetto ai capricci delle ombre delle nuvole frullate dai venti, percorsi da greggi e toccati dagli animali selvatici, nella sua personale visione di un’Arcadia perduta, quella della sua infanzia.
Ci sono posti di Bresso con cui non ho mai preso confidenza, dove passo di sfuggita con la macchina e che raramente includo nel mio girovagare; anche quando correvo, mi preparavo per le maratone, preferivo non passarci ed entrare direttamente nel Parco Nord dagli accessi più vicini a casa: sono le zone a ridosso del ponte dell’autostrada che segna il confine con Cusano, da dove l’autocolonna di blindati tedeschi ha sparato al partigiano Centurelli. Lì ci sono fabbriche, il Julep, famoso per essere l’unico locale milanese con vista sull’A4, qualche casa tra i capannoni e la vecchia sede della Lancome, la skincare francese made in Bresso.
Il Carrefour, un tempo GS, un circolo di biliardo dove ho fatto qualche partita con il mio amico Carlo, che adesso abita a Bruxelles, la ditta del papà di Alberto, mio compagno delle elementari, e ora anche lui scrittore a mezzo servizio. Anche qui rotonde decorate alla bell’e meglio da arbusti spelacchiati, mentre le aiuole del parco del cimitero sono curate dalla Lidl che fronteggia l’accesso di un breve vialetto delle rimembranze costeggiato da cipressi: ognuno di loro aveva un nome, cognome, grado, anno di nascita e anno di morte, prima che eliminassero le targhe poste sotto ogni tronco, a ricordo di ogni soldato bressese caduto nella Grande guerra.
Bresso è una strada, non ha piazze, ha rotonde e tanti, tantissimi monumenti a memoria di qualsiasi cosa.
Da piccolo per andare al parco di via Milano, che in realtà è sempre quello ceduto di Rivolta e che faceva parte della villa Patellani, passavo di fronte all’aquila in acciaio inox del monumento agli Alpini. Per decenni è stato l’unico, fino a quando il comune ha pagato dazio all’associazionismo concedendo uno spazio per il monumento ai Bersaglieri, dove ha trovato collocazione la statua di un militare in procinto di lanciare una bomba a mano contro le case della cooperativa Aurora. Il capolavoro in bronzo arriva dalla caserma del 3^ reggimento Legnano, ha fatto poca strada, traslocando da viale Suzzani, davanti all’ex Manifattura Tabacchi.
Per il 75^ anniversario della Liberazione è stata posata la statua del Partigiano scolpita dal Chicco; con il suo fiore si lascia morire su un masso oriundo, come i bressesi che partecipano alla sfilata del Venticinque aprile. Poi è arrivato il monumento ai Carabinieri, al confine con la ciclabile e il miglio rosa che delimita il parco: si tratta di una specie di aiuola con la fiamma e il pennone del tricolore, circondati da qualche primula, dove per non farci pisciare i cani è stata messa una recinzione verdina.
In realtà Bresso aveva già il suo monumento ai caduti, come tutti i paesi di tutta Italia: una colonna davanti alla ex scuola, ora Casa di Comunità, che si trova in faccia all’accesso della onnipresente Villa Patellani. Forse, per una popolazione che invecchia, non era sufficiente a tenere viva la memoria.
E di cose da tenere a mente a Bresso ce ne sono tante: i caduti della Resistenza (antecedente al Partigiano), la strage di Nassiriya, le foibe, la strage di piazza Fontana, Paolo Foglia – per chi non lo sapesse è un ragazzo di Bresso morto annegato nel Ticino a Bereguardo dopo aver salvato tre persone – e altro ancora, inciso su targhe sparse per il parco delle Rimembranze, accanto al cimitero.
Negli anni Ottanta ci avevano portato lì a vedere uno degli ultimi gelsi superstiti di Bresso, prima che fossero ripiantumati qua e là per il Parco Nord; passeggiando con Pietro e Adele non l’ho più trovato, in compenso accanto a una fontanella c’è un ginkgo, una specie di conifera, tra le più antiche che esistono sulla faccia della terra. Forse ancora di più della sequoia.
È una macchia gialla tra cipressi e cedri, non passa inosservata alla vista e nemmeno all’olfatto: una delle prime volte che ho viaggiato in Corea mi perseguitava un odore insopportabile di fogna, ero estasiato dal foliage di Seul ma non mi spiegavo quella puzza in tanta modernità. Ho scoperto soltanto dopo aver pestato uno dei frutti del ginkgo quale fosse la fonte di quell’afrore, come avere sotto la suola una merda di cane: esperienza impossibile da fare in Corea, quotidianità a Bresso.
Gli alberi segnavano i confini, erano i punti di riferimento nelle distese di miglio, frumento o formentone. Nelle corti qualche essenza da frutto colorava le primavere e le estati per addolcire e variare le pietanze in tavola: fichi, mele, noci, nocciole, nespole, prugne, ciliegie.
Per Adele sono un albero: mi si arrampica sulla schiena e arrivata alle spalle raccoglie quello che più desidera; per diventarlo ci sono voluti anni in cui la radice principale, il fittone, ha scavato in questa terra dell’hinterland, mentre le scaturigini hanno preso biforcazioni in ampiezza e profondità. Fiori, frutti, ombra e respiro lungo le strade di queste città incompiute.