Anche la 75a edizione della Berlinale è giunta al termine. Tirando le somme, l’edizione 2025 è stata ricca di opere coraggiose e di spunti di riflessione. Come spesso accade, però, il materiale più incandescente e meritevole di attenzione non si trova tra i film in competizione per l’orso d’oro, ma nelle sezioni minori, come Panorama e Forum, dove quest’anno erano presenti diversi documentari che hanno lasciato il segno. Eppure quest’anno i film in gara – privi forse di autori di richiamo a parte Linklater – hanno permesso di ampliare gli orizzonti del pubblico su cinematografie meno note e regalarci sguardi inediti sul reale. Penso alla piacevole scoperta di Gabriel Mascaro e della sua commedia distopica O Último Azul (vincitore del Gran Premio della Giuria) e del ritorno di Mary Bronstein alla regia con il suo inquietante If I Had Legs I’d Kick You (di entrambe ho scritto già in un precedente articolo). Di seguito parleremo invece di due grandi attese-disattese e di un’opera vincitrice di un orso d’argento.

Blue Moon

Non si poteva chiudere questa edizione della Berlinale senza commentare il nuovo film di Richard Linklater, giunto alla sua 25a fatica. Protagonista della pellicola è Lorenz Hart, famoso paroliere autore di canzoni celeberrime come My Funny ValentineThe Lady Is a TrampIsn’t It Romantic?My Romance e, appunto la canzone che dà il titolo alla pellicola, Blue Moon, e che lo stesso Hart sembra non apprezzare particolarmente. Il film è girato interamente in un unico luogo, il bar Sardi, e in un unico tempo, quello della sera del 31 marzo 1943, mentre a pochi metri da lì, va in scena la prima mondiale di Oklahoma!, famosissimo musical di Richard Rodgers, suo vecchio partner. Hart aveva giusto lasciato il palchetto da cui stava assistendo allo spettacolo con l’anziana madre per recarsi al bar e cominciare quello che è evidentemente gli riesce meglio: bere molto. Ma essendo Hart anche un mondano dalla lingua sciolta e il grande acume, non resiste nell’intrattenere chiunque abbia a tiro con aneddoti, considerazioni e storie ovviamente legate a sé stesso. Va così in scena una sorta di one man show in cui il nostro, tra un bicchiere di whisky e un altro, fa scorrere i suoi successi, critica colleghi, confessa amori e desideri, senza piagnistei, ma con un gran talento per il ritmo e l’ironia. Il barista e gli sparuti avventori sono presto nella sua malinconica rete, come del resto il pubblico, che assiste all’ultimo pezzo di bravura di un uomo senza più futuro. Ethan Hawke è un istrionico Lorenz Hart che regge la scena praticamente da solo per gran parte del film. L’attore americano ha finalmente la possibilità di mostrare il suo pedigree di attore teatrale di alto livello, confezionando una prova maiuscola, pressoché impeccabile. A supportarlo in questa sorta di pièce, ci sono spalle formidabili, come Margaret Qualley, nei panni di Elizabeth Weiland, rampolla dell’alta società di cui Lorenz si è invaghito, e Andrew Scott, nel ruolo di Richard Rodgers. Con il passare e l’aumento del numero di avventori nel bar – perlopiù giunti a celebrare l’autore del musical Oklahoma!– crescerà nel protagonista la consapevolezza della sconfitta su ogni campo. Il film è diretto con precisione e ogni attore funziona come un meccanismo, ma a tratti si ha l’impressione di essere a una di quelle serate soporifere in cui l’amico di un amico che non conosci benissimo monopolizza la conversazione e tu cerchi solo un pretesto per lasciare il locale con eleganza. Per quanto universale possa essere la storia di un’artista al tramonto, la storia risulta asfittica, quasi un esercizio di stile del regista Linklater per concedere all’attore-fetticcio Hawke il palcoscenico che ha sempre meritato.

