Nel novembre del 2024 minimum fax ha dato alle stampe, nell’impeccabile traduzione di Luciano Bianciardi (la medesima dell’edizione Rizzoli del 1968), Il coltivatore del Maryland di John Barth, imponente romanzo uscito nel 1960.
Imponente non solo per le sue millecento pagine, ma anche per la quantità di accadimenti narrati, per i riferimenti culturali contenuti, per gli impliciti eppure tangibili ragionamenti sui limiti del romanzo, che hanno presto elevato l’opera a punto di riferimento della letteratura postmoderna.
«Negli ultimi anni del diciassettesimo secolo» (così, dopo la prefazione di Giordano Meacci, inizia Il coltivatore del Maryland), l’inglese Ebenezer Cooke viene mandato nel Maryland, colonia del regno d’Inghilterra dal 1634. Lì avrà il doppio compito di amministrare la piantagione di tabacco di proprietà del padre Andrew e di scrivere un poema epico sulla colonia, commissionatogli da Lord Baltimore. Per tutto il romanzo Eben – il protagonista verrà spesso chiamato in causa con il nome di battesimo abbreviato – si troverà al centro di una fitta serie delle più svariate peripezie, tra rapimenti e naufragi, colpi di scena e mutamenti inopinati d’identità (espediente, questo, a cui Barth ricorre forse con eccessiva frequenza), attentati veri e metaforici: nel senso che a essere messe più volte a repentaglio sono sia la vita che la verginità di Ebenezer.
Tra i personaggi che affollano il romanzo citiamo almeno Anna, sorella gemella di Eben, Joan Toast, prostituta amata e venerata da Ebenezer, e soprattutto Henry Burlingame, educatore dei due fratelli oltre che personalità quanto mai proteiforme: nel corso della caleidoscopica narrazione non solo egli assumerà numerosi nomi e ruoli, provocando altrettanti ribaltamenti di situazione, ma sempre imprevedibile sarà il suo rapporto con Ebenezer: Burlingame sembra esserne maestro, amico, confidente, ma altrove pare irriderlo, tradirlo, addirittura meditare di abusare fisicamente di lui.
La scintilla comica, che si accende pressoché a ogni pagina, è in fondo sempre basata sull’equivoco, o meglio sul contrasto tra ciò che l’ingenuo Eben crede di essere, avere e vedere, e ciò che accade nella realtà. Abbiamo già detto delle molteplici identità rivestite da più di un personaggio, così come dell’amore purissimo che il protagonista prova per una prostituta (della quale si metterà alla strenua ricerca). Eben poi, appellato anche – con manifesta ironia – Poeta Laureato, inizierà a scrivere il suo poema epico, che ambirà a chiamare Marylandiade, tuttavia gli eventi in cui sarà coinvolto (ben più bizzarri o grotteschi che nobili) finiranno per convincerlo a redigere una satira.
Si potrebbe proprio prendere come esempio la Marylandiade, opera nell’opera di cui nel Coltivatore del Maryland sono riportati diversi stralci, per accennare alle due importanti caratteristiche del romanzo di Barth che, assieme alla mole, ne fanno l’opera imponente di cui dicevamo in apertura: i riferimenti culturali e la prospettiva metaletteraria.
Il poema, scritto (e tradotto) in modo inappuntabile per metrica e scelta lessicale, è una parodia dei più nobili esempi di epica classica. E nell’intero romanzo di Barth abbondano i debiti: da Omero a Cervantes, da Sterne a Voltaire, per prendere solo alcuni dei più evidenti. Inoltre, come accade nei migliori esiti del postmodernismo (di cui Barth è sia autore che teorico), il materiale preesistente viene non solo inserito ma anche discusso.
Per restare sulla Marylandiade, si pensi che il capitolo 26 (pp. 568-583) è quasi interamente costituito dalla lettura di passaggi del poema da parte di Eben, e dalla amichevole disputa di carattere letterario sorta fra lui e Burlingame dopo che quest’ultimo suggerisce al protagonista piccoli aggiustamenti semantici.
«“Sei gentile a lodare quest’opera”, disse Ebenezer. “Forse farà parte della Marylandiade”.
“Vorrei saper io girare un verso così bene. Ma dimmi, ora che l’ho fresca in mente, che davvero salvando fa rima con soltanto e antico con gradito?”
“Davvero sì”, rispose il poeta.
