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Fuochi e L’ora senza ombre: antologie millennials a confronto

Nella sezione V del poemetto Un posto di vacanza Vittorio Sereni riflette: «Pensavo, niente di peggio di una cosa / scritta che abbia lo scrivente per eroe, dico lo scrivente come tale, / e i fatti suoi le cose sue di scrivente come azione». Questi versi consapevolmente brutti, centrati, mi tornano in mente a partire da due raccolte molto diverse uscite lo scorso ottobre (Fuochi. Antologia da “Sotto il Vulcano”, a cura di Marino Sinibaldi e Federico Bona, Feltrinelli, 2024; L’ora senza ombre, Pidgin Edizioni). Se ripenso alle poche antologie di racconti italiane che ho letto negli ultimi vent’anni, ricorrono alcune posture almeno quanto certi nomi: dichiarazioni d’intenti impegnate, appassionate e sostanzialmente intercambiabili nell’ansia di testimoniare il presente, petizioni di principio artistico, desideri di esprimere un’alternativa. Negli ultimi due decenni, tutto questo ha fatto il paio con una teatralizzazione del dissenso politico e civile, a cui è consequenziale l’accento posto su un io d’autore che diventa tema portante del suo stesso discorso. Un’antologia come Multipli forti di Minimum Fax ne è l’ultimo esempio del 2024, con la sua programmatica insistenza sul saggismo, l’esperimento autobiografico, il rifiuto di inventare e a favore della tentazione di mistificare: al di là dello scopo manifesto di creare ponti fra le voci italiane e quelle negli Stati Uniti, la parola chiave, come anche fuori da questo libro, è personalizzazione. La distinzione fra scritture pubbliche e invenzioni, fra fiction e dimensione d’intervento, non è più sicura come un tempo: l’autenticità è il connotato per giudicare la riuscita della scrittura, ogni antologia è la somma dei suoi autori ben più che dei suoi racconti.

La tendenza si vedeva a sprazzi sin da ventuno anni fa, nel 2004, in La qualità dell’aria, che per merito di Nicola Lagioia e Christian Raimo fu probabilmente la prima antologia italiana ad avere diffusione trasversale dopo quelle a suon di pulp, trasgressioni e “cannibali” negli anni Novanta, e che impose Minimum Fax in testa alle case editrici dedite allo scouting di qualità sugli esordienti. Otto anni dopo, Presente di Einaudi aveva un’impostazione da staffetta, coi quattro autori antologizzati (Bajani, Nori, Murgia e Vasta) che si passavano il testimone del diario pubblico; una mira non diversa stava a monte di L’età della febbre(2015), stavolta per la cura di Christian Raimo e Alessandro Gazoia, dove il suggerimento di un sequel a La qualità dell’aria non nascondeva i primi segni di una rinuncia all’impegno, si declinava in una rassegnazione esibita alla crisi, a sua volta convogliata in una latente forma diaristica al passo con le narrazioni pseudoautobiografiche che, con la diffusione di massa dei social, si stavano nel frattempo diffondendo a macchia d’olio anche nel ristretto spazio delle poetiche d’autore. Del resto, gli autori di L’età della febbre non si collocano anagraficamente fra fine anni Sessanta e primi anni Settanta, a differenza delle firme de La qualità dell’aria e Presente, ma sono nati fra il 1981 e la metà degli anni Novanta; e sono spesso indicati, con una furia catalogatrice da far invidia a Linneo, come millennial, per finire in una nicchia intermedia fra i cinquantenni della Gen X e i quasi trentenni della Gen Z. L’orizzonte fisso per loro non è più il berlusconismo, e alla percezione di una società a rischio permanente subentra una malinconia da appuntamento mancato con il presente: le risultanti sono precarietà lavorativa, renitenza alla famiglia, un’adultità continuamente posposta e alimentata come miraggio tramite un senso di attesa senza vero e proprio oggetto.

Fuochi, dieci anni dopo L’età della febbre, assembla un po’ tutto questo, dal momento che nei buoni propositi degli editori e degli antologisti tutto, eternamente, ritorna. L’antologia di «Sotto il Vulcano» è nata con le parole di Sinibaldi «dall’idea di raccontare il mondo», dato che la rivista, fra il 2021 e il 2024, si è trasformata in un contenitore di storie della «permacrisi». Poi ci sono più cose in cielo, in terra e in una pagina a caso di un’antologia di racconti di quante ne possa contenere la filosofia dei suoi curatori, ed è sano che sia così. Il filo rosso pallido scelto da Sinibaldi è l’ambizione passepartout di «accendere piccole luci nel buio e nell’incertezza, che ci consentano di guardare e guardarci meglio»: al centro, in principio, era il Covid, i diari della pandemia, le considerazioni pensose. L’esempio più intenso nel volume lo dà Paolo Giordano con Del pensar normale. Mi ricordo che anni fa nell’ambiente si vociferava che La solitudine dei numeri primi avesse travolto con l’inaspettato successo di pubblico il suo autore, il quale, entrato temporaneamente in crisi, aveva meditato per breve tempo di farsi prete. Leggendo questo strano racconto-omelia, che pare rubato a un fondo di prima pagina del «Corriere della Sera», viene da essere contenti per lui: ci è riuscito, e senza bisogno di prestare obbedienza a nessuna chiesa.

