Dopo aver vinto il premio Pulitzer nel 2017 con il memoir Il ritorno. Padri, figli e la terra fra di loro e aver pubblicato il breve saggio narrativo Un punto di approdo nel 2019, Hisham Matar torna in libreria con Amici di una vita (Einaudi, traduzione di Anna Nadotti), un romanzo corposo, articolato, al contempo storico e politico. L’intera trama ruota intorno a uno degli eventi più noti e drammatici della storia libica degli ultimi cinquant’anni, ovvero la sparatoria consumatasi nel pomeriggio del 17 aprile 1984, durante una manifestazione anti-Gheddafi, di fronte all’ambasciata della Libia a Londra, in cui, oltre a una decina di feriti, rimase vittima una poliziotta inglese.

Khaled, il protagonista del romanzo, è un ragazzo appena maggiorenne, appartenente a una famiglia benestante di Bengasi, che si trasferisce a Edimburgo per studiare letteratura all’università, dove fa presto la conoscenza di un suo connazionale, Mustafa. Con l’ingenuità e l’incoscienza propri della gioventù, i due decidono, dopo pochi mesi, di recarsi a Londra per partecipare a una protesta organizzata. A muoverli non è tanto una radicata coscienza politica, né tantomeno un dovere di militanza, ma la curiosità, l’ardore e quel senso di nuove, infinite possibilità che la vita all’estero sembra magicamente dischiudere. Senza supporre che ciò che sta per accadere a breve cambierà per sempre il corso delle loro esistenze, Khaled e Mustafa, coinvolti nella sparatoria, vengono raggiunti da alcuni colpi provenienti dalla finestra dell’ambasciata, rimanendo gravemente feriti. In poche ore la loro vita precedente svanisce, tramutandosi in un doloroso miraggio che li perseguiterà per decenni. Essendo diventato impossibile fare ritorno in patria, entrambi decidono di abbandonare l’università, dove sono ormai compromessi agli occhi degli altri studenti libici, per trasferirsi a Londra. Qui sono costretti a reinventarsi completamente, tra paure, incertezze, sotterfugi, senza poter raccontare nulla alle loro famiglie, consapevoli di esseri diventati improvvisamente dei dissidenti, persone ricercate, pericolose per i propri cari, potenziali bersagli della longa manus del regime. Negli anni successivi, uniti sotterraneamente dal segreto condiviso, Mustafa e Khaled vivranno le loro separate esperienze legati da un’amicizia fraterna e però sempre più intaccata dal tempo e dalle vicissitudini di due traiettorie esistenziali antinomiche. Quando, all’inizio del 2011, sulla scia dei sommovimenti popolari nati in Tunisia e in Egitto, scoppia in Libia un’estesa insurrezione contro il regime, Mustafa decide di rientrare nel paese e di unirsi alle milizie ribelli mentre Khaled rimane a Londra, a difendere strenuamente una quotidianità gracile, pallida, a tratti sulfurea, costruita però con immane fatica e sacrificio.

L’intera opera di Matar, per come va a poco a poco ampliandosi, è a oggi assimilabile a un pianeta in movimento, il cui nucleo gassoso risiede nel trauma famigliare legato al sequestro improvviso del padre – diplomatico e imprenditore di successo, dissidente politico, uomo forte dell’opposizione contro Gheddafi – avvenuto nel 1990, quando la famiglia dello scrittore si era già trasferita da un decennio al Cairo perché invisa alla dittatura, alla successiva prigionia nel carcere di Abu Salim e alla conseguente sparizione sino alla morte (presunta). Attorno a questo spazio gravitazionale, pieno di sofferenza e angoscia, si stratificano le risorse espressive, ma anche epistemiche della narrativa di Matar, che pure quando si fa quasi completamente fictional – come accade in Nessuno al mondo (2006), Anatomia di una scomparsa (2011) e anche in Amici di una vita – si costruisce a partire dagli eventi nodali del passato tragico del suo paese – rielaborati, interrogati, rimuginati –, conservando in sé gli effetti e le ripercussioni che tali eventi hanno scatenato entrando in collisione con la vita dell’autore, stravolgendone per sempre l’indirizzo, trasformandolo in un esule, costretto a vivere lontano dal proprio paese. È dunque una letteratura dell’esilio quella che Matar va componendo, variazioni su un tema che più di essere un semplice tema è soprattutto una condizione esistenziale, identitaria, politica, o meglio ancora un habitus percettivo, mentale e coscienziale acquisito coercitivamente e poi elaborato con gli anni, così irriducibile da influenzare alla radice la postura emotiva e intellettuale di chi ne è soggetto.