La Tour de Glace

Difficilmente la Francia è fuori dalla competizione berlinese, e infatti quest’anno si è presentata con ben due titoli, La Cache di Lionel Bahier (ennesima commedia sul ’68 francese che strizza l’occhio a Gondry e il Favoloso Mondo di Amelie) e La Tour de Glace. Il film, diretto da Lucile Hadžihalilović, racconta la storia della sedicenne Jeanne, che vive in un orfanotrofio tra le montagne innevate e ha una passione per la fiaba di Andersen sulla regina delle nevi. Quando un giorno decide di fuggire dall’orfanotrofio, Jeanne trova riparo in città presso un edificio che si rivelerà essere uno studio cinematografico. Coincidenza vuole che il film che stanno girando sia un adattamento della sua adorata fiaba e l’incontro con l’affascinante e crudele diva che interpreta la regina trascinerà Jeanne in un gioco fatto di ossessione e manipolazione. Marion Cotillard nei panni dell’algida regina/diva rispolvera la sua abilità nell’interpretare personaggi inquietanti (come ci aveva mostrato nel ruolo di Mal in Inception di Nolan) e ci restituisce il magnetismo del personaggio attraverso intensi primi piani e movimenti estremamente controllati. La pellicola del resto gioca continuamente sulla presenza/assenza di Cotillard all’interno dell’inquadratura, come se la cinepresa stessa fosse sotto l’incanto della strega. Anche Il ritmo dell’opera, estremamente lento e meditabondo, concorre a creare quest’atmosfera sospesa da sortilegio, immersa in un’atmosfera di cristallo. Purtroppo il film finisce per indugiare troppo nell’elemento estetico, smarrendo quasi del tutto il vigore della storia, che si riduce a un processo schematico (e lentissimo) che conduce all’esito più scontato. La giuria della Berlinale deve aver però apprezzato molto l’elemento visivo del film, tanto da conferirgli un orso d’argento “for Outstanding Artistic Contribution”.

Mickey 17

Chiudiamo questa Berlinale con uno dei titoli più di richiamo della kermesse, anche se non in competizione. C’era grande attesa per l’ultimo film di Bong Joon-ho, dopo l’exploit di Parasite nel 2019. Con Mickey 17 Il più noto regista sud coreano torna al suo vecchio amore, quello della fantascienza, ma lo fa ancora a modo suo. Nel 2054 il nostro Mickey (interpretato da Robert Pattinson) è un uomo in fuga dalla Terra (un po’ come in Total Recall, ma con un creditore alle calcagna) e si iscrive a una missione speciale gestita da un imprenditore/politico per colonizzare un pianeta apparentemente ostile alla vita chiamato Niflheim. Nell’urgenza di essere ammesso nell’equipaggio, Mickey – sorta di Forrest Gump del futuro – si candida come “expendable”, senza badare troppo ai fogli informativi che definiscono nel dettaglio quel ruolo. Scoprirà presto che il suo compito nella spedizione sarà quello di cavia per esperimenti mortali di vario genere (dall’esposizione a forti radiazioni solari fino alla respirazione dell’aria insalubre del nuovo pianeta). Al termine di ogni test Mickey decede, per poi essere ristampato perfettamente in una nuova copia in cui vengono caricati tutti i dati della sua memoria. Il protagonista così si ritrova a esperire la morte continuamente, fino al giorno in cui si imbatte nelle creature che abitano Niflheim, le uniche a mostrare per lui un senso di pietà. Bong Joon-ho ritorna al tema della clonazione già affrontato in Okja, dove una nuova specie di animale veniva prodotta in laboratorio per il solo scopo di essere macellata e venduta come carne a buon mercato. Il presunto progresso della civiltà è visto dal regista come l’ennesima prevaricazione di un gruppo su un altro, in cui lo svincolamento etico permette alla tecnologia di avanzare e portarci a un altro livello di benessere. Evidente è quindi la critica agli attuali tecnocrati, quali Zuckerberg, Altman o Musk (sempre più vicini del resto alle loro caricature che troviamo nelle opere di finzione), non solo per l’atteggiamento spregiudicato di questi nei confronti di regole e norme in nome di un miglioramento dell’umanità tutta, ma per il loro vendere un futuro che non è altro che un continuo presente rimasterizzato. Come Mickey, che a ogni decesso, viene ricopiato – in un certo senso remixato – pronto per un altro inutile test, mentre l’intera spedizione non è altro che propaganda politica di un imprenditore (Mark Ruffalo) e di sua moglie (Toni Collette). A tratti il film è molto divertente e nella prima parte ricorda le atmosfere di Brazil di Terry Gilliam, ma a mancare è un certo rigore narrativo che aveva reso il precedente Parasite un capolavoro. Mickey 17 parte con delle ottime premesse concettuali, per poi diluire il suo potenziale grottesco in un insipido adventure movie.