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Anatomia di classe: Certe sere Pablo di Gabriele Pedullà

La prima sensazione che ci coglie a lettura conclusa dell’ultimo libro di Gabriele Pedullà, Certe sere Pablo (Einaudi, pp. 248) potrebbe essere quella di semplicità. Ti ritorna alla mente la vecchia stagione del romanzo neorealista italiano, pedagogico e morale. Chiudi il libro, lo riponi. Non ci ripensi più. Poi tutt’a un tratto qualcosa comincia a frullarti per la testa. Ecco, Certe sere Pablo è uno di quei libri con il trucco, con il doppiofondo. È un trittico: tre romanzi brevi o tre racconti lunghi che coprono periodi di ampiezza variabile. Portolano degli anni bisestili ripercorre l’iniziazione e la militanza politica di un ragazzo dall’infanzia (anni Settanta) alla giovinezza universitaria (anni Novanta). Il racconto eponimo, il più ampio dei tre, offre uno sguardo sul Sessantotto e sull’Italia dell’ultimo mezzo secolo seguendo negli anni l’evoluzione di una classe di liceo romana: dal narratore, militante di sinistra che farà successo negli Stati Uniti, alla bella di turno perduta nelle paludi del freak, all’enigmatico e proteiforme, amato e odiato Pablo. È stato un soffio è la tragicommedia sui postumi di un incidente stradale che porta Carlo, affermato economista liberal della Capitale, a fraternizzare con il suo salvatore Marco, energumeno di Casa Pound.

Checché ne dica la quarta di copertina, Certe sere Pablo non è un libro sulla militanza politica «per tutti»: è un libro sull’esperienza politica della borghesia italiana, su tre generazioni borghesi e sul modo in cui hanno affrontato (male) la seconda (lunga) metà del Novecento. I tre racconti indugiano sul modo in cui la politica si fa esperienza privata e generazionale: si passano al vaglio letture, sottocodici linguistici, ritualità sociale. Ma non è il descrittivismo nostalgico e memoriale a prevalere, o un’agiografia dei bei tempi della politica da rinfacciare ai giovani impolitici di oggi. Questa è, semmai, la formula assolutoria con cui quelle stesse generazioni si raccontano. Nel testo, quelle descrizioni assumono piuttosto la funzione critica di riempitivi: indicano, occultandolo, quell’enorme vuoto al centro che si chiama assenza di conflitto, che mi sembra il vero tema del libro. Certe sere Pablo si concentra su quella (indegna) incapacità strutturale della borghesia italiana a farsi parziale: attenta al proprio “particulare” (e quindi anarcoide), vischiosa, paternalistica, accomodante. Lo si vede da come Pedullà tematizza lo scontro: la lotta tra “fasci” e “zecche” si trasforma in un gioco di società disciplinato, come una sorta di guardie e ladri o di indiani e cowboy esteso all’intera capitale; mentre quando assume i toni spietati del conflitto di classe tra la comunità nera di Chicago e i borghesi bianchi del quartiere universitario, il narratore, che pure dovrebbe solidarizzare con la prima, se ne discosta impaurito. Il libro è anche un’accusa mossa a un’intera classe sulla sua incapacità (ieri come oggi) di caricarsi del peso e della responsabilità di esprimere una funzione di indirizzo e controllo del corpo sociale (funzione pedagogica che passa, anch’essa, attraverso il conflitto). È questo il tema in particolare del terzo racconto, È stato un soffio, dove il quasi premio Nobel per l’economia Carlo invece di impiegare le sue superiori capacità critiche per educare e convincere un giovane semianalfabeta di Casa Pound che gli ha salvato la vita, si lascia irretire dalle sue idee per un untuoso senso di colpa e di devozione nei suoi confronti.

Il racconto che dà il titolo al volumeè invece il referto lucido di un Sessantotto trasformatosi in un ordinato avvicendamento tra borghesie: quella alta dei servizi e delle libere professioni che si perde in derive nichilistiche ed estetizzanti (l’India, la New Age) e quella media che si dà da fare (spesso proprio grazie alle esperienze accumulate nei collettivi e nei seminari di lettura autogestiti) e si autopromuove a classe dirigente. Nel testo entra in scena, con la figura di Pablo, l’allegoria di un Sessantotto-Proteo che per eccesso di voler essere tutto non è stato nulla (anche perché quel tutto poggiava, come nei peggiori casi di contraffazione, sul vuoto e sul vuoto non si fanno le rivoluzioni). Pablo è un miscuglio borgataro che tiene assieme il fascino di Peeperkorn della Montagna magica, la vertigine della forma del protagonista dell’Uomo senza qualità e la cialtroneria (molto meno spietata) di Jean-Claude Romand dell’Avversario. Su di lui non si può avere che un giudizio altalenante e ambiguo: condannabile come condannabile è il Sessantotto perché ha realizzato poco di quello che doveva, ma al contempo apprezzato per aver incarnato l’irresistibile vitalismo di una rivoluzione permanente da opporre alla collosità antitragica della continuità esistenziale piccolo borghese (rappresentata, per converso, dalla voce narrante).

