Dopo qualche anno di autoesilio mediatico-editoriale, Violetta Bellocchio torna sugli scaffali delle librerie con Electra (Saggiatore, 2024), un denso volume di più di trecento pagine che gravita nella nebulosa della scrittura non-fiction, ma non è un memoir né un’autobiografia.
Per cominciare, potremmo definire Electra il resoconto, per lo più in prima persona, della sparizione di un corpo. Se guardiamo alla sinossi, cito dalla sovraccoperta, il libro racconta il momento in cui Bellocchio decide di scomparire «dopo che un uomo ha abusato di lei nel tragitto verso casa». Durante i primi mesi del 2020 la persona pubblica dell’autrice, anche approfittando di quello che sarebbe stato il primo lockdown, decide di scomparire da social media, copertine di libri, testate giornalistiche ed eventi editoriali per poi assumere l’identità fittizia di Barbara Genova. Non sono anni di vero silenzio, bensì di lavoro intenso, tanto disciplinato quanto anarchico, in cui Bellocchio non si limita a adottare uno pseudonimo ma pensa bene di incarnarlo per tentare un esperimento: continuare a scrivere ripartendo dal nulla, in una dimensione di invisibilità e pieno controllo del proprio tempo.
Proprio perché tra le esperienze raccontate vi è una violenza sessuale, è ancora più importante chiedersi che rapporto si crei tra il piano della parola e il piano del reale, tra la forma scelta e il suo contenuto. Raccontare pubblicamente una violenza subita è un atto coraggioso. Chi racconta in prima persona rivendica una forma di controllo su quanto è successo attraverso l’atto stesso di nominazione, emancipandosi in un percorso di riappropriazione che può spingersi fino al territorio della creatività. Raccontare una violenza però implica spesso una messa a nudo che può avere dei costi molto alti. Può capitare di rivivere il trauma nel momento in cui ci si trova a raccontarlo o riscoprire una gamma di sensazioni negative, come la vergogna o il senso di colpa, che possono palesarsi all’interno di una società dove prendere la parola, farsi ascoltare ed essere credute è ancora troppo difficile. Il rischio, quindi, è quello di esporsi a occhi e giudizi diffidenti che metteranno in discussione la verità del contenuto e la posizione da cui si parla, o di rimanere intrappolate entro il perimetro di una narrazione vittimaria, esponendosi al rischio di un risultato stucchevole e di una prosa ombelicale.
Di tutto ciò – degli auspicati benefici come dei potenziali rischi, letterari e personali – Violetta Bellocchio sembra consapevole perché ne fa esperienza diretta. La prima sezione del libro, infatti, problematizza le aspettative che nascono dall’atto stesso del racconto di sé quando l’esperienza narrata è una violenza. Questo però è solo il punto di partenza di un testo che mira a sviluppare soprattutto la tematica della visibilità – intesa qui come un essere viste ma anche e soprattutto pubblicamente riconosciute. Proprio per questo, mi sembra che Electra provi a interrogare le modalità stesse della confessione, chiedendosi cosa può accadere alla nostra prima persona in due circostanze particolari: quando dipendiamo dall’atto stesso di raccontarci o esporci per esistere; quando lo sguardo di chi ascolta sembra cannibalizzare la nostra voce.
Alla prima parte del libro, che prende il nome dell’autrice, è demandato il racconto di quello che succede prima della sparizione: vediamo una scrittrice intrappolata nelle logiche di un sistema editoriale e letterario che non può reggersi sulla sola fruizione dei libri. Un sistema a cui occorre una «piattaforma» (p. 11), fatta di un pubblico e un palcoscenico, dove accumulare un capitale simbolico che possa garantire le condizioni di partenza per produrre capitale economico. Per poter lavorare, che sia a un podcast o a un nuovo libro, Bellocchio sente di doversi adeguare al circo di campagne pubblicitarie e promozionali che coinvolgono la sua immagine pubblica molto più del suo lavoro. In altre parole, a venir espropriate non sono solo il tempo e le energie che potrebbero essere meglio impiegate nello scrivere, ma anche il corpo stesso, in linea con quella che Giuliana Benvenuti in un pezzo comparso nell’agosto 2023 sul quotidiano Domani descrive come una «cessione di autorialità» funzionale alla necessaria «brandizzazione dell’autore».
