Penso venga spontaneo mettere a confronto A Complete Unknown con Quando l’amore brucia l’anima – Walk the Line, non solo perché il regista è lo stesso, James Mangold, ma anzitutto per una ragione cronologica. Il secondo racconta la vita turbolenta di Johnny Cash dal 1944 al 1968, il primo, di quegli anni, fotografa invece una piccola fetta temporale, dal 1961 fino alla cosiddetta “svolta elettrica” del luglio 1965, in cui Bob Dylan si esibisce al Newport Folk Festival e poi pubblica (un mese dopo) uno degli album più significativi della storia della musica, ossia Highway 61 Revisited. Questo finto crossover, d’altronde, è abbastanza evidente in A Complete Unknown: non sono poche le sequenze in cui il protagonista, il Dylan interpretato da Timothée Chalamet, apprezza il sostengo di Cash (Boyd Holbrook) contro i poteri forti politici e musicali, e, parallelamente, lo omaggia per esempio con la cover di Ain’t me baby cantata in coppia con Joan Baez, altro volto immortale del folk americano. 
A Complete Unknwon riduce il percorso di Walk the line, ne cristallizza una parte. Lo sguardo di Mangold, infatti, è concentratissimo nel restituire l’impenetrabilità della figura di Dylan: un “orso” schivo e scontroso del Minnesota, con un’ironia graffiante e un talento musicale inaudito. In questo senso, la polifonia psicologica di Walk the line lascia spazio a un rigore rappresentativo che Mangold non tradisce mai – dall’incontro di Dylan con i suoi miti e mentori Woody Guthrie (Scott McNairy) e Pete Seeger (Edward Norton), alle relazioni con Sylvie Russo (Elle Fanning) e Joan Baez (Monica Barbaro). 
Ancor più che nel biopic precedente, siamo di fronte a un film-concerto, in cui il repertorio dylaniano occupa – com’è giusto che sia – gran parte del girato. La pellicola, di conseguenza, è completamente sulle spalle di Chalamet, tra reinterpretazione e mimesi pura – come insegnano le prove di Joaquin Phoenix alias Johnny Cash, o di Bradley Cooper in Maestro –, in grado soprattutto di restituire l’essenzialità della voce di Dylan dietro gli immancabili occhiali da sole. Al contempo, la colonna sonora diventa il metronomo di una narrazione impeccabile anche nella scelta “anti-didattica” di spegnere i riflettori proprio nel 1965 – annus mirabilis della storia della musica assieme al 1966 se, oltre alla trilogia elettrica di Dylan, pensiamo per esempio a Rubber Soul e Revolver dei Beatles, o Pet Sounds dei Beach Boys. Da questo punto vista, il film di Mangold indovina la proiezione barthesiana della musica: i testi di Dylan, nel film, si trasformano in vere e proprio “ancore” visive (Barthes parla di ancrage), che confondono l’occhio del regista con quello del cantautore americano, fino a una crasi che nutre e spinge la dimensione emotiva del film.  
A ciò si aggiunge una piccola mise en abyme con cui Mangold tematizza il respiro classico del suo lavoro, mi riferisco cioè alla sequenza in cui Dylan e Sylvie, al cinema, ascoltano le parole di Betta Davis nel film Now, Voyager del 1942: non chiediamo la luna, abbiamo le stelle. È forse la spia più convincente di quanto la struttura di A Complete Unknwon sia a matriosca, ricchissimo di sottotesti, scatti improvvisi, animato cioè da un paradosso duplice, quello del titolo appunto: Chi è Dylan? E, soprattutto, come ha fatto, com’è successo?
Se alla prima domanda A Complete Unknwon offre una riposta di sicuro filologica, anche grazie all’imperscrutabilità esasperata di Chalamet, la riposta a quello che il New York Times ha definito l’Enigma Dylan è forse l’elemento meno riuscito del film. Nella messa in scena iper-rispettosa di Mangold, infatti, si fatica a intravedere il sottofondo culturale che la figura di Dylan impattò e plasmò. D’altra parte, si ha la sensazione che l’accento sia ossessivamente (e in parte è giustificato) sui tratti indecifrabili del cantautore; penso, quindi, a quando Sylvie lamenta di non sapere nulla delle sue origini, della sua famiglia, oppure alla frase-aforisma simbolo del film – voglio essere tutto ciò che voi non volete – che Dylan dice in ascensore a un fan. Ma è proprio l’effetto sul cantante del peso della popolarità che non è troppo sottolineato nella pellicola: la “svolta elettrica” origina anzitutto dalla volontà di cavalcare, da parte dello stesso Dylan, il suo improvviso ruolo da superstar e non più da “semplice” folksinger; si tratta cioè di una rivoluzione visceralmente politica, che sfrutta se così possiamo dire il personaggio (e il rock) in senso strumentale, come presa di coscienza e potere. 
Di conseguenza, A Complete Unknown è costretto nel paradosso del titolo: naviga a vista, sul livello esogeno di Dylan, proprio per esacerbare la sua irrisolutezza, la sua inconoscibilità, che è senza dubbio la mise en page con cui lui si è sempre mostrato; dall’altro però, il livello endogeno, a cui appartengono le ragioni della contingenza immanente della figura di Dylan nella cultura americana, è trattato solo in senso impressionistico, ed è un peccato perché – è un volo pindarico – come in Italia Manzoni ha fatto gli italiani, Dylan ha di sicuro fatto gli americani. 
L’operazione di Mangold commercializza lo sguardo autoriale, risolve e assorbe con grande eleganza la figura di Dylan lasciate dalle altre rappresentazioni – da quella di Todd Haynes in I’m not there (in cui i Dylan erano addirittura sei), a quella dei fratelli Coen in Inside Llewyn Davis –, tuttavia, l’equivalenza tra Dylan e l’enigma che lo avvolge è sia la risposta più seducente a che cosa il cantautore abbia rappresentato, sia la risposta forse meno stimolante. Insomma, in A Complete Unknwon Dylan parla per interposta persona, come canterà con Cash in Girl From the North Country, ed è un bellissimo riflesso, ma quanto c’è di vero?