Nella capitale tedesca la temperatura è glaciale e giornalisti e appassionati si scaldano alla luce degli schermi delle sale. Come il Festival di Sanremo, anche la Berlinale giunge alla sua 75ª edizione e presenta la sua sterminata selezione di pellicole, molte delle quali infiammabili, per temi trattati. La vocazione politica della kermesse resta infatti intatta anche con la guida di Tricia Tuttle, approdata alla direzione del Festival dopo la prestigiosa esperienza come direttrice del London Film Festival. “Politics is in our DNA” afferma nell’editoriale del programma di quest’anno, e ricorda che tra i più grandi pregi dei registi c’è la capacità di mostrare il mondo attraverso gli occhi degli altri. Il cinema è il mezzo più economico per colmare distanze siderali tra comunità e società differenti, comprenderne le abitudini e le istanze. Ma nello spazio di due ore è possibile anche sondare le profondità dell’umano e provare a dare nome e forma alle angosce della società attuale.
Living the Land
Tra le pellicole presenti nella competizione viste per ora, quella del regista Huo Meng è la più ambiziosa per il suo respiro da saga familiare. il film fa luce su un mondo e un momento storico tra i meno noti: quello delle comunità rurali cinesi all’inizio degli anni novanta. Il Paese che di lì a poco sarebbe diventato la seconda potenza mondiale presenta una campagna ancora sprofondata in una sorta di tardo medioevo: tecniche agricole obsolete, uso di buoi per arare la terra e condizioni abitative al limite. Mentre dall’occidente giungono notizie di formidabili scoperte in campo scientifico, nel villaggio il tempo si è fermato, o meglio segue il ritmo lento delle stagioni. Eppure l’immagine che il regista ci offre è quella di una comunità coesa, che vive con partecipazione i riti della collettività e condivide gioie e sofferenze, dal raccolto ai lutti. La ricostruzione del villaggio è curata nel minimo dettaglio, tanto da permettere un’immersione totale nella vita quotidiana delle famiglie. È in particolare attraverso gli occhi del bambino Chuang che abbiamo accesso alla dimensione intima di un microcosmo dolente ma vivace. Assistiamo insieme a lui alla celebrazione di funerali sbrigativi e chiassosi (con tanto di scoppi di petardi), ma allo stesso tempo estremamente partecipati; facciamo la conoscenza di personaggi carismatici, come l’anziana del villaggio, formidabile matriarca affezionata al giovane con disabilità intellettive Jihua (Zhou Haotian), costantemente vessato dai coetanei. Nonostante una fotografia magnifica che ritrae una campagna tutt’altro che sognante e una cura nel raccontare con delicatezza le dinamiche tra gli abitanti, il regista Huo Meng non si abbandona ad alcun facile sentimentalismo o nostalgia per una Cina arcaica. L’ingerenza del partito nella vita di questi contadini è notevole e la sopravvivenza di quel microcosmo è minacciata dall’arrivo inevitabile del progresso.
O Último Azul
C’è un altro film in concorso che parla di comunità e rapporti generazionali ed è l’opera O Último Azul (The Blue Trail) di Gabriel Mascaro. Rispetto al crudo realismo di Huo Meng, il regista brasiliano opta per una storia distopica, dove la società, per mantenersi efficiente e produttiva, abolisce la vecchiaia, relegando gli anziani in colonie promosse come luoghi ideali per terminare la propria esistenza. La protagonista Teresa (Denise Weinberg) cerca di sfuggire al suo destino provando a coronare il suo sogno di volare, ma verrà ostacolata dall’implacabile figlia-tutrice. Solo grazie a una rocambolesca fuga attraverso il Rio delle Amazzoni saprà conquistarsi la sua libertà. Il film è un road movie molto divertente – anche se in questo caso si dovrebbe parlare tecnicamente di un river movie? – in cui, come in Una Storia Vera di Lynch – l’anziana protagonista incontrerà sul suo cammino personaggi che la aiuteranno a comprendere meglio il suo percorso e ad ottenere maggiore consapevolezza delle sue possibilità. Il Rio delle Amazzoni è catturato dalla cinepresa in tutta la sua lussureggiante maestosità e riporta alla mente altre folli imprese fluviali cinematografiche, dall’Apocalypse Now di Coppola al Fitzcarraldo di Herzog. Il fiume più affascinante e misterioso del mondo torna ad essere un lisergico viaggio per nascondersi, ricominciare o perdersi per sempre. Un po’ come nella poesia Le Bateau Ivre di Rimbaud, dove il battello, nel suo viaggio senza capitano né rotta, incontra persino dei “poissons d’or”, così Teresa dovrà raggiungere O Peixe Dourado, famigerato casinò galleggiante dove potrà cambiare il suo destino. Denise Weinberg costruisce un personaggio indimenticabile, attraverso un registro ricchissimo di espressioni e alternando momenti comici ad altri più drammatici.
