Una premessa
Zona, lotta, persuasione. Sono queste le parole-chiave (o le metafore) che garantiscono l’accesso a I personaggi non torneranno? La letteratura contemporanea tra finzione e realtà (Carocci 2024), di Alessandro Cinquegrani.
Docente di letteratura italiana contemporanea a Ca’ Foscari, già comparatista nel medesimo ateneo – nonché scrittore a propria volta –, Cinquegrani ha dedicato un libro appassionato e turbinoso a questi sempre più inquietantemente “grandi assenti” alle celebrazioni letterarie. Un libro, tuttavia, che cela molto più di ciò che mostra. E ciò che mostra è molto.
Detto in altri termini, e anticipando delle conclusioni, I personaggi non torneranno? partecipa di una costitutiva ambivalenza, che riguarda la categoria di autore – narratologicamente non meno problematica di quella di personaggio.
Cinquegrani, infatti, pur brandendoli con la perizia dello studioso di letteratura, sembra abbia voluto intenzionare concetti, casi studio e autori-faro come altrettanti ingredienti di un romanzo critico. E non è forse un caso che uno dei testimoni più volte convocati a deporre, in queste pagine, sia Giacomo Debenedetti.
Se ogni interpretazione, come è stato detto, è una scommessa, un’autobiografia e una forma di adesione a una visione del mondo, se non della storia, I personaggi non torneranno? è un libro scientificamente ricco, ma anche un personal essay, con il quale Cinquegrani, coerentemente, non ha potuto far altro che mappare la totalità del suo lavoro.
Nascita, fuga, scomparsa
Tutto questo è chiaro già dal sintomatico disclaimer con il quale, al termine dell’Introduzione al lavoro, Cinquegrani prende preventivamente le distanze dalla sua natura anfibia:
A scanso di equivoci vale la pena di sottolineare che, pur avendo io pubblicato due romanzi, non mi sento uno scrittore, cioè un abitante della zona e la guardo con la esclusiva prospettiva del critico. Casomai per me vale il contrario: il mio ultimo romanzo Pensa il risveglio risente nella sua costruzione di quanto ho scritto in questo libro e cerca di far rivivere il personaggio d’invenzione attraverso la costruzione di diversi livelli di prossimità al reale. Può sussistere dunque per me il sospetto che lo scrittore risenta della prospettiva del critico più che viceversa.
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La tesi del libro è carica di implicazioni. Da un lato, scandisce in tre momenti esemplari altrettanti movimenti tipici di questi “esseri di carta”. Dall’altro – e qui sta la radicalità di Cinquegrani – rifiuta l’immediato referente storico di questi effetti, preferendo all’analisi di stampo sociologico-marxista quella strettamente narratologica. Dietro questo proposito, sia detto sin da subito, un’intera filosofia della storia, e della storia della finzione.
All’area del modernismo, Cinquegrani fa corrispondere la nascita di un personaggio dalla vita dimidiata e fragile, ma autonoma e sempre più in lotta con il proprio autore. Questa lotta si protrae, nella temperie postmoderna, verso luoghi sempre meno reperibili o tracciabili. Una vera e propria fuga verso quella che Cinquegrani nomina “la zona”. Infine, la conclamata scomparsa del personaggio nelle scritture del nuovo millennio; le quali tentano di sopperire a questa assenza approfondendo questo sintomo psicostorico della perdita di un bene reputato inalienabile: la persuasione.
Ma, detto ciò, la petizione è di principio. Rinunciare a fare equivalenze o allegorie ormai quasi inflazionate tra i due mondi (empirico e di carta), di approfondire la contraffazione, di accettare il limes della “mappa dell’impero”. Solo così, sembra dirci Cinquegrani, si potrà viaggiare, forse, un giorno, al termine di una disperazione che non è soltanto storica.
Chi scrive, negli scorsi anni, ha faticato ad accettare questa ipotesi. La lettura di questo libro, tuttavia, ha cambiato alcune cose. Laddove il mondo (empirico) non smette, nonostante i molti fallimentari tentativi, di apparire come una metafora inspiegabile; laddove la storia sembri irriducibile a qualsiasi segno, una sequenza interminata di eventi oscuri e imperscrutabili; allora forse non si tratta che di smettere l’atteggiamento rinvedicativo che vorrebbe fare di ogni mondo un solo mondo; che è lo stesso, d’altro canto, che produce i nostri giorni.
La “zona”
L’allegoria, scriveva Walter Benjamin cent’anni fa, eleva il mondo empirico e la storia profana al livello delle sfere celesti e della storia sacra; e, al contempo, li svaluta, perché dispera di esigere, da queste come da quelle, un adempimento. L’allegoria, in questo senso, spalanca l’abisso del male, e insieme garantisce in esso la sopravvivenza. Solo all’erudito, infatti, è dato di allegorizzare. Una condizione ancora di sapere e di classe, grazie alla quale questi oggetti-allegorie rimandano, ma solo virtualmente, a una lingua organica e a chi la parla.