Devo rendermi visibile. Per fare questo, è necessario avere un calendario zeppo di eventi pubblici. Devo promuovere il mio libro, ma non solo. Servono fotografie, dibattiti, appuntamenti, locali notturni, andare alle feste. (p. 100)
Questa ricerca di visibilità, con l’ingiunzione a parlare di sé che implica, riguarda un po’ tutti. In un’epoca dove la comunicazione online rende impossibile sparire davvero, l’impulso spasmodico all’auto-narrazione e all’auto-esposizione sembra una condizione necessaria per sentirsi esistere fino a rendere obsoleto quello che resta fuori dagli schermi. Come scrive Bellocchio, «[c]hi è nato e cresciuto nell’esercito dei fantasmi non prova simpatia per l’invisibilità come scelta… Come se il panopticon non arrivasse per tutti» (p. 14).
Questo è lo scenario in cui vediamo barcamenarsi non solo l’autrice-personaggio: Violetta Bellocchio che scrive di Violetta Bellocchio. Ma anche quella che, a questo punto, chiamerei il suo personaggio-autrice. Tutto questo finché una notte, alla fine del mese di aprile del 2018, Bellocchio torna a casa e un uomo sconosciuto le salta addosso e abusa di lei, nella zona di piazza Vetra a Milano. La rappresentazione dell’aggressione risulta frammentata e non viene mai presentata in maniera lineare, come se si sottraesse allo sguardo cannibale di un potenziale lettore. Procede, invece, per ellissi e salti temporali in una forma già mediata: il racconto dello stupro che leggiamo sulla pagina riporta quello fatto alla questura quando Bellocchio deciderà di denunciare.
È proprio in questa circostanza particolare che assistiamo alla dissociazione di una voce narrante che si trova a dover conciliare la propria versione con quella attesa dal personaggio-vittima che le viene assegnato a priori e che Bellocchio sente di essere obbligata a incarnare. E allora alla violenza fisica dell’aggressione inizia a sommarsi una violenza simbolica che colpisce il linguaggio, la capacità di raccontarsi in prima persona e farsi ascoltare per quello che si vuole dire.
Uno degli episodi emblematici è proprio la stesura del verbale, quando a redigere la dichiarazione è uno dei poliziotti. Scorrendo la pagina, Bellocchio trova scritta la parola “vergogna” anche se lei, quella parola, non l’ha mai pronunciata:
Questa è una cosa che io non ho detto. La parola «vergogna» mi salta all’occhio sulla pagina come se fosse scritta in stampatello. Non ho provato nessun profondo senso di vergogna – non lo sto provando nemmeno adesso che ho dovuto spiegare. (…)
Non lo so, possiamo mettere spaesamento? Disorientamento?
Chi si fa venire scrupoli sul linguaggio se davvero è appena uscita viva da un reato contro la persona? Chi chiede un sinonimo alla polizia?
Non lo so: tu? (pp. 62-63)
Lo scontro tra gli orizzonti d’attesa del resoconto immaginato e il racconto effettivo si consuma nello sdoppiamento paranoico della voce narrante che si scopre adoperare il linguaggio del colpevole, in una lenta trasformazione che non risparmia nemmeno la lingua madre sfuggita al controllo di chi la esercita.
Speravo / di «cavarmela» / con / «aggressione». (…) È stato questo a destare stupore? È stata questa frase a buttarti fuori dalla corsia delle vittime per atterrare in quella dei sospettati? (p. 64)
Che razza di vittima usa il linguaggio del colpevole?
«Cavarsela.» Come se la vittima non se ne fosse stata seduta lì in ufficio tutto il tempo, una comparsa col suo abitino al ginocchio e la faccina scura, che cercava di svincolare in cortile chiedendo se poteva fumare, e noi l’abbiamo pure lasciata andare a fumare, come se la vittima in realtà stesse cercando di soppesare la gravità e le ripercussioni di quello che ha fatto lei. (p. 65)
Lo stesso accade nel «corridoio dello stupro» (p. 75), durante la trafila di esami e controlli medici che seguono la denuncia di aggressione, o nei gruppi di auto-aiuto, quando la sensazione non è solo quella di mal interpretare la propria parte («Sta’ zitta e resta nel personaggio!», p. 89) e che la propria reazione non sia credibile, ma che sia proprio «il linguaggio a spostare il tuo nome dal colonnino della vittima a quello del sospettato, del presunto colpevole».
Mentre si trova ancora in questura, le viene chiesto se il suo aggressore l’abbia riconosciuta oppure no. La domanda implicita è se il suo aggressore abbia abusato di lei proprio perché Violetta Bellocchio, una persona pubblica. Come scrive lei stessa, e come ha riportato durante una presentazione a Milano, Bellocchio si è trovata a non sapere quanto la sua immagine abbia influito o meno sulla sua aggressione, il che ha rappresentato un punto cruciale rispetto alla decisione di sparire. Allo stesso tempo, la visibilità appare un ulteriore motivo per non raccontare, un inciampo che potrebbe impedire la corretta ricezione. Come le suggerisce un fumettista con cui Bellocchio stava collaborando in quel periodo, è bene non parlare troppo per non rischiare di essere fraintesi.