Ma per fortuna in Fuochi non c’è solo questo: a raggiera, nel meglio della rivista si trovano il senso di isolamento e l’alienazione calato in una coppia disfunzionale (Avarìa di Valentina Maini, che venendo dalla poesia per me dà il suo meglio nelle prose brevi), il disagio psichico da dismorfofobia di cui le prime vittime sono adolescenti e mostri dell’intrattenimento, uniti da un segreto (Ken di Teresa Ciabatti), le nuove guerre ai confini d’Asia e d’Europa, le frontiere come teatri dell’estremo (La pace ha sempre due facce di Francesca Mannocchi e I vestiti dei bianchi morti di Alessandro Tamburini; spoglio di ambizioni da reportage, e quindi reso potente dalla sua allucinatoria catabasi, Tierra del Fuego di Monica Acito) e dell’estremizzato occidentale (Due cronache texane di Andrea Bajani, che del dislocamento fa la sua cifra fin da Se consideri le colpe), le rendicontazioni domestiche del disagio (come nella misura di La vicina di Donatella Di Pietrantonio, quasi uno spin off di L’età fragile).

In qualsiasi antologia gli autori si dividono in due gruppi: quelli che seguono le consegne, o i temi proposti, con rigore da compiti ben svolti, e quelli (di solito in minoranza) che seguono sempre un loro tracciato mentale infischiandosene del contesto. Fuochi non fa eccezione e in questa seconda nicchia rientrano soprattutto gli autori comici: penso a Quel pensiero di Luigi Lo Cascio, che sconta col proprio successo d’attore e regista il non venire ancora riconosciuto come un continuatore discretamente originale di Bufalino, ne sia prova Storielle per granchi e scorpioni (Feltrinelli, 2023); mi riferisco a uno come Gian Marco Griffi, il cui racconto Nostalgia canaglia è interscambiabile con Crepuscolo a Roghudi Vecchio, contenuto in un’altra notevole (ma forse troppo romanamente inclusiva) antologia del 2023, Tutti i nostri premi (Racconti edizioni); alla satira moscia e soffusa Mors tua, viva me di Michele Serra (della cui pertinenza all’interno di una crestomazia della prosa recente qualsiasi under 60 che non legge «Repubblica» potrebbe chiedere, invano, ragioni).

Anche per L’ora senza ombre, la seconda antologia intorno a cui ruota la mia diagnosi, si trovano di queste eccezioni del riso: sono Di streghe e valori perduti in Elzie Crisler Segar. Divagazioni e frammenti rubati di un romanzo inedito di Gabriele Esposito e L’ultima salamandra di Francesco Spiedo (leggermente più connesso agli altri della raccolta). Ma l’antologia uscita per Pidgin è decisamente meno eterogenea e incline alla biodiversità narrativa, e non inganni in ciò la forma ibrida di fototesto. La composizione mista fra parte scritta e parte visuale la pone in continuità con altre antologie tematiche di questi anni, fra cui merita una menzione Dove si scrive, come si scrive (2023) a cura di Carlotta Sonzogni, che dalla testimonianza dei luoghi del lavoro creativo si allarga a raccolta di un genere pressoché estinto presso una folla di scrittori al tempo stesso prepotentemente autobiografici e profondamente inconsapevoli – la dichiarazione di poetica.

Come nel libro di Sonzogni, anche in L’ora senza ombre si nota una certa volontà di illustrare le tecniche del proprio mestiere, come se la linea guida implicita fosse stata di fornire motivi del perché si è finiti su quelle stesse pagine. Un compito di queste dimensioni mantiene i suoi autori e le sue autrici entro dei confini molto precisi, che danno l’idea di un libro per voce sola e orchestra, piuttosto che di un’armonia di sedici voci diverse. Si respira una coesione forte fra un testo e l’altro, che obbedisce a due criteri distintivi della rivista digitale «In allarmata radura»entro cui l’idea dell’antologia è nata. Da una parte è stabile l’uso dell’autofiction, ma è oscillante il valore che a questa parola si dà: non tanto un’autobiografia inventata o un falso diario, quanto un uso plastico dell’io reale, senza pagare obblighi filologici alla teoria della categoria. Non è certo un male, visto che nessuno scrittore si mette al lavoro dopo aver redatto le proprie bibliografie. Cadono però, dell’autofiction, il valore aggiunto della menzogna e la scorciatoia retorica dell’inaffidabilità. Cosicché l’attitudine speculativa – il secondo criterio distintivo dell’antologia – imprime la sua luce sulle voci ospitate.