Che cosa siano “zona”, “lotta” e “persuasione”, nella grammatica di Cinquegrani, è presto detto. Sono luoghi di intersezione o di interferenza tra mondo empirico e mondo finzionale. La prima rimanda, nell’Arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon (1973), alla Germania del secondo Dopoguerra, «territorio di dominio delle altre superpotenze mondiali» ma anche «spazio dominato dalla narrazione che si libera del senso» (99-100).
La zona fa parte, cioè, di una temporalità che sorge nella storia ma che manifesta tratti essenzialmente sovra- o meta-storici. Un luogo di emersione storico di dimensioni estranee a quella che chiamiamo storia; e simile, per certi versi, ad altre rappresentazioni della postmodernità. Penso, soprattutto, al lavoro del compianto David Lynch; dalla “casa di Ben” di Velluto blu (1986) al “convenience store” di Twin Peaks (1991) al “Club Silencio” di Mulholland Drive (2001).
Cinquegrani, tuttavia, non mutua l’espressione “zona” solamente da Pynchon, ma la riflette grazie a tre diversi specchi. Il primo, mediano, è quello propriamente critico-scientifico (nello specifico, la disamina condotta da Brian McHale in Postmodernist Fiction, 1986). Il secondo, in apparenza superiore, si rifà all’autorità di un grande pensatore (riprendendo, per la “zona”, il concetto di «eterotopia» di Michel Foucault, 1966). Quello che definiremmo, invece, “inferiore” – perché confinato, in questo caso, nell’Introduzione – è quello che in realtà più da vicino sembra dirci l’essenziale. È nella riflessione critica di un altro scrittore, Daniele Del Giudice, che nel saggio La zona del narrare (ora in Del Narrare, Einaudi 2023, pp. 167-8) dichiarava di «pensare al romanzo come la zona».
Distinguendo tra chi si avventura in una «sorta di analisi formale» della sua natura e chi invece ne riporta «l’esperienza» («lì, dove nessun personaggio si presenta come struttura» e nessun racconto «come “trama”»), Del Giudice (e con lui Cinquegrani) non dice cose distantissime da ciò che, in altri tempi, era potuta apparire a Giovanni Raboni come la distinzione tra critico e poeta-critico. Tra chi, cioè, tenta di ricondurre a ragione gli «esempi confusi» della cronaca letteraria e chi, invece, di costruire a partire da essa «una specie di scena senza personaggi ma necessaria o addirittura, se fosse possibile, evocatrice della loro presenza» (Quattro tesi sulla poesia italiana nel Dopoguerra, 1960).
La “lotta”
Più ancora che di personaggi in sé (di cui, comunque, il libro parla, eccome), Cinquegrani sembra essersi rivolto all’humus necessario ad evocarli, a farli esistere. E lo fa parlandoci di Svevo e di Carrère, di Kafka e di Woolf, di Tarantino e di Kubrick, passando per Bufalino, Siti, Moresco, Cèrcas.
Questo turbinio (come dicevo sopra) cattura in una storia che ben presto assume le fattezze di un conflitto. Una lotta, per l’appunto: quella tra istanze dispotiche e libertarie. Ciò riconfigura il rapporto tra autore e personaggio. Siamo ben lontani, ormai, dall’«extralocalità» (Vnenachodimost’, lett. “trovarsi fuori”) con cui Michail Bachtin aveva nominato l’atto d’amore dell’autore per il proprio eroe; grande a tal punto da lasciargli interamente campo aperto nel suo mondo.
Quello della “zona” non è solamente tra gli esempi più efficaci grazie ai quali Cinquegrani espone la genealogia di una semantica della finzione problematica, o il luogo dove meglio emerge un metodo di acquisizione e di utilizzo delle fonti – simile per modi e impieghi ai boulder, le pareti artificiali in uso nell’arrampicata sportiva: una mappa virtuale di appigli, che consente modi differenti di arrivare a conclusioni simili. È anche il luogo dove più si manifesta la lotta senza quartiere tra un personaggio sempre più dotato di un’istanza autonoma, un autore pronto a tutto pur di trattenerlo tra le proprie pagine e un lettore che, di volta in volta, si ritrova nell’ingrata posizione di chi deve ripercorrere lo scontro utilizzandone gli epifenomeni, i frantumi a terra o dentro ai testi.