Ma forse gli aspetti più persistenti del libro sono quelli che non si vedono: gli ingranaggi che fanno muovere la macchina narrativa. In particolare, quello strumentario che ha reso possibile il doppiofondo cui si accennava all’inizio, capace di restituire un senso di straniamento e vertigine alla lettura, e facendo al contempo di quello che sembrava a prima vista un piano romanzo politico con la morale, un congegno opaco. Il primo è l’uso di un “grottesco pietoso”. C’è molto di commedia all’italiana in questi racconti, molto di Scola, Monicelli e perfino Risi. È stato un soffio potrebbe tranquillamente figurare tra gli episodi dei Mostri. È un grottesco pietoso perché quasi sempre introdotto da buone ragioni: il sesso adolescenziale del protagonista del primo racconto sotto il poster funebre di Berlinguer; il senso di apoteosi e di compimento di un’intera storia di militanza vissuto il giorno della vittoria del PDS alle amministrative del 1993 (dove il senso del ridicolo è tutto nella pochezza di tale vittoria comparata alla storia alle sue spalle e a quella a venire del ventennio berlusconiano). O ancora il finale di È stato un soffio con l’immagine di un Carlo felice e inebetito che biascica motivi fascisti.

Un ruolo centrale in questo meccanismo lo gioca poi la scrittura. Apparentemente presentata come referto dell’oralità, se ne distanzia sotto diversi aspetti. Anzitutto per una studiata, direi quasi maniacale tendenza alla variazione sintattica. Difficile, quasi impossibile trovare iterazioni di moduli, né riprese lessicali. È una pratica cara a Calvino, ma che genera una sorta di vertigine stilistica: si cerca continuamente un punto d’appoggio, una marca iterativa, una firma qualsiasi, ma questa manca continuamente. È una scrittura così equilibrata da risultare labirintica, che non dà indicazioni né conforto né indizi al lettore, ma ne aumenta al contrario il senso di sperdimento.

Terzo aspetto riguarda il trattamento del piano narrativo: si preferisce una voce narrante che coincide, solidarizza o che è incapace di usare critica nei confronti dei personaggi. Nel primo racconto essa interloquisce con il protagonista impiegando una seconda persona singolare, apponendo dunque una distanza emotiva minima tra i due punti di vista; in Certe sere Pablo è lo stesso coprotagonista a esporre la sua storia a un interlocutore più giovane. Nel terzo racconto a farla da padrone è l’indiretto libero, che crea ambiguità inestricabili tra le voci dei personaggi e quella del narratore.

Infine, il senso irrisolvibile di collosità narrativa (che è anche il corrispettivo di una afasia critica, di una difficoltà nell’esprimere una pedagogia e una morale, di pronunciare una parola definitiva su ciò che è stato, giocando continuamente di sponda tra punto di vista dei personaggi, voce narrante e autore) è anche il prodotto di una considerazione metanarrativa. Il titolo stesso del libro si spiega alla luce di un passo a p. 131, in cui «certe sere» la vecchia classe si riunisce e si racconta. Il richiamo chiaro, persino ovvio al Benjamin del saggio sul Narratore è il referto dell’incapacità della borghesia italiana di comunicare il senso della sua stessa storia. Il racconto che dà di sé stessa è una narrazione priva di morale, che non sa farsi esperienza tramandabile perché senza centro e senza contenuto trasmissibile. Certe sere Pablo, un volume fintamente facile, ma in realtà ambiguo e complesso apre a una riflessione articolata, tentacolare, sulle forme di un realismo italiano-romano espanso, capace di abbracciare allegoria, grottesco, introspezione autobiografica e riflessione stilistica.


Gabriele Pedullà, Certe sere Pablo, Einaudi, Torino 2024, pp. 248 20,00€