Come avviene in ogni impresa programmatica, la prefazione di Livia Del Gaudio e Fabiana Castellino sin dal titolo (Il bianco e il nero. Le narrazioni del sé attraverso il conflitto) detta alcune costanti. Il primo nesso ostinato è quello luce-buio, che seguendo l’ispirazione della fotografia, vera deuteragonista di L’ora senza ombre, inscena la necessità di conciliare i propri opposti. Lo spunto di partenza è un breve ma serrato commento della novella fantastica Il bianco e il nero (1764) di Voltaire. Persistendo nelle regole metaforiche che gli autori di L’ora senza ombre si sono dati, la luce investe volterrianamente il campo della coazione conoscitiva, è l’istanza indagatrice della parola che deve provare ad affrontare il territorio di ciò che non può essere conosciuto, esperito, razionalizzato, e che fa capolino attraverso alcuni giochi in cui la ragione umana si convoglia (gli scacchi per Leonardo Ducros; gli elenchi nevrotici di Antonio Esposito). L’avversario principale è la disgregazione del soggetto, attraverso i suoi emissari più bui (la depressione, la malattia, la testimonianza della morte altrui e l’attesa sorvegliata della morte propria: osservarsi sparire è un gesto qui frequente), che di pagina in pagina prende le fattezze di una sorta di bestia inafferrabile dalle parti, più che di Voltaire, del Conte di Kevenhüller (la «bestia che vivifica e uccide» di Caproni, che nella coincidenza degli opposti si nascondeva «dietro la parola»). Ma al modo in cui, perché l’ombra si formi, si deve frapporre un oggetto fra la fonte di luce e un piano di proiezione, così in questa antologia l’elemento di intermediazione (potremmo dire di ostacolo e scandalo) al dualismo fra il luminoso esercizio astratto della conoscenza e lo spazio vuoto e senza appigli è il corpo umano: è il corpo, del narratore o dei personaggi con cui si interfaccia, a estrarre l’ombra dalle cose, a individuarla e a segnare argini senza i quali non si dà conoscenza, a indicare il limite in cui qualsiasi chiarezza finisce per incagliarsi, a volte con un istrionismo scientifico (nel caso del racconto sull’autopsia Quando sono assente di me, di Mario Emanuele Fevola), a volte mandando avanti l’avamposto più cerebrale del corpo umano – il linguaggio: quello giuridico alimenta la spigolosa successione sciamanica fra donne di Maria Teresa Rovitto Quando lei ha bisogno di una fiaba; quello plasmato dalle alloglossie della seconda generazione è il perno di Impossibile da muovere di Alexandrina Scoferta – e si rinviene in Fuochi, per esempio nel bifrontismo culturale dichiarato di Da grande voglio imitare Giano di Elvira Mujčić.

C’è nell’Ora senza ombre un’altalena fra maturazione tardiva e volontà ostinata di essere subito, completamente, adulti, genitori (è il punto d’arrivo del bel racconto di Livia Del Gaudio): sintomatica di come oggi ci si costruisce un’identità. Un tempo, e con questa espressione un po’ tronfia intendo fino a meno di vent’anni fa, gli esordienti giovanissimi non erano così rari come oggi. Ci sono ragioni materiali, certo – che cosa se ne fa un ventenne dell’espressione letteraria, sprovvista com’è di vantaggi effettivi in un sistema delle arti che la vede stabilmente ai margini, inadatta a garantire un ritorno tangibile? Meglio la musica, la performance, la scrittura per lo schermo, il diario pubblico: chi oggi è giovane e ha abbastanza talento creativo sceglie di diventare Lazza, Sofia Viscardi, Yotobi o Camihawke – al romanzo arriverà casomai in seconda o terza battuta, forte del proprio capitale simbolico, e strategicamente farà bene. Ci sono però anche spiegazioni strutturali di questa maturità mancata. Posporre tutti gli appuntamenti cruciali dell’esistenza, avere l’autonomia finanziaria alle soglie della mezza età, diventare genitori attempati quando lo si diventa, ha avuto dei vantaggi sul breve periodo, ha garantito libertà e disponibilità a livello di consumi e qualità di vita della classe media (ne vedremo tutt’al più gli effetti quando, come scriveva Ingeborg Bachmann in Il trentesimo anno, non avremo più nemmeno il diritto di farci passare per giovani). In molti di quelli che per comodità chiamo racconti, qui, s’intravede lo stesso accavallamento fra romanzo generazionale e romanzo di formazione che Walter Siti aveva notato in una recensione a Corpi minori di Jonathan Bazzi apparsa su «Domani» il 19 marzo 2022. In L’ora senza ombre i narratori-personaggi parlano di come stanno diventando grandi sotto i nostri occhi, e per il tempo di un’affabulazione riusciamo a dimenticare che tutte queste persone girano attorno ai quarant’anni – quando biologicamente l’umano, in teoria, è programmato per avviarsi a scendere. È come se adesso la tensione saggistica e autobiografica di questi millennial servisse anzitutto a fare il punto su una giovinezza protratta all’inverosimile, che per beffa estrema, nonostante il suo allungamento forzoso, fornisce meno appigli concreti alla scrittura di quanti ne fornisse alla penna di Conrad e Hemingway.