Non dire niente, mi fa questo, perché io ti credo, ma l’ambiente fa talmente schifo che verrà di sicuro fuori quello che dice che ti sei inventata tutto quanto solo per spostare la conversazione su di te. (p. 81)
Nonostante l’aggressione occupi uno spazio centrale all’interno della narrazione, fungendo da evento spartiacque tra un prima e un dopo, tra Violetta Bellocchio e Barbara Genova, si ha come l’impressione che l’autrice non voglia rivendicare un legame di necessità o di causalità diretta tra l’abuso che ha subito e gli eventi accaduti in seguito, pur non negandolo nemmeno. Scrive, infatti, Bellocchio:
Non lo posso sapere, però io credo che tutta questa storia per come l’ha innescata la sequenza di eventi nella settimana in questione avrebbe potuto prendere solo e soltanto la piega che prenderà quando me ne andrò; ma a volte penso che avrei finito per fare le stesse scelte senza bisogno di incidenti scatenanti. (p. 95)
Questa precisazione, che arriva a un terzo del libro, sembra quasi voler spodestare il trauma, privarlo del potere di legittimare quanto succederà dopo, spogliarlo del diritto di autore sul racconto stesso.
È curioso che il primo testo su cui Bellocchio decide di lavorare dopo quanto avvenuto nei mesi precedenti sia un thriller in prima persona la cui protagonista è una terrorista americana a Milano: una criminale senza nome la cui missione è far esplodere Electra, il grattacielo finzionale che avrebbe dato il titolo al romanzo. Ancora più curioso è il fatto che, in questa chiusa della prima sezione, il racconto sia intriso di azioni e atmosfere proprie del romanzo poliziesco e fantascientifico, quella narrativa di genere già sperimentata nell’ultimo romanzo pubblicato proprio prima di sparire, La Festa Nera (Chiarelettere, 2018).
Un personaggio femminile mi piace a un punto tale che cerco di trasportarlo fuori da qui, non voglio «salvarla» ma avere nuove avventure con lei – la sua sopravvivenza serve a me – allora scatta l’ipotesi: questa ragazza sta al gioco ma lo intuisce, quanto grave sarà la faccenda e quanto poco ne uscirà bene lei (…), la ragazza inizia a tendere l’occhio altrove, e io le faccio arrivare un cellulare non tracciabile e un taser apposta in un bar, busta chiusa, e poi le faccio oltrepassare il confine con la Svizzera (…). (p. 157).
La sua trama, gli ambienti, i personaggi sembrano entrare nella realtà a un punto tale che in poche pagine il racconto “Electra” e la realtà che Bellocchio sta raccontando a noi nel libro omonimosembrano confondersi in modo allucinato come a indicare l’insediarsi di una finzione: quell’identità fittizia che presto plasmerà la realtà della sua autrice e, quindi, le condizioni materiali della sua scrittura.
Con la seconda parte, intitolata la «Sconosciuta senza nome», siamo al 2020: con lo scoppio della pandemia, quando sparire sembra tutto sommato più semplice e al trauma individuale si aggiunge un trauma collettivo, Bellocchio incomincia a far perdere le proprie tracce e spogliarsi dell’accumulo. Vendere tutto, i propri abiti e oggetti, cambiare domicilio, non possedere quasi più niente.
Il 2020 viene soprannominato l’anno del «drift» (p. 187), il movimento involontario che l’autrice decide di assecondare mimando i gesti del personaggio di finzione – la criminale, una colpevole? – a cui stava effettivamente lavorando.
Perché dovrei scrivere un romanzo thriller quando posso realizzare un thriller dal vivo in tempo reale, prendendo in mano la regia dell’operazione? (p. 178)
Se nascondersi, dopo tutto, è quello che fanno i colpevoli, in questo caso il moto di deriva – il drift – viene girato sottosopra e diventa la maniera per riappropriarsi della posizione in cui Bellocchio si è sentita costretta; un percorso di rinascita e una strategia per abbandonare il corpo che ha subito violenza e il corpo del personaggio-autrice.