“Ma non sarebbe meglio”, insisté Burlingame cordiale, “far rimare salvando con solcando, diciamo, e antico con amico? Naturalmente, io non sono poeta”.
Non occorre esser gallina per giudicare le uova”, concesse Ebenezer. “Il fatto sì è che le rime che tu dici sono a un tempo migliori e peggiori delle mie: migliori perché assonano meglio alle parole con cui fan rima; e peggiori, perché tanto rigore non è alla moda d’oggi. Antico e amico: mancano di carattere, no? Ma in antico e gradito c’è sorpresa, c’è colore, c’è spirito. Insomma, c’è perfetta poesia satirica”» (p. 574, corsivi nel testo).
È come se, nel Coltivatore del Maryland, la forma romanzo si dilatasse fino a esplodere e perciò disintegrarsi. Non solo per mezzo di simili operazioni metaletterarie, ma per almeno altri due motivi. Il primo è rappresentato dalla moltitudine di possibili letture sia dell’opera nella sua totalità sia di alcune sue componenti. Considerando il solo Ebenezer Cooke, egli può apparire allo stesso tempo come personificazione del mito del buon selvaggio, alter ego del Candido volterriano (l’affannosa difesa della propria verginità) ed emblema della fine del sogno americano (il progetto del poema epico che lascerà il posto alla satira). Il secondo motivo è da rinvenire nella rottura del diaframma tra finzione e realtà: molti degli episodi storici e dei personaggi citati sono autentici; e proprio Ebenezer Cooke sono nome e cognome di un poeta secentesco davvero esistito.
Il coltivatore del Maryland è insomma un poderoso e brillante romanzo postmoderno, enorme contenitore di fatti, citazioni, rimandi, imitazioni e sberleffi, che vuole testimoniare l’impossibilità – per superamento del compito assegnatogli – del romanzo-romanzo, ormai concepibile solo come rielaborazione manieristica dei propri strumenti (e predecessori). Operazione condotta da un autore, John Barth, senza dubbio di vasta cultura, fervida fantasia e felicissima scrittura.
Qui, però, sta anche il grande limite del testo. Un’impresa del genere, per densità di riferimenti più o meno esibiti, è una continua sfida al lettore, opera aperta interpretabile a seconda della propria sensibilità e capacità di cogliere gli agganci al mondo – vero o finzionale che sia – disseminati in gran copia per le millecento pagine. Quasi per paradosso, siamo di fronte a un romanzo ipertrofico ma che allo stesso tempo si nega la possibilità di darsi; un romanzo, cioè, che con enorme dispendio di energie vorrebbe convincerci della propria insussistenza. Il risultato, almeno secondo noi, è quello di una lettura che sovente lascia ammirati ma che non emoziona mai, a differenza di quanto accade con opere che – rinunciando all’ambizioso ruolo di libri-mondo pronti a riassumere, oltrepassare e infine annientare ogni ipotesi narrativa – vogliono (e sanno) ancora scommettere sulla “semplice” trasmissione di storie.
Celebre è quanto scrive Umberto Eco nelle Postille al Nome della rosa:
«La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente. Penso all’atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una donna, molto colta, e che sappia che non può dirle “ti amo disperatamente”, perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c’è una soluzione. Potrà dire: “Come direbbe Liala, ti amo disperatamente”. A questo punto, avendo evitata la falsa innocenza, avendo detto chiaramente che non si può più parlare in modo innocente, costui avrà però detto alla donna ciò che voleva dirle: che la ama, ma che la ama in un’epoca di innocenza perduta. Se la donna sta al gioco, avrà ricevuto una dichiarazione d’amore, ugualmente. Nessuno dei due interlocutori si sentirà innocente, entrambi avranno accettato la sfida del passato, del già detto che non si può eliminare, entrambi giocheranno coscientemente e con piacere al gioco dell’ironia… Ma entrambi saranno riusciti ancora una volta a parlare d’amore».
Al contrario, noi crediamo che i bravi narratori possano ancora, e potranno sempre, raccontarci vicende in cui se un personaggio dice a un altro: “Ti amo disperatamente”, ai suoi lettori (per quanto colti essi siano) verranno gli occhi lucidi. Perché l’innocenza, per fortuna, non si misura in numero di libri letti.
John Barth, Il coltivatore del Maryland, trad. L. Bianciardi, minimum fax, Roma 2024, 1006 pp. 20,00€