Le voci di L’ora senza ombre hanno un altro trait d’union: contrappongono all’uso di un io negativo, introflesso e narcisistico una sua riabilitazione strumentale sotto il segno dell’incontro e dello scambio, «nella convinzione che questo tipo di scritture, apparentemente funzionali ad alimentare ego ipertrofici, potessero invece funzionare come coltelli aprendo ferite dentro il corpo del testo» (come scrivono Del Gaudio e Castellino nella prefazione). Per risultato, la scrittura si fa tappa inaggirabile di un processo di terapia, di retrospezione lenitiva, che parte da una ferita se non da una violenza (sessuale, nel caso di Le radici e le ali di Francesca Mattei: un motivo che negli ultimi anni ha posto le basi per una teoria mobile di una “scrittura femminile” all’insegna dell’autoascolto, che si ritrova anche in Fuochi, con Teresa l’artista della disegnatrice Fumettibrutti e Morirò figlia di Rosella Postorino). Al punto d’arrivo balena la guarigione; Del Gaudio e Castellino si spingono a parlare di «catabasi» come azione-matrice di molti degli autori, e per una volta la prescrizione di un curatore non sembra cadere poi tanto nel vuoto, anzi delinea un’ossatura comune in cui la prima vittima è l’inaspettato, lo scarto dalle aspettative. Non voglio suggerire che manchino testi fuori squadra, e spesso i migliori: Rubacuori di Alessandro Busi, che rifà a modo suo il confronto con un suicida che, senza riandare appunto a Sereni, c’era già in Caro vecchio neon di Wallace. Né mi pare un caso che Busi sia uno psicoterapeuta di professione, e che quindi si riveli piuttosto conscio delle sovrapposizioni imperfette fra discorso terapeutico e affabulazione narrativa.

Al di là di questo, tuttavia, l’ombra non prevale praticamente mai, nel tentativo di lasciarsi alle spalle ogni sconforto di maniera. In questo senso, L’ora senza ombre andrebbe letto come un libro coeso, che propone una scrittura rigorosa, imperniata su alcuni cardini prepotentemente autoriali di inclinazione al saggismo, predisposizione cartesiana, ostinazione al progetto in cui il cazzeggio è bandito e l’eterogeneità è un fatto collaterale – laddove le altre antologie, per includere e accontentare pubblici più ampi, evitano un progetto definito come un ostacolo, col risultato che di frequente i loro pezzi migliori appaiono i più lontani dalla traccia segnata. Per altri lettori, meno complici, la complessiva vocazione programmatica potrebbe essere interpretata alla stregua di un wishful thinking artistico, l’ennesima consolazione di una generazione ormai ampiamente adulta, di cui per anagrafe ed estrazione faccio parte, privata di ogni spunto per il conflitto: una schiera minima e forte, che gradualmente ha trovato nella letteratura la propria bombola d’ossigeno e ha finito per usare il dominio estetico come terreno di consolazione politica, in mancanza di una realizzazione collettiva in cui da decenni non si crede se non per auspici, mai per un tempo più lungo di una lettura. Entrambe queste posizioni hanno qualcosa di vero: io sospendo il giudizio.


AA. VV., Fuochi, a cura di Marino Sinibaldi e Federico Bona, Feltrinelli, 2024, 256 pp., € 22

AA. VV., L’ora senza ombre, Pidgin Edizioni, 2024, 264 pp., € 24