Se nel memoir Il ritorno (2017) – la sua opera più sofferta, esito di tre anni di gestazione – Matar aveva affrontato i propri demoni personali raccontando, appunto, il ritorno a casa dopo trentatré anni di esilio forzato, nel tentativo di chiudere (o riaprire) i conti con il fantasma del padre scomparso, in Amici di una vita, da scrittore civile qual è (per usare una categoria ormai in disuso), utilizza gli strumenti e le potenzialità immaginative del romanzo come dispositivi di camuffamento e diffrazione del dato autobiografico (inoculato a piccole dosi) per operare delle incursioni, dei mirati carotaggi in quello stesso terreno storico che nel memoir era stato scandagliato e rivisitato mediante una forte componente saggistica e di ricognizione storiografica. Le stesse potenzialità a cui aveva fatto riferimento proprio nel Ritorno, quando, in uno dei passaggi salienti del libro, dal forte valore programmatico, scriveva: «Eccomi di nuovo in quel luogo famigliare, un luogo di ombre dove per scoprire quanto è accaduto bisogna affidarsi all’immaginazione, un’attività che serve solo a risvegliare il passato, moltiplicandone le possibilità, come una casa con innumerevoli stanze, da cui non si può fuggire e infestata dai fantasmi» (Il ritorno, p. 138).

Armonizzando, secondo la regola aurea del genere, ricognizione storica e invenzione, Matar lascia che le drammatiche vicende riguardanti i fatti di St. James’s Square e poi quelle inerenti alla Primavera araba e al rovesciamento del regime di Gheddafi nel febbraio del 2011, vengano rievocate attraverso il filtro memoriale dell’io narrante (Khaled), capace di allargare di molto il perimetro temporale entro cui si dipana la vicenda raccontata, che fa la spola tra il 1984 e il 2016, anno a cui corrisponde la linea principale della narrazione, marcata dall’uso dei verbi al presente. I continui andirivieni temporali, costituiti da prolungate analessi, espandono il doppiofondo del racconto, sabotano la linearità della narrazione e permettono all’autore di raccontare, mediante un serrato contrappunto diacronico, i contraccolpi nefasti che si producono nella vita del protagonista a partire dagli avvenimenti del 17 aprile, dando il la a una lunghissima catena di rinunce, rimorsi, nostalgie che avviluppa, anno dopo anno, la sua esistenza.

Data la scelta omodiegetica e la focalizzazione interna che rimane fissa sul personaggio che dice “io” lungo l’intero arco della narrazione, la spiccata componente dialogica, caratterizzante in particolare la seconda parte del romanzo, è un contrassegno formale congeniale all’autore per aprire il dettato alla polifonia e alla coralità dei punti di vista, delle prospettive, delle esperienze dei tre personaggi principali (oltre a Khaled e Mustafa, grande spazio viene concesso a Hosam, scrittore esule trasferitosi per diversi anni a Londra, dove stringe un forte legame di amicizia proprio con Khaled), facendole convergere e divergere, emancipando il racconto dai rischi inerenti a ogni solipsismo permanente, tanto più quando il dosaggio dell’istanza memorialistica e autoriflessiva è alto come in questo caso.

Nel momento in cui il racconto degli avvenimenti storici entra in dialogo o in attrito con il ricordo personale, soggettivo dell’autore – come avviene nel Ritorno – esso si colora inevitabilmente di sfumature intime, private, che arricchiscono il valore documentario della testimonianza, problematizzandone però forme e funzioni: si racconta per sé o per gli altri? Quanto le vicende della propria biografia concorrono a illuminare recessi e anfratti obliati della memoria collettiva relativa al passato più o meno prossimo? A validarne o, al contrario, sabotarne l’andamento consolidato? In Amici di una vita, invece, venuto meno il criterio autoptico precedentemente adottato, i personaggi finzionali diventano ricettacoli di esperienze e riflessioni intergenerazionali – il conflitto con i padri, i viaggi e lo studio all’estero, la paura e il desiderio di tornare a casa, la speranza di un cambiamento duraturo –, destinati a veicolare, a partire dalle loro geometrie relazionali e dall’emersione di visioni e convinzioni tra loro via via diversificate, il dramma sfaccettato di una storia che nel suo flusso torrenziale è entrata nelle case di tutti – amici, nemici, parenti – provocando innumerevoli rivoli di tormento e devastazione.

