La memoria, da sola, non basta. È fragile, si sfilaccia, muta. A volte scompare. Servono le prove. Una fotografia, un documento, una registrazione, un video testimoniano che esistiamo. Possiamo provarlo. Una tomba dimostra che siamo stati, un tempo: le nostre date incise sulla lapide depongono per noi. Un inizio e una fine. La morte di Rubens Beyrodt Paiva, deputato del Partito Laburista Brasiliano nel 1962 e dissidente contro la dittatura militare instaurata a partire dal 1964, sequestrato, torturato e ucciso nel gennaio del 1971, non ha invece fine. Il suo corpo non è mai stato ritrovato, l’esercito ha occultato la sua detenzione e l’omicidio, dichiarando l’evasione di Rubens subito dopo il suo arresto. Suo figlio, lo scrittore Marcelo Rubens Paiva, riempie il vuoto di una vita e di un corpo negati con un romanzo, Sono ancora qui (La nuova frontiera, 2024), in cui ai ricordi si mescola un’attività di ricerca strenua dei documenti e delle testimonianze, alternando un percorso documentaristico a pagine più propriamente narrative e autobiografiche.
C’è un momento che risalta, nella prima parte del libro, e che ha un ruolo di perno in questa vicenda di memoria e di lotta delle parole contro l’oblio: il 23 febbraio 1996, a San Paolo, presso l’ufficio di Stato Civile della 1° circoscrizione – Sé, Eunice Paiva riceve, dopo 25 anni dalla scomparsa, il Certificato di morte del marito e mostra sorridente il documento ai fotografi giunti per immortalare un evento epocale.
Dietro di lei suo figlio, costretto in sedia a rotelle a seguito di un incidente automobilistico, assiste alla scena e ha un’epifania:
«Dal marciapiede vedevamo la zona della baixada, il parco Dom Pedro (o ciò che ne restava), il quartiere di Brás (o ciò che ne restava) dove era nata mia madre, che mostrava alla stampa il certificato di morte, come un trofeo. Fu in quell’istante che capii: era lei la vera eroina della famiglia; era di lei che noi scrittori avremmo dovuto scrivere» (p. 35).
È infatti Eunice Paiva la protagonista di Sono ancora qui. La narrazione della sua vita riflette la storia del Brasile, dal periodo della dittatura alla restaurazione della democrazia nel 1985, alla voglia di libertà e rivalsa sociale degli anni seguenti. Eunice Paiva ha vissuto quattro vite, unite tra loro da un senso di volontà e di orgoglio che l’hanno fatta diventare un’icona di resistenza attiva contro la dittatura: figlia di una famiglia numerosa di origine italiana; moglie dell’ingegnere Rubens Paiva e madre di cinque figli; vedova che rifiuta da subito la condizione di vittima, si laurea in Legge e inizia la professione di avvocato, specializzandosi in diritto indigeno e difendendo le popolazioni decimate ad opera dei militari per procedere al disboscamento dell’Amazzonia, con il plauso degli Stati Uniti; infine, a poco più di settant’anni, quando avrebbe potuto finalmente godere dei frutti della sua vita travagliata, affetta da Alzheimer, per paradosso il disturbo della memoria.
C’è un’altra immagine molto rappresentativa di Eunice: una fotografia scattata nel marzo 1971 dagli inviati di una rivista di gossip, Manchete, che ritrae la famiglia Paiva, padre assente. Salvo la maggiore, Veroca, appena tornata da Londra e a conoscenza di molte più cose dei fratelli, grazie alla stampa estera che riusciva a forare la censura, sono tutti sorridenti, compresa Eunice, nonostante avesse trascorso dodici giorni di prigionia al DOI-Codi, nello stesso edificio e nelle stesse ore in cui, a sua insaputa, suo marito veniva pestato a morte dai «gorilla» del regime.