La terza parte, intitolata non a caso «Barbara Genova» si configura come «la prima biografia in terza persona» (p. 223) del proprio pseudonimo. Una biografia nel senso letterale del termine. Infatti, mentre racconta i mesi in cui radicalizza il suo nascondimento e assume un’identità fittizia per dedicarsi principalmente alla lettura e alla scrittura, Bellocchio ricostruisce di fatto la nascita di questa seconda persona, le sue peripezie, i suoi successi, persino i suoi innamoramenti. Una biografia che però è anche un po’ autobiografica se è vero, come direbbe il teorico del genere Philippe Lejeune, che lo pseudonimo non rende meno vero il proprio récit de soi.
Da questo punto di vista, non è tanto la prima persona autobiografica in sé, l’identità tra autrice (intesa come il nome con cui si firma la propria opera), narratrice e personaggio a essere messa in discussione, quanto il rapporto di scarto o interferenza tra il personaggio della prima persona, costruito sul corpo dell’autrice, e la sua voce. Non è un caso che il romanzo a cui Bellocchio stava lavorando resterà incompiuto. La possibilità di dire “io” per raccontare un sé d’invenzione sembra qui foriera di rinascita solo nella misura in cui la finzione dietro cui nascondersi tracimi la parola per farsi realtà.
Tanto radicale è il cambiamento che, negli scritti che firma sotto pseudonimo, l’autrice si trova persino a cambiare lingua, passando dall’italiano all’inglese, una «seconda lingua madre» (p. 190) che sembra necessaria per poter continuare a lavorare, «fare la revisione al sistema nervoso» (p. 190) e cambiare il modo di camminare. Se la scrittura è una voce su cui si ha pieno controllo, la lingua parlata, sgorgando dal proprio corpo, rischia di venir cannibalizzata dall’esposizione allo sguardo dell’altro. La perdita di controllo sulla lingua parlata, la scissione con la lingua scritta, hanno significato la perdita della «forma», quindi dell’autorialità del proprio racconto. D’altronde, se si è costrette a «spiegare», è sempre per giustificare la presenza della propria voce o il suo diritto di esistere.
Lo sdoppiamento, o meglio la nascita di una «seconda persona» (p. 254) nel nome di Barbara Genova, non ha una natura figurale: quella che sembra la risposta a una dissociazione identitaria a seguito di un trauma è anche una creazione tutta reale che le permette di liberarsi dal suo personaggio-autrice, dall’intreccio di significati raggrumati sul suo corpo, dalla loro priorità sulla voce, ovvero la scrittura. Così, in poco più di nove mesi, Barbara Genova arriva a confezionare un portfolio di pubblicazioni internazionali di una ricchezza impressionante, specie se si considera che chi scrive è a tutti gli effetti poco più che una sconosciuta, apparsa all’improvviso dal nulla.
L’habitat ricostruito per lavorare non è uno spazio di abbandono; anzi, è molto lontano dalla romanticizzazione dei cambio-vita che ha spopolato sulla stampa mainstream dopo la pandemia. È una dimensione sì disciplinata, nevrotica, quasi ossessiva, e perfino tossica, ma che non ha nulla a che fare con la performatività della persona pubblica e col suo precedere la persona che scrive. È creazione deliberata di una rinnovata unione di corpo e voce nel corpo della scrittura, la cui portata materiale è ben espressa dall’espressione inglese «body of work».
No, io sono la mano che batte sui tasti, sono lo scheletro dentro la pagina. Ogni linea di ogni pagina prodotta e accettata, ogni sì, e ce ne sono, ce ne saranno, ogni singola barra sta formando le ossa della mia seconda persona. Questo l’ho fatto io. Questa è la casa che con la mia mano sto costruendo da zero. Di questo parliamo quando parliamo di body of work.
Io sono il mio lavoro. (p. 254)
La riappropriazione dell’autorialità passa quindi per uno scrivere che si emancipi dalla dimensione dell’esposizione, dal modo in cui questa sembra predisporre le condizioni di esistenza della scrittura. «Fingevo di essere consenziente» – scrive Bellocchio nel Prologo – «fingevo di essere disponibile alla messa in commercio del mio volto e del mio nome (…) perché sapevo che nel minuto in cui si sarebbero smorzate le chiacchiere sul mio conto non avrei lasciato traccia» (pp. 12-13).
Electra è la traccia che prova il contrario. Una messa a nudo sotto mentite spoglie in cui al centro del lavoro non vi è più un’immagine, ma un corpo riunito alla sua voce. Allora non si tratterà più di essere viste per essere lette; ma di essere lette e quindi essere viste.

Violetta Bellocchio, Electra, Milano, Il Saggiatore, 2024, pp. 36, € 18.