Mamme da incubo: If I Had Legs I’d Kick You e Mother’s Baby
Tra i film in competizione sono presenti anche due film sul tema della genitorialità e i suoi traumi. Il primo è If I Had Legs I’d Kick You di Mary Bronstein e il secondo è Mother’s Baby, di Johanna Moder. Le due pellicole confermano un trend degli ultimi anni che vede molte interessanti cineaste concentrarsi sul genere horror – noto storicamente per contare più autori maschili – e portare sul tavolo nuove sorprendenti soluzioni. If I Had Legs I’d Kick You è un film targato A24, casa di produzione nota per promuovere film dall’alto tasso di inquietudine e che giocano sul registro del grottesco (Bo ha paura di Ari Aster ne è un esempio recente) e il film di Bronstein segue la linea editoriale. La storia è quella di Linda, una madre alle prese con la misteriosa malattia della figlia costretta a dormire ogni notte attaccata a una macchina e a nutrirsi con un sondino gastrico. Quando nel soffitto della loro casa si apre una voragine, le due dovranno ricollocarsi in un pulcioso hotel di periferia, dove le frustrazioni della donna raggiungeranno un punto di non ritorno. Un po’ dark comedy e un po’ horror vero e proprio, il film racconta l’incubo di una madre sopraffatta da infinite responsabilità e priva di ogni supporto dagli altri. A rendere la situazione ancora più paradossale è il fatto che Linda sia una psicoterapeuta, ogni giorno tenuta a farsi carico delle problematiche altrui. Vampirizzata dal prossimo, la protagonista è sempre inquadrata con primi piani che la intrappolano, mentre i dialoghi si fanno serrati e l’azione frenetica. Fin dalla prima scena il film trasmette un senso di claustrofobia e ansia, tanto da far tirare allo spettatore un vero sospiro di sollievo nei rari momenti di quiete. L’attrice Rose Byrne confeziona una delle sue migliori performance mantenendo altissima la tensione, senza risultare mucciniana nella sua crisi di nervi. Forse l’unico difetto di un’opera curiosa come questa consiste nel lavorare eccessivamente su un solo ritmo e nell’uso di metafore un po’ troppo plateali (la voragine nel soffitto). Con il film Mother’s Baby ci spostiamo in un contesto alto-borghese viennese, in cui una coppia di successo (in particolare sappiamo che Julia è una direttrice d’orchestra) si affida a una clinica privata per coronare il sogno di avere un bambino. Grazie al trattamento implementato dal dottor Vilfort (Claes Bang) Julia (Marie Leuenberger) resta incinta e tutto sembra andare per il meglio, ma al momento del parto qualcosa va storto, e il dottore allontana il bambino dalla madre per cure specifiche. La donna rivedrà il neonato solo qualche giorno dopo. Tutto sembra apparentemente a posto, eppure Julia è convinta che il suo bambino sia stato sostituito. Il film cerca di non dare particolari appigli, lasciando allo spettatore la libertà di credere alla teoria di Julia o a quella del marito o del dottore, convinti che si tratti di una una depressione post partum. In un’atmosfera di complotto che ricorda Rosmary’s Baby di Polansky, il film non riesce a sviluppare un vero e proprio crescendo e il finale con l’inquietante (vera?) soluzione risulta goffo e un po’ da serialità televisiva.