È qui che Cinquegrani sembra dirci la sua verità essenziale. Il mondo della letteratura e quello della vita non hanno rapporti, nemmeno episodici, che non siano belligeranti. Si guardano, ma non si toccano mai. Sono «due destini», come l’epigramma che Franco Fortini dedicò a Vittorio Sereni. «Uno condanna l’altro. | Uno giustifica l’altro» (A Vittorio Sereni, in Questo muro, 1973).
A chi fosse capitato di passare troppo bruscamente dall’allegoria alla vita, il compito di ricredersi. O, quantomeno, di riconsiderare il modo in cui, volendosi critici tout court, si è finiti per fare come quelli che, diceva Giacomo Noventa (un altro grande scrittore veneto), impongono agli scrittori la propria stessa anima «par po’ starla a ’scoltar…».
Dei paradigmi critici che hanno tentato questo salto (psicanalisi, marxismo ed ermeneutica in primis), Cinquegrani si dichiara insoddisfatto proprio per la loro tendenza ad appiattire immediatamente su una dimensione di volta in volta eternante, senza nessi temporali predeterminati o asfissiantemente legata alla contingenza economico-politica un rapporto che si dà, prima di tutto, tra due mondi differenti.
Notevole, in questo senso, la polemica con la “nostalgia” di Fredric Jameson per un mondo in cui il legame tra letteratura e realtà era ancora necessario (142). Da qui, l’opzione di Cinquegrani: buscar el Levante por el Ponente, giungere ad affermazioni valide per i territori specifici dei più diversi indirizzi critici, ma rendendole ambivalenti per l’arma di elezione scelta: la narratologia.
La “persuasione”
Di questa lotta, gli esiti postremi sono quanto mai evidenti. La tendenza della narrativa, in questo analoga alla sorte che da molto tempo ormai caratterizza la poesia moderna, è quella verso la totale coincidenza di chi dice “io” nel testo con il nome che compare sulla copertina. Non è, nell’un caso come nell’altro, una tendenza pacificata. È, piuttosto, la conseguenza di ciò che Cinquegrani, ricorrendo a Carlo Michelstaedter, nomina la fine della “persuasione”.
“Persuaso” è chi ha “la vita in sé”, secondo Michelstaedter. Chi (per citare un altro grande pensatore, Gyorgy Lukács, nella sua stagione non marxista) solca questo mondo (e l’altro) percorrendo i sentieri tracciati dal firmamento, dove ogni gesto «è pregno perché l’anima, durante l’azione, riposa in se stessa» (Teoria del romanzo, cap. I). È per questo che, se «da molti decenni il lettore si identifica solo nell’autore», «tornare a credere nei personaggi» sembra possibile soltanto a patto che lo sia l’autore stesso (147).
Sul conto del personaggio esiste ormai letteratura critica per quattro o cinque vite. Inutile, se non dannoso, ripercorrerla; e tracotante (soprattutto in questa sede) tentare di riassumerla. D’altronde, uno dei meriti maggiori del libro di Cinquegrani sta proprio nel parlare di un rapporto e non già di un’essenza o di una condizione di possibilità. Ed è un rapporto di lungo corso, nella riflessione di Cinquegrani: quello con il mondo della vita adulta e, nello specifico, genitoriale.
La locuzione che dà il titolo al volume rimonta infatti a un’intervista a David Foster Wallace (già raccolta da Wu Ming in New Italian Epic, 2009), nella quale viene data una definizione o meglio un’ambientazione alla cosiddetta «postmodernità».
È quella di una festa come ce ne sono molte, nelle rappresentazioni dell’adolescenza soprattutto americane: con i genitori fuori casa per il fine settimana, il vialetto costellato di lattine, il senso di sconforto che, man mano che si fa mattino, assale gli organizzatori: «e poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e che noi dovremo essere i genitori» (143).
Significativo, il transfert «genitore»-«personaggio». Presiede, a ben vedere, al libro intero. E si potrebbe scomodare tutta una letteratura. D’altronde, già di Pensa il risveglio (2021) – ma con un occhio alle poesie – mi era capitato di dire che la paternità, in Cinquegrani, è «inaugurazione alla vita», «accesso al tempo», fuoriuscita dalla «condizione di figlio» di cui molta saggistica ed epigrammatica ha, da Fortini a Guido Mazzoni, puntato l’indice.
Quel che sembra dirci adesso è soprattutto questo. Anche la fine dei giorni del disordine, la nostalgia impronunciabile per un tempo in cui, a proprio rischio e pericolo, si poteva essere vivi e reali, deve finire. Voglia questo dire andare oltre, approfondendo questa perdita, oppure risalire la corrente per recuperarne un senso.
A. Cinquegrani, I personaggi non torneranno? La letteratura contemporanea tra finzione e realtà, Carocci, Roma 2024, 196 pp., €23.
In copertina: foto di Carolin Thiergart su Unsplash.