«Il fotografo protestava: siate seri, più tristi, più infelici. Non ci riuscivamo. O non volevamo. L’irriverenza ci ha sempre ispirato. Oggi osservo quella foto e leggo negli occhi di mia madre: chi credi di essere per renderci infelici? Siamo indignati. Non è la stampa a imporci l’agenda, siamo noi a imporla a lei» (p. 147).
La rappresentazione di Eunice nel romanzo non ha nulla di retorico: una donna poco affettiva, molto fiera del suo aspetto, molto assente, perché occupata a reagire e mantenere da sola cinque figli. Attenta, precisa, brillante nello studio. La sua risposta all’oppressione è stata non personale, ma politica, da esperta di Legge. Nel 1968, con il decreto Al-5, venne negato l’habeas corpus, la garanzia che attestava la detenzione di un imputato e le ragioni del suo arresto, per i dissidenti politici contro la sicurezza nazionale. Eunice Paiva ha dovuto lottare perché l’esercito ammettesse l’arresto di Rubens, subendo l’infamia della legge sull’amnistia del 1979, volta a condonare i militari che negli anni della dittatura si erano macchiati di reati di tortura e omicidio. Nella sua terza vita ha avuto un ruolo di primo piano nella lotta per una verità che ha iniziato a forare gli schermi di omertà solo dopo il 1985, grazie alle testimonianze di alcune personalità chiave che nel gennaio del 1971 erano in servizio al DOI-Codi. Solo nel 2014 è stato ricostruito pienamente quanto accaduto nella notte tra il 21 e il 22 gennaio 1971. Il caso però non è ancora chiuso e i colpevoli non hanno ancora ricevuto la condanna definitiva.
Ma la memoria è ora pubblica, condivisa, grazie a un libro che è allo stesso tempo personale e politico. E grazie al film omonimo di Walter Salles, fresco di vittoria del Premio Oscar 2025 come miglior film internazionale, che vede protagonista Fernanda Torres, candidata all’Oscar e vincitrice del Golden Globe come miglior attrice in un film drammatico per la sua interpretazione asciutta e priva di pathos, in linea con il carattere di Eunice Paiva.
Salles, che aveva già ottenuto un Golden Globe per il miglior film straniero nel 1999 con Central do Brasil, con al centro un’altra figura femminile interpretata dalla madre di Fernanda Torres, Fernanda Montenegro, concentra la sua attenzione sull’aspetto più narrativo e umano della vicenda e un ruolo di primo piano assume la casa in cui la famiglia Paiva ha vissuto, nel quartiere di Leblon a Rio de Janeiro, che lui ha frequentato da piccolo essendo molto amico di Nalu, la sorella minore di Marcelo. È rappresentata come un luogo luminoso, sempre aperto a chiunque volesse entrare, pieno di musica e amici, separato dalla spiaggia soltanto da una strada in cui Marcelo giocava a calcio con altri ragazzini del quartiere. Il primo gesto dei poliziotti quando, il 20 gennaio 1971, fanno irruzione per arrestare Rubens è oscurare tutte le finestre tirando le tende. Ed è così che la cortina di ferro della guerra fredda cala anche in Brasile, come in seguito in Cile e in Argentina, con una dittatura imposta per il timore di un’ombra comunista che non c’era. Resta la memoria di ciò che è stato e che finalmente emerge, grazie a Marcelo Paiva e al suo libro che fa scoprire la dittatura agli stessi brasiliani, immersi in un passato di oblio che adesso, finalmente, si disperde. E grazie al sorriso di Eunice Paiva rivolto a chi avrebbe voluto vederla a terra, grazie alla musica che i torturatori utilizzavano per coprire le urla delle loro vittime, opera di artisti costretti all’esilio. Tutto è stravolto in guerra, ma non il confine tra chi infligge dolore e chi si difende.
Marcelo Rubens Paiva, Sono ancora qui, La nuova frontiera, Roma 2024, pp. 285, 18 €.