A prescindere dalle differenti opzioni retoriche e formali qui impiegate, a emergere è soprattutto la scrittura intelligente di Matar, ma di un’intelligenza non esibita, non ostentata, bensì distillata con perfetta sprezzatura, accennata con pudore. Essa fa leva su uno stile piano, temperato, che instaura con molta naturalezza la giusta dose di complicità e intimità con il lettore. Nell’economia di un romanzo di ampio respiro, che presenta una struttura fortemente stratificata, le preziosità della lingua appaiono diluite e dilatate, ma uguale rimane l’impronta di una voce riconoscibile, per quanto tenue e moderata, in grado di gestire con parsimonia e puntualità i vari gradienti del racconto – dialogismo, resoconto memoriale, monologo interiore – e i diversi registri coinvolti.

Al cuore di Amici di una vita, storia di un apprendistato esistenziale che diviene ben presto diagnosi della completa reinvenzione di un «naufrago diciottenne» (Amici, p. 151), improvvisamente sbalzato in una metropoli sconosciuta, sprovvisto di amicizie e conoscenze, scevro di qualsiasi sostegno, obbligato a sopravvivere dovendo fare attenzione a ogni minimo spostamento, pulsa un interrogativo che si fa a poco a poco più insistente, riguardante la fisionomia spettrale di quegli “io” ipotetici e congetturali con cui ciascun individuo deve costantemente rinegoziare l’immagine che va costruendo di sé, ponendosi al centro di un’autonarrazione spesso limitata e capziosa. Di fronte alla tragicità degli eventi ogni persona è destinata a trasformarsi in un’altra versione di sé – falsa? sbiadita? contraffatta? – a causa del conflitto mai pacificabile con ciò che non può essere governato, che esula dalle volontà del singolo e induce a problematizzare convinzioni apparentemente stabili, così come vecchi timori e nuove speranze. Com’è possibile accettare serenamente che tante vite possibili diventino infine – sovente per causa esterne – una sola, necessaria quanto ineluttabile?

In virtù di un sistematico cortocircuito tra la vocazione edificante propria del romanzo di formazione e la continua scansione analettica del passato, Amici di una vita cresce e si evolve proprio a partire da quelle che a prima vista potrebbero apparire contraddizioni interne, nel tentativo di fare i conti con ferite non rimarginabili, traumi irrisolti, snodi cruciali dell’esistenza. Sforzandosi di tenere insieme il dato individuale e quello collettivo, facendo uso delle parabole romanzesche dei tre personaggi per riflettere sulla sorte divergente che la storia impone a chi è chiamato a fare scelte decisive, lo scrittore libico racconta cosa vuol dire vivere in una costante condizione di dislocazione geografica e sentimentale, con la mente e il cuore sempre scissi, dimezzati, un pensiero alla casa lontana, agli affetti mai più abbracciati e a ciò che sarebbe potuto essere se le cose fossero andate in un altro modo. Del resto, un’esistenza da espatriato sottopone il soggetto che ne fa esperienza a un processo di fantasmagorizzazione dell’identità, per cui si sa solo ciò che non si è più: non si è più figli, non si è più fratelli, non si è più amici, o almeno non lo si è più nelle forme consuete, quando si poteva scegliere con libertà se andare via, tornare o restare:

«La mia bocca era piena e vuota allo stesso tempo. Vuota perché nulla di ciò che ci stava dentro aveva forma o suono. E piena di tutto ciò che sentivo allora e sento adesso. Che nel luogo in cui voglio tornare non posso tornare perché il paese e io siamo cambiati e ciò che ho costruito qui, per quanto sia poca cosa e fragile, ha richiesto tutto ciò che avevo e se me ne vado temo che non avrò la forza di tornare e allora sarò di nuovo perduto e mi sono già perduto e farò tutto il possibile per non perdermi di nuovo e non so se è vigliaccheria o coraggio e non me ne importa e ho deciso senza decidere, perché è la mia unica opzione, attenermi ai giorni, dormire quando va bene a me e svegliarmi in tempo per essere presente al mio lavoro e alle persone che contano su di me» (Amici, p. 300).

Nel momento in cui si acquisisce la consapevolezza che «il senso di colpa è l’inseparabile compagno dell’esilio» (Il ritorno, p. 92), manutenere una vita all’estero – tanto più quando il proprio paese affronta drammi laceranti, ribellioni, rovesciamenti politici, guerre civili – richiede una determinazione estenuante, nello sforzo di tenere a bada la nostalgia latente e i rimorsi di coscienza, salvaguardando e consolidando giorno dopo giorno equilibri che rimangono in fondo molto fragili, suscettibili di scombinarsi e crollare alla prima folata di vento improvviso.


Hisham Matar, Amici di una vita, traduzione di Anna Nadotti, Torino, Einaudi, 2024, €20, pp. 376